Maya Arulpragasam è una fascinosissima donna dalle origini cingalesi, figlia di un attivista politico e musicista con un'idea molto chiara: suscitare interesse verso un mondo dimenticato, facendo convivere invettiva e ballo ("scrivere cose importanti e farle suonare come nulla"). Le carte in regola per diventare sensazione. Il violento e fresco "Arular", disco d'esordio, uno dei più chiacchierati e apprezzati del 2005.
Un anno e mezzo dopo, il ritorno. Non inganni la copertina pseudo-patinata, "Kala" si pone nel solco scavato dal predecessore e ne continua la storia ("Somalia Angola Ghana India Sri Lanka Burma Bamboo Banga. It's a Bamboo Banga, I said Bamboo Banga"). M.I.A. non scherza affatto, e cerca per le sue, ehm, "cose da dire", i contenitori più appropriati.
Il suo capitolo due non è ossessionato dalla ricerca costante del singolo a ogni costo. Vira su equilibri difficili e involuti (la foresta gracchiante e assaltata in "Bird Flu", una bomba implosa; il basso scuro e ammiccante di "Mango Pickle Down River", cantata con dei bambini). Si apre a stili differenti (rivisita la disco-music in "Jimmy", chitarrina, batteria elettronica e violini; rallenta i battiti nella ipnotica mezza ballad "The Turn"). Accumula sostanza e ritmi (gli squittii elettronici che spingono "World Town" e "XR2"). Cita, cita e cita (New Order, Clash, Pixies, Modern Lovers).
Il lavoro è smisurato e profondo, il risultato lascia gustare con piacere, anche più dell'esordio. Il talento, poi, sublima nella fantastica "Paper Planes", spaventosamente trasognata, fra coretti, spari e registratori di cassa (e un grandissimo testo).
"Kala" è disco centrato, seppur non un capolavoro, e probabilmente M.I.A. non ha ancora fatto detonare il suo potenziale a pieno e con costanza. Nonostante ciò, che artisti così coraggiosi finiscano per ricevere titoloni sulle pagine dei giornali, di qualsivoglia giornale, non può che essere un bene.
29/09/2007