È proprio il caso di dirlo: all'interno del catalogo Hyperdub, la canadese Jessy Lanza è una sorta di mosca bianca, e oggi più che mai si muove su territori che la pongono in totale antitesi alla celebrata controparte inglese.
In giro per la Rete si trovano svariate interviste sul suo rapporto con l'ansia e il modo in cui tenta di affrontarla; la più curiosa, al momento, è la fobia per il radon, una sostanza cancerogena che Jessy credeva si trovasse in abbondanza nella casa del suo amico e collaboratore Jeremy Greenspan - le palme che vediamo in copertina le aveva comprate lei, nel tentativo di pulire l'aria. Del resto, Jessy Lanza ha un po' l'aspetto da ragazza interrotta, una donna il cui brillante fervore creativo viene spesso messo a repentaglio dalla sua stessa testa, che viaggia a ritmi accelerazionisti rispetto alla realtà delle cose.
Il che non vuol dire che Jessy sia una ragazza che soccombe facilmente, anzi. "Oh No" è un disco che mostra da subito le unghie. Le delicate timbriche r&b che avevano animato "Pull My Hair Back" vengono spesso soppiantate da una serie di ritmi squadrati, taglienti linee di synth e tropicalismi dai sapori minimal. Recentemente la stessa Lanza ha stilato una lista dei suoi dischi electro giapponesi preferiti, e l'apertura di "New Ogi" prende ispirazione proprio da tali sonorità. Ci sono ancora momenti d'atmosfera - "I Talk BB" e la conclusiva "Could Be U" su tutte - ma spesso è il ritmo a prendere il sopravvento, come nel forsennato finale di "Oh No", nei turbinii di "Never Enough" e soprattutto su "VV Violence", dove ci si mette pure la voce, che attacca il pezzo con uno sfacciatissimo:
I say it to your faceMa "Oh No" non è certo stato mandato alle stampe per far vedere al mondo quanto Jessy sia capace di conquistare le proprie fobie. L'espressione artistica si manifesta anche durante una faticosa evoluzione, e ascoltare questo disco è come assistere al processo - a volte affannoso - col quale l'autrice tenta di affrontare i propri problemi, e non sempre vi riesce. Per esempio, l'autrice ha recentemente ammesso di provare un forte terrore nel cantare dal vivo, solo che ai tempi di "Pull My Hair Back" non aveva preventivato di doversi esibire in giro per il globo. Adesso quindi, in un gesto di auto-schernimento, la sua voce viene spesso alterata con un pitch ai limiti del parossistico, come se volesse spersonalizzarsi dall'ugola per nascondersi dentro all'impasto elettronico. È un peccato, quindi, che squisiti pezzi dai sapori footwork quali l'irresistibile "It Means I Love You" e "Vivica" si presentino con questa vocina che vi trilla sopra con insistenza metallica, il pathos non scompare ma si fa certo più sottile.
but it doesn't mean a thing
no!
20/05/2016