Vivere di rendita è una strategia che alla lunga rivela i suoi limiti, e questo è quello che sembra accadere anche agli inglesi Misophone, che a furia di pescare dall’enorme serbatoio di brani scritti negli anni passati riassemblandoli a ritmo serrato in nuovi album, forse iniziano ora a intravedere il fondo del barile. A circa sei mesi dalla pubblicazione del caleidoscopico “Be Glad You Are Only Human”, infatti, il duo Herbert-Welsh si ripresenta con un nuovo lavoro che somiglia molto a una raccolta di b-sides, conservando solo qualche barlume d’ispirazione in un complesso corale discontinuo e confuso.
“I Sit At Open Windows” è caratterizzato da un approccio sapientemente lo-fi, talora in grado di donare ai brani un sapore piuttosto amatoriale nella sua essenzialità (“Castles In The Sand”, “Days Of Regret”), più spesso arricchito da stratificazioni strumentali e rumorismi di ogni sorta.
Tornano nuovamente alla ribalta le atmosfere inquietanti “da carosello degli orrori” che alimentavano la magnetica follia di “Be Glad You Are Only Human”, delineate qui dallo stillare cadenzato di glockenspiel e music box, dal sussurro spettrale della singing saw e dall’incedere plumbeo dell’organo (“Oradea At Dawn”, “A Ghost Of Right Wing America”, “Lost March For The Dead”, “Rest Asleep”). Imprevisti viaggi onirici in terre lontane (il tripudio balcanico a chiusura di “Rest Asleep” o le movenze orientaleggianti di “Bull Horn Instrumental”) e contaminazioni schizoidi di blues (“Cow Bell Blues”) contribuiscono a sbriciolare il lavoro in frammenti slegati, privi di un collante che li unisca, tenuti insieme forse solo dalla matrice psych-(più o meno)-pop che si rivela però dispersa in un quadro tutto sommato poco definito.
“I Sit At Open Windows” sembra conservare integra la raffinata sperimentazione del suo predecessore ed è pervaso da quelle stesse atmosfere di dolce inquietudine che caratterizzavano “Be Glad You Are Only Human”. In questo lavoro, tuttavia, i colori pastello della componente più pop vengono rimaneggiati in maniera non troppo convincente e se si escludono sporadici episodi (“Castles In The Sand”, “A Ghost Of Right Wing America”) le melodie passano quasi sempre in sordina, lasciando poca traccia di sé alla fine dell’ascolto.
Seduti davanti alla finestra, i Misophone se ne stanno emblematicamente a guardare fuori, catturando colori e suoni senza particolare trasporto emotivo. Speriamo che tornino presto all’aria aperta, a cavalcare sulla loro spaventevole giostra pop e a deliziarci con nuovi incubi al profumo di zucchero filato.
02/06/2009