Già co-titolare di alcuni progetti di rock alternativo (dalle "sue" Scissor Girls, ai Flying Luttenbachers, ai Miss High-Heel), la chicagoana Azita Youssefi approda, con “How Will You?”, alla sua conferma cantautoriale. Questo suo nuovo full-length, che segue di qualche anno la colonna sonora di “Detail From The Mountain Side” (Drag City, 2006), torreggia come il punto di massima regressione classicista della sua carriera (solista e non).
A partire da una maglia stilistica relativamente sempliciotta (di volta in volta un trio o un quartetto rock composto del suo piano, di sezione ritmica e di chitarra appena elettrificata), Azita sa cavare la massima suggestione possibile, anche nell’armonia piuttosto generica da sottofondo di “I’m Happy”. “Away” riesce comunque a risuscitare lo spettro della Nico più ingentilita, in un arrangiamento in sordina che di quando in quando s’impenna per condividerne il tono.
Così fanno “Laughter Again”, i suoi unisoni rarefatti e i suoi scatti nevrotici, ma il suo nuovo standard di madrigale dimesso - pur pregno di fragilità dimessa - risplende soprattutto in “Lullbye”, tanto nobile nella compassionevole processione quanto espressionista nel successivo scatto spagnoleggiante.
Azita nel mentre approda vaudeville signorili che scovano eleganti flussi di coscienza: “Things Gone Wrong”, stridente tra legato jazzati di piano e canto agrodolce, e “How Will You?”, praticamente un semplice sceneggiato centrato sulla sua vocalità.
Quindi termina il suo viaggio con un paio di speculazioni metafisiche basate su palpitazioni strumentali minime, quali “Come William” (un recitativo per cellula minimalista di piano, feedback maestoso e vocalizzi in trance) e la più introspettiva “You Really Knew How To Turn It On” (passo post-rock, impasti timbrici di chitarra e piano, mood sconsolato). Il piano tace nella conclusiva “Scylla And Carybdis”, un soliloquio disperato di vocalizzi (i più avventurosi del lotto) e chitarra acustica.
Ciclo di cantate anti-megalomani, più che di vere canzoni, il terzo album della cantantessa di origini iraniane (un ibrido di Nico, Nyro e Patti Smith, riveduto all’era di Heather Duby e delle cantautrici della sua stessa parrocchia, la Drag City) adotta una mimica da parabola costernata sull’esistenza femminile, qua e là boriosa, eppure disorientante nell’umore tagliente, nella costruzione adulta dei brani, nel portamento più che distinto. Un movimento immobile.
15/04/2009