Non si traveste in modo appariscente, se non nei suoi ironici videoclip. Non fa scandalo e anzi, dà il buon esempio come una rassicurante insegnante di catechismo. È bonazza, ma come una pin-up anni 40 che non incute timore. Si atteggia a oca giuliva, ma probabilmente non lo è. Macina record e vende più di tutte le altre colleghe, ma è difficile trovare un over 30 che ricordi più di tre sue canzoni, come se il suo immaginario fosse volutamente vietato a chi ha superato l’adolescenza da qualche anno.
Katy Perry è probabilmente la più normale e apparentemente banale popstar in circolazione. Certo, gli adolescenti in subbuglio ormonale la sognano e le ragazzine la prendono (facilmente) a modello, ma sarebbe davvero impossibile spiegarne il successo solo attraverso l’immagine e il carisma, come spesso avviene invece per altre cantanti. La voce? Abbastanza intonata su disco e claudicante dal vivo, come da regola nel mainstream al femminile, sicuramente non un suo tratto distintivo.
E’ inutile girarci attorno, suona quasi come una provocazione, ma c’è solo un aspetto che giustifica il riscontro commerciale - per giunta crescente di disco in disco - che l’accompagna, e altro non è che le sue canzoni. Evitate le ennesime, aggressive sonorità Edm create dal dj di turno a coprire la totale carenza melodica o per trascinare in pista ecstatiche folle adoranti, persino i suoi produttori (seppur contemporaneamente al lavoro con qualsiasi altra cantante in circolazione e con gli esiti di cui sopra) per lei sembrano quasi mettersi dietro le quinte, completamente a suo servizio e non viceversa.
I pezzi della Perry sono pop nella loro più tipica accezione, come se l’intento fosse quello di realizzare qualcosa che potrebbe cantare ancora tra trent’anni (si spera in veste più adulta) se mai qualcuno avrà ancora voglia di andare a un suo concerto. Puntano tutto sulla semplicità, sull’immediatezza melodica, sono sì canzoncine, ma se non fosse per la loro patina zuccherosa, stavolta persino più accentuata, sarebbe facile coglierne l’evidente nesso col college-(pop)rock americano.
Sono davvero pochi i brani di “Prism”, il suo quarto album, che non funzionerebbero in radio, che si tratti di quelli decorati col vestitino più funky come “Birthday” e “International Smile” (con tanto di coda vocoderata alla Daft Punk) o quelli ancora più black come il new jack swing aggiornato di “This Is How We Do” o l’incursione trap dell’ipnotica “Dark Horse”, che si svela su un vorticoso refrain.
Si tratta dell’unico brano vagamente adulto, a suo modo inaspettato, presente in scaletta, perché tra un revival euro-dance anni 90 (l’alquanto sciatta “Walking Air”, che sembra buttata in tracklist per caso) e qualche evitabile incursione nel christian-pop dei suoi esordi, il resto è chiaramente concepito per accontentare tutti coloro che hanno apprezzato “Roar”, il suo recente tormentone sbanca-classifiche. A volte la Perry riesce a bissarlo, aumentando ulteriormente le spezie esotiche nella bollywoodiana “Legendary Lovers”, ma più spesso non sa tenere a freno la colata di melassa, che rende stucchevoli brani altrimenti discreti come “Ghost” e “This Moment” o di per sé già troppo ampollosi, come il nuovo singolo “Unconditionally”.
Nel favolistico mondo di Katy Perry ci vorrebbe un po’ di cattiveria, in tutti i suoi brani se ne avverte davvero la mancanza, magari quella necessaria per licenziare in tronco il suo attuale entourage e provare a collaborare con qualcun altro che la convinca a fare il grande salto, a lasciarsi alle spalle l’atmosfera più infantile dei suoi brani, vendendo però inevitabilmente di meno. Difficilmente la si potrebbe considerare come un diamante grezzo, ma anche lo zircone meno pregiato potrebbe brillare un po' di più se tagliato meglio.
21/11/2013