Il collettivo nato a Ginevra nel 2006 ad opera del contrabbassista Vincent Bertholet continua, senza indecisioni o compromessi, a tenere alto il vessillo dell'avanguardia europea. La voluta mancanza di una linea guida, che non sia l'approccio freak-punk originario, fa sì che il melange di free flow jazz, afro-rhythm, folk celtico, bossa nova, indie-pop, musica balcanica, elettronica e neoclassica si modelli con strutture avant-jazz insolite e originali. La proposta della Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp non è un mero esercizio intellettuale, ma una tumultuosa e trascinante sperimentazione sonora dalle molteplici sfumature: archi, ottoni, percussioni, strumenti acustici ed elettronici saccheggiano il grande immaginario musicale, creando surreali collage, a volte perfino intercambiabili.
Ira e dileggio caratterizzano i testi, la musica è al pari pulsante, viva, ricca di interazioni con un potenziale pubblico partecipativo e non supino. L'idea stessa di collettivo coinvolge tutti gli aspetti della musica della formazione svizzera.
"We're OK. But We're Lost Anyway" non sfugge alle collaudate ipnotiche e minimali armonie della band, che si dipanano come onde sonore al seguito di misticismo sufi ("Be Patient"), di ariose sonorità tzigane che intercettano la musica afro ("Flux") o di inattesi pattern ritmici quasi disco che elevano il tasso di trance psichedelica e tribale del progetto ("Beginning").
È un disco da assaporare nel suo complesso, il nuovo progetto della Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, la sequenza ha un che di rituale, d'orgiastico. È come un mantra inquieto e seducente che intercetta dissonanze e toni modali jazz per una fusione di tropicalia e rock minimale ("Empty Skies"), che dialoga con la sensualità della musica afro-beat estraendone groove insidiosi ("So Many Things (To Feel Guilty About)"), e crea insolenti e bislacche orchestrazioni a tempo di marimba, no wave e funk-punk ("We Can Can We").
In verità, "We're OK. But We're Lost Anyway" è un disco del quale è difficile cogliere l'essenza, a tratti sfuggente al punto da costringere l'ascoltatore a continui e piacevoli riascolti, che svelano ulteriori motivi di compiacimento e plauso. La seducente "Blabber", ad esempio, è una di quelle intuizioni che al primo ascolto sembra fuori tema, per poi erirgersi a perfetta sintesi di quella visione globale che anima la band, il cui fine ultimo è quello di invalidare il concetto di contaminazione per un'unica grande e corale sinfonia post-moderna, carezzata da una misteriosa e prorompente bellezza, che nonostante la notevole tessitura sonora, suona spontanea e sfolgorante.
19/12/2021