Theo Parrish non è mai stato un artista rassicurante, disposto ad accontentare le aspettative del pubblico; il suo percorso, la strada che ha deciso di tracciare, presenta inaspettate quanto improvvise deviazioni: una produzione musicale tortuosa, complessa e difficile da seguire ed anticipare. Gli inizi con la house, poi i numerosi edit di vecchi brani disco, successivamente le contaminazioni jazz, infine le derive quasi techno: Parrish è un menefreghista avventuriero dell’universo musica.
Anche questa volta presenta al pubblico un lavoro che, nel suo esser definibile quale opera quasi concettuale, si allontana dai precedenti e spiazza l’ascoltatore.
"American Intelligence", album che ci arriva dopo 7 anni dal suo predecessore, non può definirsi house, né techno, non c’è nulla di precostituito se non come fondamenta invisibili su cui si sostengono le sperimentazioni. L’album è, a tutti gli effetti, un lavoro sulla reiterazione. Un bombardamento, senza scrupoli, di pattern ritmici: kick, snare, hi hat e bass line, tutto si combina in ritmi sbilenchi, spezzati, pieni di piccoli dettagli e variazioni quasi impercettibili (che spesso neanche ci sono). La melodia non trova spazio se non per sparute incursioni di tastiere che faticano, però, a farsi notare; anche le parti vocali sono assenti oppure asservite al Dio della reiterazione risolvendosi in loop ossessivi che servono, solo, ad aumentare la dose di componenti ritmiche.
Più che davanti a un album sembra di trovarsi ad ascoltare una demo di “Cubase”: dietro alle manopole qualcuno che, sicuramente, conosce il mestiere, un qualcuno che tiene, però, tutto il divertimento per sé. Il risultato è tecnicamente imponente, Parrish conduce bene il gioco e traspare il suo divertimento nell’incastrare tra di loro tutti quei suoni e nel trasformarli in un lungo, quasi interminabile, viaggio. Lui gioca, ma per noi non sembra esserci spazio a quel tavolo verde: alla fine della partita resta, forte, una sensazione di ben poco divertimento, non ci siamo sentiti coinvolti, non c’è nulla che resti realmente impresso o che riesca a cogliere l’attenzione se non il mero lato tecnico.
"American Intelligence" è, sicuramente, un lavoro “potente” e spiazzante ma, alla fine, ci troviamo di fronte ad un egoistico gioco da solista che si risolve in un vuoto esercizio di stile, senza particolari picchi emotivi e, per certi versi, senza anima.
07/02/2015