L’abbandono degli Hurray For The Riff Raff ha rappresentato per Sam Doores l’inizio di una nuova eccitante avventura, prima condivisa con i Deslondes e ora finalmente concretizzatasi nel primo album solista del musicista di New Orleans.
A farne corpo, quattordici istantanee stilisticamente eclettiche e fantasiose, scritte quando Sam era ancora alla corte dell’esuberante Alynda Lee Segarra, o ritenute poco idonee al repertorio della band dei Deslondes. Canzoni che delineano uno stile ben radicato nella terra natia, tra ritagli di rock’n’roll e languori blues, resi leggiadri a tempo di polka, rumba e valzer, nonché graziate da un lieve humor e disincanto alla Tom Waits.
Registrato in gran parte a Berlino, l’album risente del fascino mitteleuropeo e di quel brio jazz tipico dei piccoli club: evocano infatti locali fumosi, saturati dal brusio dei clienti e dal tintinnio di bicchieri semivuoti, le note di piano e violino che introducono l'opera (“Tempelhofer Dawn”).
Al tono confidenziale della voce e alla sapiente scrittura mai sopra le righe spetta il compito di accordare le variegate influenze dell’artista: country, blues, jazz, rock’n’roll, r&b, doo-woop, gospel e altre meraviglie armoniche scivolano con una magia bohémien che affascina e seduce.
Oltremodo ambizioso, Doores si destreggia con abilità e leggerezza tra vivaci canzoni a tempo di valzer (“This Ain't A Sad Song”) e blues sfumati a tempo di rumba e atmosfere noir (“Solid Road”), creazioni degne dei migliori album dei Los Lobos.
Anche quando il passo diventa più lieve, la musica brilla per grazia lirica, come nel raffinato country-gospel di “Let It Roll”, sfiorando vertici compositivi di rara bellezza ed essenzialità che odorano di notti trascorse vicino a un fievole falò (“Windmills”).
Non è un album vintage o nostalgico, “Sam Doores”: la sua America è oltremodo autentica e vitale, è la stessa già splendidamente descritta da Randy Newman a suon di folk, blues di New Orleans e un delicato tocco vaudeville (“Must Be Somethin'”).
Ad ogni modo non chiamatelo folk: il variegato microcosmo del musicista americano è più simile alle stravaganze del chamber-pop, stile con il quale condivide l’assortimento strumentale a base di archi, organi vintage, marimbe, vibrafoni, autoharp, glockenspiel e trombone. Un melange sonoro che a tratti non disdegna alcune tracce di trasognante psichedelia (“Cambodian Rock N' Roll”) o profumazioni multietniche a suon di tuba e trombe in perfetto stile mariachi, che adornano una delle melodie più memorabili del disco, “Nothing Like A Suburb”.
Destreggiandosi tra un tempo di twist dal profumo naif (“Other Side Of Town”, dove duetta con l’amica di vecchie scorribande Alynda Lee Segarra ) e uno scanzonato honky tonk con tanto di organo e sezione fiati (“Wish You Well”), Sam Doores trova un giusto equilibrio tra canzone d’autore (“Push On”) e musica da western-dancehall (“Had A Dream”).
Oltremodo audace, l’album sfida le moderne tipologie di fruizione sonora, mettendo a punto un’insolita sequenza di brani che sarebbe opportuno ascoltare utilizzando un vecchio juke-box (”Red Leaf Rag”, “Chicago To Illinois”) o rispolverando il vecchio giradischi a manovella conservato in cantina (la già citata “Nothing Like A Suburb”), ma attenti: ritornare alla dura realtà non sarà semplice. Sognare per credere.
21/08/2020