Riparte con l'ingresso di due nuovi membri - Jesse Chandler al piano e Marion Genser alle tastiere - la storia dei Mercury Rev, con Jonathan Donahue in veste di cerimoniere di una liturgia chamber-pop dove il canto cede lo scettro al parlato, al sussurrato, dislocando la musica del gruppo verso luoghi surreali e poco ordinari.
Chitarre, tastiere, archi, fiati, percussioni e batteria assecondano un onirico flusso di coscienza melodico e lirico, un susseguirsi di stati d'animo emotivamente costanti che non sembrano mai trovare scogli sui quali arenarsi. "Born Horses" è un viaggio spirituale e sensoriale che induce a un pur nobile torpore, lontano anni luce dalle dissonanze corrosive di "Boces" e intenzionalmente più affine al minimalismo di Tony Conrad.
Il ritorno dei Mercury Rev si nutre dei suoni della natura e dei suoi cangianti riflessi: come novello pifferaio, Donahue dissemina parole e silenzi che, al pari di incantevoli armonie, seduce uccelli, cavalli e chiunque voglia essere catturato nelle maglie di un racconto cupo e straniante.
"Born Horses" è un disco solo apparentemente mono-tono, al contrario non privo di guizzi e stati emotivi affidati alla voce di Donahue, che con lo stesso fascino di Don Chisciotte conduce l'ascoltatore tra residui di vetuste fughe psichedeliche ("Patterns") o tra algide tentazioni jazz che non bramano reiterazioni cerebrali ("Mood Swings").
È racchiuso nell'insieme delle otto tracce, il senso profondo del nuovo album dei Mercury Rev, un disco che ancora una volta dividerà il pubblico, non sempre disposto a tortuose divagazioni chamber-pop-baroque come quelle offerte dalla title track, che un assolo di sax scuote senza disturbare.
"Born Horses" è la celebrazione della poesia bisbigliata e ricca di candore, quella che i quattro minuti e dodici secondi di "A Bird Of No Address" celebrano con toni epici e imperituri, con un'apoteosi melodica degna dei migliori Sigur Ros.
In un progetto a tratti così estremo, non mancano insidie e tranelli: un brano come "Ancient Love" resta sospeso tra magia e monotonia, mentre il lungo dialogo che si distende sulle pur piacevoli note di "Everything I Thought I Had Lost" è più simile a un ammonimento.
In questo nebuloso e allucinante intreccio di spunti onirici, scarti di vecchie pellicole e immagini polverose, i Mercury Rev risultano oltremodo convincenti quando sobrietà e melodia vanno a braccetto ("Your Hammer, My Heart") o quando gli input armonici scorrono con maggior impeto (la già citata "Patterns").
Osano, rischiano i Mercury Rev nel placidamente ambizioso "Born Horses", a volte sembrano inciampare in quegli spazi che separano il mondo reale dalla catalessi onirica, lasciando una lieve sensazione d'incompiutezza che la non del tutto riuscita incursione ritmica di "There's Always Been A Bird In Me" non spazza del tutto via, senza però intaccarne l'intensa e toccante natura riflessiva.
08/09/2024