Autori negli anni di una versione peculiare dello stile electro-clash, Alice Glass e Ethan Kath tornano con il loro disco numero tre, tre (questa volta fra parentesi) come il titolo dell'album: "(III)". Nonostante la formula dei Crystal Castles non sia mai stata rivoluzionaria, il carisma della cantante, unita al sapiente lavoro di regia del sodale maschio, ha contribuito a creare un alone di mitizzazione intorno alla coppia. Concerti colmi di fan nerovestiti, miriadi di gadget come le popstar, attesa spasmodica per le nuove prove, tutto questo e altro rende la pubblicazione di "(III)" un qualcosa di relativamente significativo.
Non ci discostiamo un granché dal passato, infatti siamo sempre di fronte a una forma stracciata, svestita e stuprata di electro-pop. Ritmi e melodie opprimenti, cantato squarciato in gola, ariosità ridotta allo zero, giochini elettronici e tanto disagio generazionale. La solita minestra per le solite orecchie verrebbe da dire. I due di Toronto, però, non sono degli stupidi, riescono a creare l'evento unendo misticismo di facciata e una musica che colpisce, tale è il sentimento di disturbo umano del quale è intrisa. Non molte le canzoni forti a cui fare appiglio per un lancio su scala internazionale (forse la sola "Pale Flesh"), tuttavia la sensazione è che "(III)" vada preso nel suo complesso, considerando i quaranta minuti di musica come un unico canto di un cigno bianco malato, ferito e morente.
E' un insieme conturbante, in cui si evince un netto nichilismo melodico, con la Glass a sguazzare perennemente nell'ombra, tra alzate di tono e improvvise cadute nell'oblio. La sezione ritmica imposta da Ethan Kath abbraccia il synth-pop deviato dei primi Ottanta con le tastiere a ricamare giretti ombrosi e mai domi. Pare di assistere a un'improbabile fusione tra il Wes Eisold di "Cremations" ("Insulin", "Telepath") e un disco rotto fatto girare perlopiù al contrario. Allo stesso tempo, subentrano qua e là altri paralleli (im)possibili, come suggerito dal campionamento di "Wrath Of Gold", rubato magari agli Underworld, o l'intro sbilenca e fatata di "Transgender", con la fascinosa Alice ben ferma sullo sfondo prima che Ethan (ri)giri a modo le proprie manopole.
A differenza dei due predecessori, "(III)" è un disco genericamente pulsante. Lo conferma il groove emo e vibrante di "Violent Youth", così come i vari stop&go mutanti di "Mercenary", con tanto di tastierone lunare in coda a ipotizzare fantasmi e qualche demone disperso.
Trascorsi i sette anni di attività, i Crystal Castles mantengono ancora intatto il cristallo che costituisce il loro bel castello sonoro, ergendosi di fatto a paladini del nuovo electro-clash, tra agghiaccianti spruzzate sintetiche e una sempre più nutrita schiera di giovanissimi adulatori.
06/01/2013