Don't ask me what I think
It never really mattered what I had to say
I just keep waiting for another open door
To come up soon
Don't keep it all in your head
The only place that you know nobody ever can see
(da "Once A Day")
Nel caso dell'album postumo di Mac Miller, completato dal collaboratore Jon Brion, è difficile resistere alla tentazione di far prevalere il contesto sull'opera in senso stretto. D'altronde, si tratta di un rapper classe 1992, morto per droga a 26 anni, che non ha mai nascosto i suoi abusi di sostanze e la dura lotta con la depressione. La sua storia, tragica ma purtroppo comune a tanti artisti hip-hop, nasconde però una sensibilità unica, che Miller ha messo a fuoco solo con questo album postumo. Ridurre "Circles" a un coccodrillo è poco generoso, perché indipendentemente dal contesto funebre in cui nasce è un grande esempio di emotività pop-rap e neo-soul.
Adagiando riflessioni malinconiche su beat educati, l'album scopre un equilibrio fra struggimento e leggerezza, intimismo e poesia. È un caldo abbandonarsi a un corollario di brani scritti con la maturità di un narratore che non lascia mai che un colpo di scena possa distogliere l'attenzione, preferendo che ogni canzone porti naturalmente alla successiva. Un flusso a tratti indiscutibilmente pop ("Blue World", "Everybody"), altre volte a suo agio anche nel masticare ritmi funk e sensualità r'n'b ("Complicated", "I Can See", "Woods"), sussurrare pensosi rap ("Circles", "Good News") o lasciarsi avvicinare da giostre melodiche folk ("That's On Me") o blues ("Surf").
In questo succedersi di emozioni color pastello il finale di "Hand Me Downs", per un assolo di fischi theremin-iani, costituisce l'ideale momento in cui salgono i lucciconi agli occhi: gioca di fioretto Miller, ma proprio per questo gli affondi di fragile malinconia suonano particolarmente toccanti.
Poi succede inevitabilmente: finisce "Once A Day" e rimane un terribile vuoto. La trance dell'ascolto lascia spazio alla riflessione sul contesto. La vicenda umana, certo, ma anche il fatto che "Circles" doveva completare con "Swimming" ('18) un progetto unico, da estendere a una trilogia dal finale marcatamente più hip-hop. Non sapremo mai cosa avrebbe fatto Mac Miller dopo, e in realtà anche "Circles", portato a conclusione seguendo le sue indicazioni prima dell'improvvisa morte, è già in parte una ricostruzione, chissà quanto fedele nei dettagli alle idee originali. Domande irrisolvibili e un po' angoscianti, da allontanare immergendosi in un nuovo ascolto: fintanto che "Circles" è in play, il suo fluire magico tiene tutto il resto fuori.
10/02/2020