A quanto pare, dovremo aspettare ancora un po' prima di conoscere il seguito della storia di Dear Hunter, il ragazzino protagonista della saga prog-rock in sei atti già arrivata a metà del suo percorso, che ha finito per dare pure il nome al progetto dell'ambizioso cantautore Casey Crescenzo, evolutosi da one-man band a collettivo libero nel corso degli anni. Ma a quanto pare, dovremo aspettare anche per un nuovo concept-album, il che era senz'altro meno preventivabile. Perché in fondo, la vera novità che accompagna “Migrant”, quinto album in un decennio di carriera, è proprio questa: l'essere slegato da ogni sorta di impalcatura narrativa o concettuale che ne chiarisca le coordinate, e lasciare che siano le canzoni a raccontarsi in primo luogo, ad esprimersi liberamente.
Abbandonata la grandeur stilistica della raccolta “The Color Spectrum” (nove Ep per altrettanti generi affrontati, ciascuno corrispondente a un colore ben preciso, bianco e nero inclusi), estinte le cornici tematiche, quel che resta è un corposo bouquet di brani che sviluppano il disco ad oggi più “dimesso” e autoriale della band (adesso ridottasi al solo Crescenzo e al fratello Nick), che approfondisce una dimensione non propriamente tra le predilette del musicista bostoniano.
Se è comunque l'espressività istintiva e pulsante di Casey a dettar legge ancora una volta, con quel fraseggio vocale capace di repentini scatti d'ottava, sempre controllato e mai macchiettistico nel ricorso al falsetto (formidabili nell'interpretazione “Bring You Down” e “Don't Look Back”, apertura e chiusura del lavoro, dotate di grande respiro melodico), le fogge prescelte non sono da meno, andando ad affiancare con precisione e buon senso dell'inventiva le dinamiche avventurose tracciate dal frontman. Accostando allo spettro strumentale classico un'intera sezione di archi e fiati e il frequente accompagnamento di pianoforte, il migratore narrato dai due fratelli si racconta attraverso canzoni che scoprono la potente mimica della musica da camera (“This Vicious Place”, la delicatezza tormentata di “Sweet Naiveté”) e sconfinano spesso in rigogliose aperture orchestrali, differenziate nell'uso e negli esiti.
Certo, lo sforzo è comunque teso a un ciclo di canzoni pienamente rock, nella forma e nell'espressività (notevoli gli energici stacchi emotivi di “Shouting At The Rain”), ciò non significa che gli elementi più classici del sound facciano la figura dell'abbellimento fine a se stesso, dell'orpello buono per stupire giusto di sfuggita. È anzi il loro essere parte integrante, costitutiva di queste piccole-grandi sinfonie a esaltarne tutta la carica descrittiva: le vorticose cascate d'archi a contrassegno di “Whisper” (singolo di lancio e brano gioiello dell'album), nel loro incessante gioco di tensione e rilascio, non fanno infatti che sottolineare quanto il loro intervento sia prezioso, il loro un sostegno al tracciato epico disegnato con grande cura da Crescenzo, meticoloso anche nel minimo dei dettagli.
Anche al di fuori delle sue grandiose intelaiature concettuali, il progetto Dear Hunter riesce dunque a tener testa alle aspettative, e cosa più importante, a mostrarsi in tutta la sua solidità: laddove i più arrivano al terzo album col fiato sul collo, qui si giunge al quinto in splendida forma e con l'intenzione di mantenerla tale per molto tempo ancora. Non rimane che sperare che al prossimo giro si torni a celebrare le gesta del giovane cacciatore.
08/07/2013