Tinte noir, narrazioni vibranti, tratti melodici incisivi e marcati più che mai dall’ugola caldissima di Paola Colombo - chanteuse come non se ne vedono più in giro da eoni - incarnano l'essenza e l'audacia dei Dilaila. Se dovessimo confrontarli con qualsiasi altra band italiana odierna, sarebbe quasi grottesco dedurne le similitudini. Piuttosto, occorrerebbe scomodare le lancette dell’orologio e tornare indietro di due decadi, o forse più, fino a raggiungere la Strambelli e i Matia Bazar più introspettivi.
“Ellepì” è un disco che trasuda concitazioni interiori a iosa, dirama tenebrose prese di coscienza, il principio di una nuova armonia, indossa “maschere infantili” e si “batte come un samurai” nei complicati ingranaggi del cuore, senza ricorrere a stratagemmi di contorno o artifizi produttivi. In tal senso, la band mostra un’accuratezza strumentale dei dettagli a tratti sopraffina. I percorsi e le melodie mutano a seconda degli umori. E così, "Settembre" evidenzia l’algida rassegnazione di una donna che ha perfettamente intuito la fine del proprio rapporto, in un tran tran di smanie reiette e flussi celati dell’Io. Allo stesso tempo, la disperazione lucida de “Il tamburo di latta” getta gli ultimi cocci di una relazione conclusa nel peggiore dei modi, in un’ostentazione plurima di assolute “verità” e accettazione non corrisposta.
Se “Pensiero“ fosse uscita a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, avrebbe senz’altro arricchito le casse della RCA, mentre “Ally” ondeggia soave al centro del piatto, nell’apprensione/stupore di un miracolo amniotico che stenta a essere compreso o razionalizzato.
È la canzone d’autore italiana che rimostra i suoi artigli, ritrova le sue muse e i suoi orchestrali lontana dai riflettori e dagli inganni.
Abbiatene cura.
(01/10/2010)