Eretto a simbolo dell'
ondata ipnagogica, il promettente Alan Palomo torna in uno studio di registrazione dopo quasi due anni di estenuante trafila nei circuiti
live indipendenti, qualche rivisitazione in presa diretta dei singoli-bomba lanciati nel luminoso "
Psychic Chasms" e una conturbante
jam session psycho
-sintetica, ovviamente tramutata in disco, con i sempreverdi
Flaming Lips.
"Era Extraña" si presenta quindi con tutte le carte in regola per assemblare al meglio quanto assimilato e partorito finora. Un ritorno atteso, quello di Palomo, che segue di qualche mese tutta la ciurma
chilly/hypna ripresentatasi perlopiù dagli States e nelle forme più svariate, a imporci inesorabilmente di tirare le prime somme circa la consistenza di un fenomeno localizzato e definito con non poche difficoltà verso la fine del decennio appena trascorso.
Rimodellate le trasognate divagazioni al synth, il giovane texano cerca in qualche modo di inseguire una forma canzone "pop" con tratti ben più precisi, zigzagando in quel suo microcosmo fanciullo di giravolte elettroniche talvolta finanche con maggiore pulizia. Ecco così presentarsi l'arduo compito di "confondere" la natura stessa dei suoni/campionamenti di riferimento (videogame stellari rigorosamente anni Ottanta e virtuosismi analogici dell'epoca) con una struttura a tratti più organizzata e meno impulsiva (si prenda ad esempio il singolo "Arcade Fire"), in un disperato tentativo di lasciare intatta l'aura magica che sovrastava il folle assetto sonoro dell'esordio, assimilabile, per l'appunto, a un'allucinazione ipnagogica.
Tralasciando i tre momenti strumentali, brevi e pressoché insignificanti ("Heart: Attack", "Heart: Decay" e "Heart: Release"), in "Era Extraña" Palomo insiste a fasi alterne nel proporre questa sua irritante fusione, cogliendo l'incastro e il giro giusto solo nella magnetica
space-ballad "Fallout", laccando qualche ipotetica
b-side del primo lavoro ("Polish Girl") e insistendo troppo su motivetti irriverenti ed effimere piroette ("Hex Girfriend"). Stavolta al ragazzo manca il guizzo acerbo e l'illuminante traccia mnestica da colorare al synth. L'insipido costrutto malinconico di "Halogen (I Could Be A Shadow)" ne è prova lampante, così come le pulsazioni liquide e alienate di "Future Sick" non lasciano alcun segno al loro passaggio.