Decemberists

Decemberists

Troubadours alla corte di Sua Maestą

Band originaria di Portland, raccoltasi intorno alle vocazioni letterarie e alla voce nasale del suo leader Colin Meloy, i Decemberists rappresentano un vivido esempio di narrazione briosa e ironica, unita a un folk-rock classico ma connotato da una caratteristica impronta teatrale. Dalle reminiscenze tradizionali agli occhieggiamenti con l'indie-rock, fino all'ambiziosa intrapresa di una vera e propria rock-opera, il percorso di una band di menestrelli fuori dal tempo

di Raffaello Russo

Formatisi intorno al giovane cantautore Colin Meloy, i Decemberists rappresentano uno dei più vivaci tra i recenti esempi della coniugazione del classico folk-rock statunitense con una vena narrativa eccentrica e una naturale vocazione “indie”, sufficiente per diffondere su più vasta scala la sua proposta musicale.
La band trova la propria origine nel 2000, nella inesauribile scena musicale di Portland, città in cui Meloy si era appena trasferito dal natio Montana, dove aveva abbandonato dopo un album e un paio di Ep la breve esperienza alt-country dei Tarkio. Tornato nella città dell’Oregon – già frequentata per un periodo di formazione universitaria – Meloy si introduce con facilità nel brulicante ambiente artistico locale, nel quale incontra dapprima il bassista Nate Query e la pianista/organista Jenny Conlee, che costituiranno il nucleo centrale della band, che pure in seguito si dimostrerà aperta a numerose collaborazioni e variazioni di line-up.
La formazione iniziale è poi completata dal chitarrista Chris Funk e dal batterista Ezra Holbrook, che lascerà la band poco dopo la realizzazione del primo album.

Decisiva per la fisionomia musicale dei Decemberists è proprio la figura di Colin Meloy, che la caratterizzerà non solo per la sua voce vagamente nasale e inizialmente piuttosto sgraziata, ma soprattutto per l’impostazione letteraria e teatrale dei testi, che risentono in maniera evidente della sua formazione, che non a caso include corsi universitari di scrittura creativa. Altrettanto caratterizzante è lo spirito brillante di Meloy, riscontrabile fin dal nome prescelto per la band, il cui riferimento ai moti decabristi rispecchia in sostanza anche l’indole battagliera riscontrabile in tanti dei suoi brani.
La prima testimonianza della band è un mini autoprodotto di sole cinque tracce, denominato semplicemente 5 Songs Ep, tuttavia già sufficiente a rendere l’idea della freschezza della sua proposta musicale.
Nei suoi venti minuti scarsi si alternano, infatti, sfumature morbide e cullanti, intrise di sentori rurali, e ballate dal passo svelto. Mentre le prime (“Oceanside”, “I Don't Mind”) mostrano un’ottima sensibilità melodica e doti liriche non comuni, le seconde rivelano compiutamente l’essenza autentica dell’ispirazione artistica dei Decemberists e delle loro narrazioni, in bilico tra una concezione tragica e desolata del destino umano e rappresentazioni popolari – un po’ teatro, un po’ balera – incentrate su chitarra e fisarmonica.
Tra i cinque brani dell’Ep prendono così forma almeno un paio di autentici gioielli, “My Mother Was A Chinese Trapeze Artist” e soprattutto “Shiny”, fulgidi esempi di fluidità melodica e di una delicatezza espressiva per nulla appesantita da un impianto strumentale ricco ma mai sovrabbondante.

L’Ep richiama subito l’attenzione di un’etichetta, la piccola ma arguta Hush, che l’anno seguente licenzia il primo album ufficiale, Castaways And Cutouts, dieci brani popolati da una variopinta galleria umana di reietti e outsider, che attraverso la voce di Meloy narrano le loro storie agrodolci, intrise di malinconia e fatalismo, eppure provviste di una spiccata componente ironica.
Analogamente, il lavoro offre un’ampia rassegna delle qualità della band e del suo spettro espressivo, capace di svariare tra melodie arrotondate, arrangiamenti ariosi, increspature elettriche e approcci di lieve psichedelia, evocata dalla frequente presenza di organi dal sapore vintage.
È proprio il dosaggio di organi e armonica a conformare i brani secondo registri sempre diversi, assecondando il passo svelto e romantico delle narrazioni di Meloy o modulando melodie in prevalenza quiete, che tuttavia in alcuni passaggi tendono a innalzarsi repentinamente, come nel caso di “Odalisque” e del delizioso tango sbilenco di “A Cautionary Song”, interamente dominata dall’accordion della Conlee.
Accanto a brani dall’articolazione più complessa e dall’andamento disinvolto, Castaways And Cutouts rivela anche il lato essenziale delle composizioni di Meloy e compagni, spesso ridotte al solitario accompagnamento della chitarra (“Clementine”) e al dolce downtempo di ballate quali “Cocoon” e “Grace Cathedral Hill”, dai contorni smussati ma anche leggermente sottotono rispetto alle briose sfumature indie-folk dei coinvolgenti fraseggi melodici e delle ritmiche asciutte, ad esempio, di “July, July!” e “The Legionnaire's Lament”.

Le componenti narrative e teatrali dell’album di debutto, unite all’approccio a cavallo tra tradizione americana e più decisa fruibilità rock, inducono a mettere in relazione il percorso iniziale dei Decemberists con quello, sostanzialmente parallelo, degli Okkervil River. Rispetto alla band di Will Sheff, quella capitanata da Colin Meloy dimostra però da subito una notevole attitudine a un’immediatezza pop, pur filtrata da un impianto strumentale complesso, che in qualche occasione denota una certa tendenza alla magniloquenza, elemento che accompagnerà tutto il suo percorso successivo e che già nell’album d’esordio viene evidenziato dai dieci minuti della conclusiva "California One Youth And Beauty Brigade", i cui morbidi sentori bucolici sfociano in un controllato crescendo, rivelatore di un vago gusto progressive.
La spontaneità della proposta e l’approccio disincantato della band ottengono immediati riscontri positivi, suscitando accostamenti impegnativi che, oltre a richiamare le coeve esperienze di Bright Eyes e Okkervil River, rimandano addirittura alle esperienze del collettivo Elephant 6 e in particolare al songwriting di Jeff Mangum, al quale viene paragonata la sottile vena freak sottesa al modo di intendere la narrazione musicale da parte di Colin Meloy.
Diretta conseguenza dei consensi conseguiti dall’album di debutto sono due emblematici passaggi discografici: prima la ristampa su più vasta scala dell’Ep 5 Songs, in una curata edizione arricchita da una sesta traccia, “Apology Song”; poi il passaggio alla Kill Rock Stars, etichetta pur sempre indipendente ma di dimensione (e diffusione) ben diversa rispetto alla più piccola Hush.

Così, sostituito Holbrook con Rachel Blumberg e accolto temporaneamente in formazione il bassista Jesse Emerson in luogo di Nate Query, nel volgere di poco più di un anno e mezzo dal debutto è già tempo per il secondo album, Her Majesty.
Prodotto da quel genio nascosto del cantautorato alt-folk che risponde al nome di Adam Selzer, il lavoro riecheggia fin dalla copertina (curata, come quelle di tutti i dischi, dalla moglie di Meloy, Carson Ellis) la sua vocazione a essere rassegna di una commedia umana, di volta in volta colta nella sua grottesca e drammatica quotidianità.

Uno scricchiolio sinistro da vascello fantasma introduce il disco con "Shanty For The Arethusa", ispirata alla storia di una leggendaria fregata inglese dei tempi dell'ammiraglio Nelson, che trasporta il proprio immaginario marinaresco in una ballata di frontiera degna dei Calexico. La fisarmonica di Jenny Conlee conferisce un sapore rurale alle composizioni, l'organo e la steel guitar ne definiscono i contorni, mentre la presenza di un quartetto d'archi sottolinea i momenti di più accentuato lirismo, lasciando talvolta spazio all'inserimento dei fiati.
La voce di Colin Meloy, che pur si abbandona al luccicante senso di decadenza di "Los Angeles, I'm Yours", si diverte soprattutto ad andare in cerca della forza suggestiva di espressioni inusuali, come quando arriva a citare nientemeno che un improbabile "fanichiulì fanichiulà" in "Song For Myla Goldberg", dedicata a una scrittrice newyorkese e ai personaggi del suo romanzo "Bee Season".
Ed ecco prendere vita, brano dopo brano, il Ginnasta e lo Spazzacamino, lo Scapolo e la Sposa, il Soldato e l'Attore, figure archetipe che sembrano uscire dagli immaginari tarocchi dei Decemberists e dalla loro ispirazione, forse a tratti meno vibrante rispetto all’album di debutto, eppure anche per questo dosata con accortezza, a modulare secondo registri molteplici le tante storie che strappano un sorriso, nonostante il senso di sconfitta e ineluttabilità ad esse connaturato.
E se pure sono già riscontrabili le strizzate d'occhio al pubblico indie – tra tutte, il finale rumorista di "I Was Meant For The Stage" – sono piuttosto la sincerità country della conclusiva "As I Rise" e il generale spirito di ridanciana malinconia a confermare la naturalezza con cui i Decemberists riescono a coniugare antico e moderno, narrazione popolare e ricercatezza letteraria.

A pochi mesi di distanza da Her Majesty viene pubblicato per la serie di Ep dell’etichetta spagnola Acuarela, The Tain, ispirato alla novella irlandese precristiana “Táin Bó Cúailnge”, della quale i Decemberists rendono fedelmente contenuto e senso epico in un’unica traccia di oltre diciotto minuti, suddivisi in cinque parti e caratterizzati dal susseguirsi di voci narranti.
Il Soldato, la Megera, il Marito, il Capitano, il Coro delle Mogli, la Vedova popolano una sorta di musical in miniatura, che esalta la teatralità della band, attagliandosi alla perfezione al suo stile narrativo, qui svolto con una varietà di registro che va da scarne note chitarristiche a incalzanti crescendo dalle aderenze psych-prog. Il prevalente tono elegiaco si manifesta in maniera alterna, mostrando nella quarta stanza del poema la grazia interpretativa di Rachel Blumberg e nell’ultima un dimesso andamento da marcia militare; allo stesso modo, la vorticosa successione di romanticismo, sottile malinconia e vivace coralità compendia in questo breve Ep un’intera rock-opera, che rende ideale testimonianza dello stile e della classe della band.

A ritmi serrati come quelli delle loro ballate più garibaldine, il percorso artistico dei Decemberists prosegue con il terzo album, Picaresque, nel quale la scrittura ispirata e "colta" di Meloy delinea ancora storie bizzarre e paradossali, passando in rassegna con tocco lieve la varia umanità che popola e rende denso e godibile il brillante positivismo di una narrazione non proprio assimilabile alla letteratura picaresca richiamata dal titolo, della quale pur condivide il senso epico, fantasioso eppure profondamente ironico.
Tuttavia, il graduale distacco dei Decemberists dalla ridanciana dimensione da complessino folk si intuisce fin dai primi episodi di Picaresque, che ripropongono dapprima l'andatura caracollante caratteristica di tante precedenti composizioni del gruppo (”The Infanta”), rivisitandola poi con un accentuato lirismo, corredato di accompagnamenti più ridondanti che già palesano l'innesto di elementi pertinenti tanto alla tradizione cantautorale che a quella del pop più schietto e raffinato.
L'attenzione ai dettagli e agli arrangiamenti, spesso impreziositi dall'uso degli archi, delinea un’eleganza pop insospettata: è il caso di "Eli, The Barrow Boy", "The Engine Driver" e soprattutto di "We Both Go Down Together", cui la chiave decisamente classica del violino di Petra Haden (sorella di Josh, mentore degli Spain), conferisce un aspetto romantico, facendone uno dei passi di maggiore impatto dell’album.
Lo stesso risultato non è invece raggiunto nei pezzi più complessi, che pure tendono a crescere di tono, finendo però per involgersi su se stessi in un inutile vortice dissonante (“The Bagman's Gambit”), e lasciando intravedere qualche tentennamento creativo e una struttura narrativa non sempre capace di catalizzare l’attenzione. Così, qualche orpello presente qua e là negli arrangiamenti testimonia come il gruppo renda al meglio quando si esprime nella sua originaria cornice rustica e spoglia rispetto a quando tenta di assumere una veste pomposa, in definitiva, però, meno credibile ed efficace.

Alla versione in doppio vinile dell’album è allegato Picaresquities, un mini comprendente cinque outtakes che ne ricalcano la medesima impostazione. Tra queste, va segnalata un’interessante cover del pezzo di Joanna Newsom “Bridges And Balloons”.

Il quarto episodio sulla lunga distanza dell'epopea dei Decemberists ne segna il passaggio a una major discografica, la Capitol, che a fine 2006 pubblica The Crane Wife, lavoro scritto nell’anno e mezzo di intervallo da Picaresque, periodo nel quale Meloy ha altresì posto le basi per una parallela esperienza solista, cimentandosi, tra l'altro, nell'interpretazione di alcuni brani di Morrissey e Shirley Collins.
La maggior esposizione non altera in maniera significativa le coordinate artistiche della band, nonostante traspaia una certa consapevolezza della necessità di mettere in discussione una scanzonatezza un po’ surreale, tuttavia ormai a rischio di ricadere in cliché.
Pur nella continuità, con The Crane Wife i Decemberists abbracciano stili e approcci in parte diversi rispetto al passato, cercando di bilanciare l'abituale ricercatezza folk con costruzioni complesse e cangianti, nelle quali Meloy e compagni riversano un condensato di influenze e suggestioni talvolta inedite. Forse proprio per questo, The Crane Wife risulta un album ibrido, a tratti sovrabbondante, al cui interno si può cogliere l'impellenza dello sforzo compiuto dalla band nella traduzione della propria impronta caratteristica in qualcosa di non ancora del tutto definito.
Il senso profondo sottostante al lavoro potrebbe allora riassumersi nei quasi tredici minuti di "The Island, Come And See, The Landlord's Daughter, You'll Not Feel The Drowning", vorticoso caleidoscopio di stili, suddiviso in quattro momenti distinti: un disorientante incipit da sofisticato rock anni 70, una narrazione solcata da pesanti linee di basso, un decollo epico orchestrale spolverato da note d'organo, una scatenata sbornia a metà tra psichedelia di stampo canterburiano e danza gitana e infine un accenno di intimismo cantautorale a base di chitarra latina e archi.
Quasi che tale pluralità di citazioni racchiuse in un solo brano non fosse sufficiente, anche tutto il resto dell’album passa con disinvoltura da una canzoncina solare e vivace come "Yankee Bayonet (I Will Be Home Then)" all'andamento ballabile di "The Perfect Crime 2", dal ritmo incalzante di "O Valencia" al disturbante turbine elettrico che sporca l'impetuosa ballata "When The War Came".
Non mancano però anche ariose ballate dal genuino lirismo folk, culminante nell’autentico gioiello "Shankill Butchers", nel quale Meloy torna a descrivere con grande gusto personaggi paradossali, all'altezza delle geniali caratterizzazioni degli album precedenti. I molteplici elementi creativi contenuti nell’album restano tuttavia troppo spesso affastellati e giustapposti in maniera non sempre organica, denotando una sorta di bulimia musicale, che pare contrassegnata dall’urgenza di ritagliarsi uno spazio in un universo di riferimento ormai più prossimo al classico pop-rock che non, come in passato, a un divertito folk corale.

Trascorsi quasi tre anni, i Decemberists invertono parzialmente rotta: non più occhieggiamenti all'indie-rock, ma l'ambizioso progetto di una vera e propria rock-opera, dall'imponente impianto di diciasette episodi per un'ora di durata, nella quale si susseguono storie e personaggi, nonché ripetute variazioni di regisrto stilistico. The Hazards Of Love segue fedelmente il canovaccio della storia così trasposta in musica, avvicendando il tono lieve di soffici melodie di chitarra e contrabbasso a linee ritmiche marcate ed eccessi elettrici piuttosto inconferenti.
Coadiuvata da ospiti d'eccezione (tra i quali Robyn Hitchcock, Becky Stark e Shara Worden), la band propone un lavoro denso e articolato, che si dipana da un lato tra madrigali e sghembe ballate dal tono elegiaco e dall’altro presenta corpose reminiscenze (hard!)rock dal sapore decisamente vintage. Il secondo aspetto prende il sopravvento nei momenti di maggior carico drammatico del racconto, come nel caso degli insistiti rilanci elettrici e del finale psych di “The Queen's Rebuke / The Crossing”, che svelano imprevedibili attinenze con Led Zeppelin, Deep Purple e i Pink Floyd più pomposi.
Ancorché non mal congegnati, si tratta di episodi fin troppo frequenti nell’economia di un album in cui è ancora dato riscontrare sprazzi del songwriting brillante di Meloy, applicato tanto a ballate di dolente romanticismo (“The Hazards Of Love 2”, “Annan Water”), quanto a frammenti epici dal passo svelto e dall’effetto coinvolgente assicurato (la complessa “The Wanting Comes In Waves / Repaid”, il trascinante singolo “The Rake's Song”).
Il vorticoso succedersi di momenti, parallelo allo snodarsi della vicenda, conferisce varietà a un’opera concepita e realizzata in modo corale, ma non sempre riesce a mantenere viva l’attenzione, invece messa a dura prova dalla sua lunghezza e dalla ricorrente magniloquenza di certe derive vintage/heavy/progressive, che possono trovare giustificazione nel concetto stesso di rock-opera, ma alla lunga appesantiscono con orpelli e interpretazioni troppo enfatiche una scrittura altrimenti godibile, quanto meno dal punto di vista più strettamente letterario. Da quello musicale, invece, assodato ormai che i Decemberists hanno deciso di affrancarsi dall’estrosa impostazione folk-rock dei primi album, The Hazards Of Love li proietta in maniera netta verso una nuova e ambiziosa dimensione, che denota però segnali di involuzione stilistica che mal si confanno ai contemporanei tentativi di recupero di un'ispirazione ormai abbastanza spuntata.

Dopo circa cinque anni e trascorsi a inseguire - con risultati alterni e talora discutibili - una declinazione delle loro letterarie narrazioni folk secondo una grandiosità rock dal sapore vintage, anche per i Decemberists è giunto il momento di guardarsi allo specchio e di tornare alla semplicità e all'immediatezza.
È lo stesso Colin Meloy, a esprimere il bisogno di semplicità nella scrittura e negli arrangiamenti, raccontando come non sia affatto meno difficile creare canzoni schiette e disadorne che una complessa epica musicale: "per quanto gli ultimi dischi siano stati complicati, questo è stato il più difficile da realizzare; fare musica semplice è una vera sfida e questo disco rappresenta un vero e proprio esercizio di moderazione".
Forse anche per mettere in pratica questa sfida e per riscoprire un'ispirazione incontaminata, la band ha deciso di registrare il disco in un contesto più spartano, in uno stato di isolamento creativo nel quale hanno preso forma le dieci canzoni racchiuse in The King Is Dead.
Alla più scarna impostazione del lavoro corrisponde anche una ritrovata immediatezza espressiva, che attraverso la tematica della ciclicità del tempo e della natura, torna a delineare ballate dal passo svelto e più placide storie da focolare. Le interpretazioni di Meloy risultano ulteriormente migliorate, assumendo estensioni più ampie rispetto alla consueta tonalità nasale, senza tuttavia abbandonare quell'andamento gradevolmente sbilenco, che così bene torna ad adattarsi alla riacquisita leggiadria dell'orchestrina-Decemberists; smessi i preziosi ma ingombranti abiti da musical degli ultimi dischi, la band torna infatti a divertirsi con i piedi ben saldi per terra, sporcandosi piacevolmente con la polvere della tradizione di strada (basti vedere la danzante "Rox In The Box") o con quella di battaglie e trincee, nuovamente narrate in "This Is Why We Fight" con il piglio elegiaco dei tempi di Her Majesty.
La band tuttavia, non rinuncia a ricondurre il folk nell'alveo dell'indie-rock contemporaneo, tanto da ospitare in tre brani il contributo del chitarrista degli Rem Peter Buck, coniugando così il recupero del proprio passato con un impianto sonore e melodico di facilissima assimilazione. Insomma, un apprezzabile ritorno al passato dopo un lungo periodo di non eccelsa ispirazione.

Non si riferiscono direttamente a sé stessi, i Decemberists, quando parlano, nell’intro sarcastica di What A Terrible World, What A Beautiful World (“The Singer Addressess His Audience”), della svendita della propria arte e del rapporto di fiducia infranto col proprio pubblico. Però risulta difficile non fare un parallelo con la recente evoluzione della carriera della band di Colin Meloy, in questi tempi in cui l’identificazione tra vita reale e finzione va così di moda (vedasi “Birdman”, “Boyhood” etc.). Ed è forse con una certa autoironia che va interpretata la chiusura del pezzo, da vera, maschia arena-rock band.
All’appuntamento del settimo disco, What A Terrible World, What A Beautiful World, i Decemberists si presentavano dopo almeno un paio di dischi strani, per loro: ognuno una specie di deformazione prima magniloquente poi priva di ispirazione melodica dei loro lavori precedenti.
È con un profondo sospiro di sollievo, così, che si passa alle ariose, lineari melodie di “Cavalry Captain”, dal soave, Murdoch-iano arrangiamento per archi, e delle peripezie amoroso-sessuali di “Filomena”, uno dei brani più “picareschi” del disco. La linearità, la pulizia della scrittura rimane il vero punto di forza del disco, che si misura tanto col pop per adolescenti (l’instant classic “Make You Better”, che fa risorgere i fasti di “Transatlanticism”) quanto con l’Americana più tradizionale (il country-noir di “Easy Come Easy Go”, lo spiritual-blues delle origini di “Carolina Low”, il country di “12/17/12”).
Il risultato è da un lato molto poco pretenzioso: si tratta di una raccolta di canzoni nel senso più letterale e semplice dell’espressione, che a volte sanno richiamare i brani più emozionanti degli esordi (“Lake Song”), ma che più spesso si accontentano di risultare orecchiabili.
Poco male, perché What A Terrible World, What A Beautiful World rimane comunque un disco molto solido, la cui baldanzosa chiusura (“A Beginning Song”) sembra rappresentare una rinascita vera e propria per i Decemberists: “I am waiting/ Should I be waiting/ I am wanting/ Should I be wanting?”.

Per quanto il nuovo I'll Be Your Girl uscito a inizio 2018 sia il disco in cui appaiono i synth, l'ascoltatore potrà comunque trovare i tratti che ha sempre amato del collettivo di Portland. "Once In My Life" inizia come un loro classico: poco a poco gli accordi di chitarra classica si fanno più forti e la voce inconfondibile di Colin Meloy intona uno dei suoi potenti struggimenti, mentre il resto della combriccola gli tiene testa a dovere. L'intensità aumenta e all'arrivo del ritornello non possiamo non apprezzare il riuscito innesto del sintetizzatore.
Nonostante I'll Be Your Girl sia stato anticipato come il lavoro Depeche Mode-New Order dei Decemberists (più i primi che i secondi), l'aspetto elettronico non stravolge affatto i canoni musicali del gruppo, ma li accompagna e sostiene nella formazione di riusciti brani pop. "Starwatcher" invece è pura tradizione-Decemberists puntellata dal delizioso passaggio di Jenny Conlee sempre ispiratissima. "I'll Be Your Girl" risente delle presidenziali americane del 2016: se il bizzarro (in senso buono) pessimismo cosmico di Meloy in precedenza vi poteva sembrare esagerato o gratuito, qui sapete chi è il colpevole di tali scoramenti ("Tripping Away", "Everything Is Awful", "Sucker's Prayer"), anche se - come copertina dimostra - tra le tracce domina più brio e colore. "We All Die Young" tragica nel titolo quanto sbarazzina nel mood anticipa poi un altro topos della produzione dei Decemberists, ovvero l'epico sfogo narrativo "Rusalka-Rusalka / Wild Rushes": otto intensi minuti di sirene e marinai perfettamente arrangiati, a cui segue la dolce chiusura di "I'll Be Your Girl".
I Decemberists arrivano all'ottavo album dimostrando di avere ancora qualcosa di bello da dire, in una forma spesso nuova e avvincente.

Nel 2024 dopo sei anni di silenzio, i Decemberist avvertono  il bisogno di farsi risentire, e lo fanno in modo forte e inequivocabile con As It Ever Was, So It Will Be Again l’album più lungo della loro discografia, equivalente a un doppio se l’unità di misura è quella del vinile. La via da seguire, dice il leader Colin Meloy, è stata quella dei grandi doppi che hanno fatto la storia, citando come esempio “Zen Arcade” degli Husker Du, in cui le quattro facciate sono caratterizzate da differenti mondi musicali per fare in modo che l’ascoltatore possa scegliere quale sentire a seconda del suo stato d’animo. Quindi la carne al fuoco è tanta e tutta ben condita dall’arsenale di strumenti messi in campo (trombe, tromboni, flauti, banjo, steel guitar, fisarmoniche ecc.) e, visto che il tempo intercorso dall’ultima uscita è tutt’altro che breve, sono alte anche le aspettative sul ritorno di Meloy e soci. Solo il timore che la band che abbia perso il giusto compromesso tra il brillante songwriting e la spinta propulsiva degli ottimi polistrumentisti può frenare l’entusiasmo.
L’inizio sembra promettere fin troppa spensieratezza con l’ironica opening track “Burial Ground”, che trasporta le armonizzazioni e i coretti dei Beach Boys tra le tombe di un cimitero, e con “Oh No”, dalla ritmica latina, i fiati sbuffanti e le chitarre tremolanti alla Calexico invitate a un matrimonio in stile Emir Kusturica. Per fortuna il clima cambia con “Long White Veil”, dove banjo e slide guitarsvelano una storia di lutto coniugale.
La parte centrale è illuminata dai momenti più toccanti: “The Black Maria” ha l’andamento dolente dei National e con un solenne strato di fiati richiama lo spettro delle ingiustizie giudiziarie (Black Maria è il veicolo destinato a condurre i galeotti verso le prigioni). “All I Want Is You” è una grande love song tutta giocata tra sottile ironia e pacata polemica.
Dopo il gravoso impegno politico con il sostegno ai democratici degli anni passati, sfociato in brani come “Sixteen Military Wives” e “Severed”, in “As It Ever Was, So It Will Be Again” la band di Portland vive un periodo di disincanto e disillusione che esprime in un altro picco della raccolta: “America Made Me”, scintillante crescendo sixties guidato dal piano di Jenny Conlee per sostenere l’invettiva contro la madre patria cui si chiede solo un aiutino per continuare a dormire. E se i grandi temi latitano, allora è la ricerca di empatia nell’insoddisfazione a diventare protagonista, come nell’elegante malinconia della ballad midtempo “Tell Me What’s on Your Mind”.
“Joan In The Garden” occupa un’intera facciata dell’ipotetico doppio album, è il pezzo più lungo mai registrato dai Decemberists ed è la vera novità di questa ultima uscita. Si tratta di un autentico all in nel quale la band mette in mostra tutte le sue abilità. Nei 19 minuti di durata sono presenti la ballad acustica, il crescendo floydiano, la sospensione rumorista (troppo lunga con 6 minuti) e la ripresa con tanto di cavalcata heavy per sugellare le vicende di Giovanna d’Arco, la pulzella d’Orleans caduta direttamente dal rogo sulla penna di Colin Meloy, il riservato cantautore nato per lo stage, anche se qui è soprattutto la band a prendere la scena, dissipando ogni dubbio sulla sua essenziale centralità nell’economia del suono Decemberists.
Se il precedente I’ll Be Your Girl aveva cercato nei suoni digitali una nuova chiave, qui sono le durate a spostare la band dalla propria comfort zone. Infatti As It Ever Was, So It Will Be Again non si presenta come un disco di svolta e questo è confermato anche dal ritorno del vecchio produttore Tucker Martine (MudhoneyNeko CaseMy Morning Jacket). D’altronde, già il titolo stesso ("Come è sempre stato, così sarà di nuovo") conferma quest'attitudine.
In As It Ever Was, So It Will Be Again, non tutti i brani hanno la stessa intensità e la prima parte è un po’ più debole, ma la grande notizia è che lo sferragliante carrozzone dei Decemberists è di nuovo in circolazione e il suo immaginario pieno di cimiteri, cuori spezzati, spose cadavere, fughe tra i boschi e Giovanne d’Arco che bruciano è di nuovo pronto ad accogliervi. Se salire o meno, è una decisione che spetta solo a voi.

Contributi di Gabriele Benzing ("Her Majesty"), Lorenzo Righetto ("What A Terrible World, What A Beautiful World"), Alessio Belli ("I'll Be Your Girl"), Lorenzo Montefreddo ("As It Ever Was, So It Will Be Again")