Ormai affermatissimi anche in campo internazionale, i Black Dice si sono permessi, nei due anni passati, di ciondolare tra progetti paralleli, impressionanti live set e rimescolamenti del concetto-band. “Repo”, l’album che segue di due anni “Load Blown”, non fa che confermare la tendenza, sempre meno visionaria e sempre più concentrata sul livellamento di effetti sonori, tanto retro quanto iper-elettronici.
Emblematici sono anzitutto gli interludi, da “Idiots Pasture” a “Buddy”, in cui l’idea di sample abbandona la significazione metaforica per scoprirsi nella propria nudità di sample. Se trucchi ormai desueti come il big beat di “Glazin” o il pastiche scandito di “Lazy TV” (che appiccica un dub minimale piuttosto gratuito) - a mo’ di commercial per decerebrati - cominciano a infastidire, il loro stile tipico riprende forza in “La Cucaracha”, un pattern tribale sottoposto a due variazioni, la prima calypso e la seconda hardcore techno, con andirivieni di vociare sfigurato. “Earnings Plus Interest” miscela hip -hop con un carnevale brasileiro sintetizzato.
Diversi brani sono già più soprassedibili, dai riverberi di “Vegetable” al risaputo bombardamento di “Ten Inches”, fino al siparietto di “Gag Shack”. “Nite Creme” è una prosecuzione del tardo stile, ma rimane più idea che musica, mentre “Chicken Shit” flirta con il cyberpunk, l’hard electro degli Add N To (X) e l'onomatopea distorta del verso gallinaceo, pur riscoprendo le radici poliritmiche dell’ormai indipendente Bharoocha. “Ultra Vomit Craze” è un altro big beat con sax, chitarra acida e mormorii elettronici, che nell’ultimo minuto si discanta in un baccanale free.
Il disco, il sesto escludendo gli arcipelaghi di uscite parallele, in sé non tiene; però ha alcune carte in regola, dai pezzi piacioni a una studiata procedura di effetto sorpresa, alla gocciolante mappatura sonora. “Ultra Vomit Craze” potrebbe essere la loro prima hit, ma il miglior tiro ce l’ha “Chicken Shit”. E’ l’opera “urbana” della band del Rhode Island, e c’è il disguido: l’urbanità malata l’avevano già descritta, filtrandola con l’era digitale e una preistoria mostruosa, in un non-luogo noto solo a loro. Qui girovagano con le loro armature magiche in quella stessa giungla, limitandosi a disquisire con pungente arguzia.
12/04/2009