Instancabile producer, baluardo inespugnabile della house teutonica, mente creativa alla base di una decina di progetti diversi, spesso mandati avanti in parallelo. Tutto questo è Ian Pinnekamp, in arte Ian Pooley, da una quindicina d'anni (è datata 1998 la sua prima uscita di assoluto rilievo, “Meridian”) tra i signori dell'elettronica europea, raffinato cesellatore di preziose sculture sonore che lo hanno portato a sondare con interesse sempre maggiore le vaste possibilità comunicative del suo filone d'appartenenza, studiato e riletto con sguardo da vero appassionato, ancor prima che da uomo del settore.
Prima uscita per la sua etichetta personale Pooled, “What I Do” segna il ritorno sulla lunga distanza del musicista di Magonza a cinque anni dagli scenari metropolitani deep di “In Other Words”, rinnovando il fascino di un sound, che anche adesso, nella razzia perpetrata ogni dove a spese della house, riesce a tenere testa a tanti parvenus senza spina dorsale dell'ultima ora, buoni per un aperitivo e poco più. Le mire di Pinnekamp tendono invece alla direzione opposta: ai loro piani di seduzione non basta un appagamento fugace, quello che cercano è una conquista duratura, senza resistenze.
Ferma restando la lunghezza a dir poco importante del disco (gli ottanta minuti del supporto riempiti nella loro interezza), a cui avrebbe senz'altro giovato qualche sforbiciata qua e là, si può senz'altro dire che l'intento sopra descritto viene raggiunto senza particolari patemi. “What I Do” non cala subito gli assi nella manica, li sfrutta gradatamente, lascia quindi che i brani si fissino un po' per volta nella memoria, salvo poi non abbandonarla più. Da perfetto gentleman e padrone di casa, Pooley non punta a smuovere soltanto gambe e fondoschiena, aspira invece a coinvolgere i suoi invitati alla festa in un unicum che comprenda mente, anima e corpo, senza soluzione di continuità.
Volteggi e danze, più che sulla pista da ballo, hanno quindi luogo nella testa. E' qui che attecchisce il groove assassino al rallentatore di “Kids Play” (con tanto di interessante spoken word a strisciare sopra la lucida passatoia sonora di base), qui che sbocciano come fiori a primavera i due intermezzi funk che compongono “Get It On”, sempre qui che viene dato il soffio vitale a saggi di alta sartoria deep come la title track o il pianismo vellutato di “Over”, due degli apici della raccolta.
Non mancano poi i frangenti in cui la sezione ritmica si fa più spinta, e la voglia di muoversi prende il sopravvento su tutto il resto (“Swing Mode”, il magone notturno di “Tales Of The Big City”), ma la vera forza dei brani risiede nell'incrollabile finezza del tratto, nella galanteria melodica (fanno la loro ottima figura anche canzoni vere e proprie come i due featuring inclusi, specialmente gli spigoli electro di “1983”) che non sfocia mai in stucchevolezza gratuita, in preziosismi da quattro soldi.
E' anzi nella “riscoperta” di un sound classico, di una deepness scevra da troppe contaminazioni, che si attua lo scarto rispetto a moltissimi suoi colleghi attuali: in ciò però non si cela maldestramente un'incontenibile voglia di passatismo, di ritorno alle origini che tanto ha fatto penare negli ultimi anni. Semmai, quello che spicca è la lucida coerenza di Pooley, la fiera resistenza di un producer che con ostinazione ha proseguito per la sua strada, com'è giusto che sia.
Non serve poi aggiungere molto altro: prendete questo album, ballatelo, perdetevi nel suo fascino; non sia mai che alla fine riusciate pure a innamorarvene, di questo grande racconto urbano.
20/05/2013