Nella sezione riservata alla musica il loro libro ancora non c’è, ma la sua assenza è rumore. Due centimetri scarsi di spazio vuoto che stridono con tanti dei metri di armadio appaltati al culto rancido delle popstar che furono. Dorsi dalle tinte acide dedicati a certe insulse meteore dei Novanta, con i titoli di quel loro unico singolo di successo scolpiti sulle brossure come luccicanti condanne, teaser festonati sul baratro di un oblio che appare oggi quantomai opportuno. Pietoso, verrebbe da dire. La biblioteca non lo acquisisce, occorre prima che qualcuno si prenda la briga di scriverlo e pubblicarlo. Improbabile che la cosa avvenga ora, con i riflettori lontanissimi da Minneapolis, anche se la delicata brezza del rilancio potrebbe non essere male come incentivo. Più realisticamente toccherà aspettare che la parabola dei Jayhawks si sia conclusa, prospettiva già vaticinata un’infinità di volte e poi regolarmente smentita da questo manipolo di illusionisti con la chitarra. Mark Olson e Gary Louris, Dioscuri della riscoperta Americana e sublimi artisti della suspense, eterni personaggi in cerca d’autore con i trascorsi giusti per il più avvincente dei feuilleton: un incidente stradale da far invidia a Bob Dylan, il rocambolesco contratto con la major firmato a un niente dallo scioglimento, e poi quella defezione inattesa per fare spazio alle ragioni del cuore. Mark che si chiama fuori proprio nei giorni delle prime e uniche copertine. Che abbandona la città per abbracciare il deserto del Mojave e si consacra a quella ragazza cantautrice, Victoria Williams, cui ha appena dedicato una canzone e che presto porterà all’altare. La volontà di starle accanto e di affrontare con lei le lunghe ombre della sclerosi gli vale il plauso di tutti quelli che avevano amato il gruppo. L’affetto spegne sul nascere l’amarezza, e quel po’ di vampa non lascia scorie. Lascia però i Jayhawks mutilati e prossimi al capolinea, privi di bussola nei meandri della tradizione e ormai inservibili in quell’universo country alternativo che proprio loro, ben più dei sempre celebrati Uncle Tupelo, avevano saputo rendere così meravigliosamente attuale negli anni della tormenta grunge. A neanche un lustro da quella rivelazione, in fondo al pozzo si compie però il miracolo con un’insperata rinascita in chiave pop firmata da Gary Louris.
Sarà solo il primo di una lunga serie.
Gli Everly Brothers sono tornati
Minneapolis, inverno 1985. Il ventiquattrenne Mark Olson muove i primi passi in una scena musicale tra le più vivaci negli Stati Uniti del secondo mandato Reagan. Nella città di Prince si sono appena affermate un paio di formazioni-chiave della crescente rivoluzione hardcore, Husker Du e Replacements, mentre altre realtà destinate a riscuotere un certo successo in orbita alternative – le riot grrrls per eccellenza, Babes In Toyland, e i Soul Asylum – stanno per debuttare o sono ancora in fase di rodaggio. Con questi fermenti di rottura, Mark ha però davvero poco a che fare. Lui suona il basso in un’ignota band rockabilly chiamata Stagger Lee ma, più spesso, sfoga la propria passione per il folk esibendosi da solo in piccole bettole della zona, voce e chitarra acustica, con un repertorio che comprende qualche brano originale e molte cover, da Dave Van Ronk a Neil Young passando per il più celebre artista della canzone che il Minnesota abbia saputo esprimere, un certo Robert Allen Zimmerman.
Il ragazzo è ambizioso e ha precise idee musicali da affermare, per quanto poco in sintonia con il trend del momento. Va pazzo per due gruppi-cardine della tradizione country-rock, accomunati dalla presenza della parola “fratelli” nell’intestazione: gli inarrivabili maestri delle armonie vocali, gli Everly Brothers, e poi i Flying Burrito Brothers del suo mito personale Gram Parsons, inventore e massimo alfiere di quella magica commistione di radici e innovazione denominata Cosmic American Music. Per lui quella ricetta non ha perso un grammo del suo smalto e l’intenzione di riproporla a grandi linee ne anima le mosse, ostinate e controcorrente, in una metropoli del Midwest che guarda musicalmente in tutt’altra direzione. Stanco di fare da gregario a gente meno dotata di lui, Olson decide quindi di dar vita a una band tutta sua, girando l’invito a Marc Perlman e Norm Rogers, rispettivamente chitarrista (poi riconvertitosi in bassista, su sua richiesta) e batterista di un’altra compagine locale, i Neglecters.
I primi concerti dei neonati Jayhawks vedono la partecipazione di una seconda chitarra, quella di Steve Retzler, il cui impegno da programma è però solo temporaneo. Tra i pochi spettatori presenti a una di queste serate, Mark riconosce il trentenne Gary Louris, musicista dell’Ohio con trascorsi nei misconosciuti Schnauzer, che a Minneapolis si è ritagliato una pur risibile notorietà suonando la chitarra elettrica in un altro combo d’inclinazione rockabilly, i Safety Last, piccola gloria locale con un Lp uscito per la Twin/Tone un paio di anni prima. Olson è in cerca di una spalla affidabile, ma non può immaginare che il collega, interpellato in cerca di un nome o un suggerimento, candidi se stesso senza esitazioni. E’ la svolta che serviva, e non sarà l’unica in questa fase cruciale. A una delle esibizioni inaugurali del rinnovato quartetto, opener nientemeno che per Alex Chilton, assiste il broker Charlie Pine, che resta così favorevolmente impressionato da proporsi come manager, fondare una propria etichetta (la Bunkhouse), finanziare e produrre l’anno seguente il disco di debutto, eponimo ma conosciuto da subito anche come The Bunkhouse Album.
Ruspanti, felpati, veracissimi, i ragazzi vi si muovono tra country e blues sanguigno adottando un formulario non certo originale ma compensandone I limiti con la schiettezza e l’entusiasmo. La guida è salda nelle mani del giovane Olson, mentre il più esperto Louris le licenze se le prende soprattutto con i bizzosi volteggi della sua chitarra (“Falling Star”). Nelle poche occasioni in cui è lui a cantare, appare ancora ingenuo ed eccessivamente impostato, ma i primi incroci delle due voci, pure in quadretti sempliciotti, promettono già discretamente bene. Saranno anche scarni e diretti con la loro giovanile esuberanza, ma in questa loro prima accorata prova i Jayhawks riescono anche sufficientemente godibili. Il jingle-jangle aromatico di “Let The Critics Wonder” tratteggia uno stile che suona come una versione reazionaria del morente fenomeno Paisley Underground. Fuori tempo massimo per elezione, gli statunitensi si dilettano con uno schematismo in realtà libero quanto basta dai condizionamenti espressivi dell’epoca. Divertono e si divertono, infilando una sequenza di ballate da giovani cowboy (vedi “Lonesome Memory”), più spensierate di quelle coeve degli esordienti Giant Sand ma ugualmente devote alla grande tradizione yankee e al suo canone. A scompaginare un minimo le carte pensano le apprezzabili digressioni chitarristiche e un incontro di elettrico e acustico che appare già ben equilibrato. I quattro di Minneapolis si presentano con l’allegra strafottenza dei campagnoli (“Six Pack On The Dashboard”, “Behind Bars”), ma il precedente tirocinio di Louris mostra di poter fare la differenza: la sua buona padronanza tecnica preserva infatti canzoni altrimenti banalotte dalla mediocrità del puro macchiettismo.
Sono brani veloci e spigliati che si lasciano ricordare quasi esclusivamente per quest’intonazione così pungente e incline al popolare, ma che in filigrana rivelano anche un buonissimo lavoro a livello di arrangiamenti e armonizzazioni, a riscattare i limiti di una scrittura per forza di cose basica, vincolata dai cliché di genere. In “The Liquor Store Came First” riecheggia il primo Dylan, imitato con buona personalità, il giusto piglio e un sound già rigoglioso, mentre “King Of Kings” (ospite proprio il dilettante Pine al pianoforte) svela assonanze con il garage-beat di marca Fleshtones (in una variante irriducibilmente Americana) e “(I'm Not In) Prison” vede la band riallacciarsi al chitarrismo scintillante e byrdsiano dei primi Rem, pur senza azzardare mai un passo fuori del seminato del conformismo roots. Se le stilizzazioni bluegrass si dimostrano tutto sommato efficaci, animate nella maniera più credibile e con tutto il cuore che serve, le pennate di slide in chiave estetizzante coronano qualche episodio appena sopra la media (“Misery Tavern”), per un esordio onesto e francamente più che dignitoso.
The Jayhawks vende presto le poche copie stampate, ma non propizia alcuna svolta favorevole per i suoi autori. Diventerà col senno di poi materiale per collezionisti e dovrà attendere addirittura un quarto di secolo per una nuova pubblicazione, rimasterizzata, a cura della Lost Highway. La frenetica ricerca di una major da parte di Charlie ancora non porta a nulla, così Norm Rogers lascia per cercare fortuna con un’altra formazione, The Cows, e viene rimpiazzato da Thad Spencer. La A&M, frattanto, offre denaro sufficiente alla registrazione di svariati demo, pur non mostrandosi poi interessata a mettere sotto contratto i quattro. Nuove canzoni vengono effettivamente scritte e in parte incise ma nell’ottobre 1988 un grave incidente automobilistico mette fuori gioco per lungo tempo Gary Louris, rimpiazzato brevemente da Dan Gaarder. Scoraggiato, il chitarrista lascia il gruppo e si orienta a far fruttare la sua laurea in architettura mentre Marc Perlman inizia a lavorare per una casa editrice, la Lerner, che pubblicherà cinque anni dopo un paio di suoi saggi sul cinema americano. I Jayhawks, a questo punto, sono di fatto al capolinea. Il solo a non aver perso le speranze è proprio l’instancabile manager, Charlie Pine, che dopo aver tanto brigato strappa a Dave Ayers, presidente della Twin/Tone, la promessa di veder pubblicati tutti i demo nel frattempo abbozzati e accantonati. Gary viene sollecitato a contribuire incidendo le parti ancora mancanti della sua elettrica e, soddisfatto del risultato (e della produzione dell’amico Jim Rondinelli), decide di concedere una seconda opportunità a se stesso e ai compagni.
La raccolta esce alla fine del 1989 con il titolo Blue Earth. L’avvio è nel solco della tradizione: armonica a bocca, due voci sposate in un solo canto senza tempo, splendide trapunte armoniche. Dietro la quiete di questo placidissimo jangle-pop sono rintracciabili però i semi della riforma country in chiave alt-rock che la band attuerà con profitto appena tre anni dopo. Qui le avvisaglie sono forti e chiare e non per nulla le due canzoni impiegate a mo’ di cornice verranno poi rivisitate (quella di congedo in particolare, “Martin’s Song”, destinata a imporsi tra le classicissime del gruppo di Minneapolis grazie al suo singalong quasi catartico). I ragazzi si presentano particolarmente sornioni e sensuali, specie in quei passaggi in cui il cantato evocativo spinge le loro narrazioni sul piano della fascinazione pura, costantemente puntellata da impalcature elettriche così poco invasive e così brucianti. In brani che si rivelano già discreti killer come “She’s Not Alone Anymore” si avverte ancora una freschezza assoluta, una frivolezza che incanta. Se il canto di Mark, sempre leader incontrastato, conferisce un’impostazione classica irriducibile, il chitarrismo guizzante di Gary strizza l’occhio a un easy-listening marezzato, all’alternative allora in voga dei concittadini Replacements e al college-rock di Rem e tanti altri.
La band non ha ancora il respiro lungo dei suoi lavori epici, ma il felice bozzettismo di questa operina di passaggio ha in sé una gradevolezza semplicemente contagiosa, una trasparenza, un lindore nel songwriting e una precisione nei suoi meccanismi che gli consente di farsi amare al primo ascolto. Le canzoni sono frugali, ottimiste e luminose senza mai cercare la forzatura, genuine perché prive della benché minima adulterazione formale. E sono anche bellissime, tra fragranze elettroacustiche di pregevole fattura e refrain magari non vertiginosi ma già discretamente micidiali, specie quando – è il caso della leggerina (ma autorevole) “Dead End Angel” – il timone spetta a Louris. Episodi meno tenui e più aperti alla contemplazione come “Commonplace Streets” lasciano intuire il potenziale di una formazione assai meno incline al caricaturismo di quanto certe sonorità e certe pose potrebbero far intendere. In un caso o nell’altro, è la sinergia tra i due protagonisti, il dualismo anche chitarristico, quel completarsi sempre a regola d’arte, a fare la differenza e ad accendere un album all’apparenza tranquillo ma in realtà percorso da un’apprezzabile esuberanza sotterranea, quella che rompe gli argini nel finale torrenziale ed entusiasmante dell’ultimo brano citato. Il gioco riesce anche altrove: l’estatica “I’m Still Dreaming, Now I’m Yours” imposta un calco della malinconia al quale la band tornerà spesso e volentieri in seguito, mentre “Sioux City”, grazie alla sua nostalgia provincialotta, tratteggia con la necessaria sincerità il piccolo mondo antico del quartetto, pur senza condannarlo a restare un perenne diorama. La combriccola è viva e affamata e non intende limitarsi a questi pur sublimi esercizi di stile.
Anche quando la formula si fa un tantino più leziosa (la cantilenante “Five Cups Of Coffee”), i Jayhawks si dimostrano abili a dissimulare qualche soluzione più didascalica e facilona con il loro jangle impassibile, o con il timbro ipnotico e dolciastro del frontman. Alcuni pezzi restano tra quelli più irresistibili dell’intero catalogo, matematici nella loro perfezione populista tascabile anche senza ricorrere mai all’anabolizzante produttivo. Parliamo di “The Baltimore Sun”, o di “Red Firecracker”, campagnola ma muscolare, revivalista e spaccona a un tempo, che sembra suonata da smargiassi adorabili con chitarre che mordono. C’è abbastanza per solleticare i puristi della classicità yankee – che non faticheranno a trovare echi degli adorati (da Olson) Everly Brothers e Flying Burrito Brothers – ma tra le pieghe di un album così concepito è comunque nascosta la chiave per l’imminente, quieta, rivoluzione. Un buonissimo sophomore di per sé, insomma, ma anche una promessa per più audaci perlustrazioni nella mitologia Americana che sarà presto mantenuta in modo più che disinvolto.
Una band Americana
Pur restando un disco di nicchia, Blue Earth ottiene recensioni più che lusinghiere. Il Village Voice, in particolare, promuove i Jayhawks come “unico gruppo country-rock davvero significativo in circolazione”. I riscontri commerciali sono quel che sono, come le doti promozionali della Twin/Tone, ma la speranza del gran salto non si è affievolita e i quattro di Minneapolis accantonano senza rimpianti i rispettivi impieghi per dedicarsi a tempo pieno al progetto e girare per gli States con una vecchia e malmessa ambulanza (affettuosamente ribattezzata Bula). Non tutti in realtà, visto che anche Thad Spencer lascia vacante la postazione dietro i rullanti, subito occupata da Ken Callahan.
La svolta vera però, del tutto inattesa, è un’altra, racchiusa in un aneddoto che, raccontato oggi, conserva intatto il sapore dei bei romanzi rock di una volta. E’ il 1991. Una telefonata tra il boss della piccola label del Minnesota, Ayers, e il produttore George Drakoulias, con un ruolo di spicco in Def American, cambia tutto: in sottofondo le note di quello smaliziato sophomore sono per il secondo un’autentica folgorazione e il contratto con la scuderia di Rick Rubin arriva quasi subito.
Affidato alle mani sapienti di Drakoulias (artefice del clamoroso successo all’esordio dei Black Crowes, bissato in quegli stessi mesi da “The Southern Harmony And Musical Companion”) e di un altro guru come Brendan O’Brien, il “difficile” terzo disco è in realtà quanto di meno complicato i Jayhawks abbiano mai creato. Impreziosito da un paio di sessionman di grido come Nicky “la sesta pietra” Hopkins e Charley Drayton, oltre all’organista degli Heartbreakers di Tom Petty, Benmont Tench, Hollywood Town Hall dimostra che il passo si è fatto decisamente più sicuro, merito anche della produzione rotonda e scintillante dei due professionisti sopracitati. La band si presenta con una canzone che già esalta la sua epica del marginale, radiosa tra svolazzi corali ed eleganti sottolineature di piano, ma anche intensa per via degli incroci delle chitarre, inclini all’assolo ma senza pose o onanismi di sorta. Armonica rustica, voci melodiose slanciate all’unisono, orlature d’hammond: “Crowded In The Wings” è lesta a riallacciarsi ai canoni della conservazione, concetto poi ribadito da una ritornante “Two Angels”. Le tentazioni veraci sono tuttavia silenziate dal piglio mai retorico di una prova che intende attualizzare standard musicali oggettivamente logori, piegandoli a una sensibilità senza tempo che si trova comunque a suo agio nel presente (pur in aperto contrasto con le istanze di maggior rottura provenienti dalla costa occidentale).
Si alternano due registri distinti, uno più audacemente pop-rock nella scrittura che è appannaggio di Louris, e uno che riflette l’estrazione folk classicista di Olson. L’incontro tra le due anime è un eccellente amalgama, un gioiello di equilibrismo tra revival e slancio riformatore. Le canzoni, da parte loro, lavorano in modo esemplare, raffinate perle easy-listening impreziosite da una cura del dettaglio, della sfumatura, sempre rimarchevole. Ne è una prova “Martin’s Song”, una delle due rivisitazioni dalla precedente fatica, che si adegua al clima generale di trionfante spigliatezza ma evita il ricorso a ulteriori sostanziali accorgimenti sul piano formale. O anche “Clouds”, un rock vivace, felpato, schietto e splendidamente arrangiato, capace di eludere le trappole bozzettistiche o caricaturali di genere per librarsi con autorevolezza tra le pagine di un’ideale antologia Americana per il nuovo decennio, su un sentiero che diverse altre grandi band (Sadies e Richmond Fontaine in testa) si troveranno a percorrere presto.
Qui si parla di Dio e umanità con grande asciuttezza e l’entusiasmo sincero di un Woody Guthrie, incantando soprattutto grazie ai favolosi intrecci tra la voce dolciastra di Mark e quella acidula di Gary (in “Sister Cry” soprattutto, una rincorsa tra i due che lascia senza fiato), e a quelle chitarre sontuose ma mai leziose. E se la Wichita cantata nell’omonimo brano è la stessa di “Wichita Lineman”, superclassico immortale con cui condivide l’epica spicciola e bellissima, gli spazi evocati nel titolo di “Nevada, California” sono quelli vastissimi che si incontrano nel tragitto, paesaggi assolati e incontaminati in una prospettiva bigger than life profondamente yankee che ha la natura sempre al centro, e gli individui a far da comparse. E’ poi illuminante anche la copertina, con la band accomodata su un divano à-la Cranberries (un attimo prima di Dolores e compagni) ma in campo lungo. Un profilo, questo, che verrà rovesciato nel disco successivo (e relativa fotografia di presentazione), una sorta di romanzo popolare in cui la gente tornerà a essere assoluta protagonista in scena.
Difficile e in fondo ozioso stilare classifiche d’eccellenza tra gli episodi, anche se i refrain di “Take Me With You (When You Go)” e “Settled Down Like Rain” sono formidabili pezzi di bravura e chiamano all’irrinunciabile singalong. La chitarra graffiante di Louris, che ricorda quelle appena più sferraglianti e inclini al blues dell’altra compagine roots dal tiro superbo lanciata da Drakoulias negli stessi anni, completa l’opera solleticando il pubblico poco avvezzo alle sonorità eccessivamente garbate. Rispetto alla band dei fratelli Robinson, si registra un briciolo di virtuosismo e cattiveria in meno, compensati peraltro da una pulizia nel songwriting e nell’esecuzione pressoché inarrivabili. Tutto insomma funziona, in una ricetta espressiva che sa di populismo ad alta quota e lascia immacolata anche la coscienza del fruitore rock intransigente. Non c’è incertezza, ma non ci sono nemmeno smargiassate da quattro soldi. I Jayhawks suonano potenti e luminosi senza mai rinunciare alla misura, senza uscire dal seminato di una tradizione che si guardano bene dallo stravolgere. Buona parte del loro fascino, in fondo, risiede proprio in questa implicita devozione, nel giocare nelle regole provando ad apportare aggiornamenti mai tranchant grazie alle proprie riscritture del canone. Seguendo quest’ottica, la band di Hollywood Town Hall appare davvero un rullo compressore, una fabbrica di suggestioni non adulterate che incanta con naturalezza assoluta e si profonde in una raccolta trasparente quanto disinvolta. La partita è giocata su un piano squisitamente letterale, senza particolari sottotesti o i simbolismi accattivanti (e ruffiani) propri di tante altre formazioni negli stessi anni.
La riscrittura del country, anche in una forma meno rigorosa rispetto a quella proposta dagli Uncle Tupelo, non può più prescindere dal loro rock delle radici aromatico e marezzato. L’album esce nel settembre 1992, in piena tormenta grunge, non fatica a conquistare la critica ma, a dispetto di un genere non certo appetibile, si comporta egregiamente anche in termini commerciali.
Tutto il 1993 vede i Jayhawks impegnati in un tour mondiale con la significativa novità di una tastierista in squadra, Karen Grotberg, reclutata da Mark dopo aver assistito a un’esibizione della sua band, The Ranchtones. Nella primavera dell’anno seguente, il gruppo è nuovamente in studio a Los Angeles assieme a un confermatissimo Drakoulias. La Grotberg è promossa titolare sul campo, ma ancora una volta di deve far fronte alla defezione del batterista di turno, Ken Callahan, che viene sostituito a tempo da un sessionman d’eccellenza come Don Heffington (già alla corte di Bob Dylan).
Tomorrow The Green Grass vede la luce il giorno di San Valentino del 1995 e non fa mistero della propria ambizione, con in avvio un uno-due da knock-out tecnico. La band ha alleggerito i carichi in un’opera che promette d’essere più folk che rock, con le acustiche in primo piano e l’inedita scorta di archi magnificamente ariosi. A “Blue” l’onore di apparecchiare un disco che si presenta insieme malinconico e solare, delicato e disinvolto. L’altro singolo, “I’d Run Away” non sconfessa la nuova impostazione e alza la posta con il pianoforte malandrino dell’indispensabile new entry femminile, anche corista. Quel che si ascolta in questa prima manciata di minuti vale come fotografia di un gruppo nella sua fase di piena maturazione artistica. A giudicare dalla sintonia evidente non si direbbe, ma nella loro sfida silenziosa i due leader sgomitano parecchio, spingendo peraltro l’asticella sempre un po’ più in alto. Il gioiellino firmato da Olson a questo giro si intitola “Miss Williams Guitar”, dedicata alla cantautrice Victoria Williams – all’epoca sua fidanzata – per stare con la quale abbandonerà presto la barca al suo destino. Vera protagonista resta però l’elettrica del compare con le sue increspature d’ordinanza. E’ chiaro, il paesaggio non è più al centro dell’affresco. E’ la volta delle canzoni d’amore, tipo questa o la ben più compassata “Two Hearts”, dove Louris sussurra cuore in mano e pennella con tocco essenziale, attento alle ombreggiature. Anche con i ritmi blandi la compagine di Minneapolis si dimostra insomma a proprio agio.
L’impennata vera arriva con “Real Light”, passaggio che infiamma il disco ma non rinuncia comunque alla propria intonazione nel segno di un accorato umanesimo. Gli episodi veloci come questo marcano una distanza significativa rispetto al canone di più rilassata meditazione del lavoro precedente. Sulla medesima falsariga si muove “Over My Shoulder”. La viola accompagna Mark nel brano più dimesso e sofferto del lotto. La meraviglia delle piccole cose, del sentimento autentico, impregna ogni nota e battezza ogni nuance melodica, assieme a quella prospettiva partecipata, comunitaria quasi, che contribuisce a fare di Tomorrow The Green Grass una sorta di moderna pastorale, di certo l’opera più profondamente Americana del gruppo.
A penalizzarla o favorirla, secondo i gusti, è la sua discontinuità, un costante saliscendi emotivo e di passo. Se sugli scudi si accomoda la perla dolceamara (e dal pungente retrogusto sixties) di “Bad Time”, cover riuscitissima dei Grand Funk Railroad, qua e là si indugia in un melò un tantino retorico, e anche questo può condizionare in senso negativo l’eventuale confronto (comunque apertissimo) con il predecessore. Capita in “See Him On The Street” e “Ann Jane”, anche se in quest’ultimo caso il patetismo è compensato grazie a una modulazione dell’accento nostalgico da autentica pelle d’oca.
La band si conferma comunque bonaria e tendenzialmente radiosa fino alla fine, piazzando ancora a orologeria uno dei suoi refrain schiacciasassi in “Nothing Left To Borrow”, altro discreto killer con quelle armonie, quei violini, quell’elettrica così sfacciatamente adorabile, o nell’agrodolce e frugale “Red’s Song”, che completa l’idillio con un pizzico di rilassato autocompiacimento. Il calo nel finale è fisiologico ma non vistosissimo, attutito dal mestiere (“Pray For Me”) o dall’entusiasmo arrembante e fanciullesco (“Ten Little Kids”), e non pregiudica la riuscita di un album davvero ispirato e convincente. Che vende meglio di qualsiasi altra cosa pubblicata in passato dal gruppo, ma pur sempre meno di quanto sperato. Con un nuovo tour mondiale, la fine dell’anno porta però anche un nuovo batterista, destinato a infrangere la maledizione del seggio vacante per imporsi tra le colonne dei Jayhawks che verranno. Già uomo di fiducia di Joe Henry, si chiama Tim O’Reagan, è originario di Kansas City e ha all’attivo un disco con la sua precedente band, The Leatherwoods.
Primo intermezzo: Gary e il supergruppo roots
Gary Louris e Marc Perlman sono i primi membri dei Jayhawks a concedersi il lusso di una vacanza dalla band. Licenza bizzarra, ma alquanto preziosa la loro, spesa nelle fila di un supergruppo nato quasi per scherzo nella Minneapolis di fine anni Ottanta e divenuto in breve tempo un imperdibile fenomeno di culto nel sottobosco indipendente. I Golden Smog, questa l’intestazione mutuata da un soprannome di Fred Flinstone in “The Flinstones”, hanno in realtà origini incerte e di certo non comprendevano i due musicisti nella loro prima incarnazione: una cover-band ora degli Eagles ora degli Stones, denominata a seconda dei casi The Take It To The Limit Band o Her Satanic Majestic’s Paycheck, e composta dai due Soul Asylum Dave Pirner e Dan Murphy, dal futuro Son Volt Jim Boquist e da Martin Zellar dei Gear Daddies. Con i primi anni Novanta, il progetto collaterale di Pirner e Murphy ha assunto una fisionomia meglio definita e una maggior assiduità live, aprendo le porte, oltre ai due Jayhawks, anche a Kraig Johnson dei Run Westy Run e al batterista dei Replacements Chris Mars. E’ questa formazione a chiudersi per la prima volta in studio e pubblicare nel 1992 un Ep di debutto, On Golden Smog, quasi per gioco (come confermato dalla scelta delle mentite spoglie, pseudonimi adottati per vincoli contrattuali con le rispettive label e plasmati assemblando il secondo nome di battesimo e l’intestazione della strada in cui si era cresciuti).
Cinque cover in chiave Americana dai più disparati riferimenti (dai Rolling Stones ai Thin Lizzy), con la chicca di un recupero – “Easy To Be Hard”, rilassata ma intrigante – addirittura dal musical “Hair”; un mini-album registrato senz’altro come puro passatempo, che ha tuttavia almeno una ricaduta significativa: la rivisitazione di “Shooting Star” dei Bad Company (l’altra band di Paul Rodgers dei Free), cantata da Pirner con la consueta enfasi, finisce nella colonna sonora di un inatteso successo cinematografico del 1994, il generazionale “Clerks” di Kevin Smith.
La prospettiva cambia radicalmente nel biennio seguente, con le defezioni di Pirner e Mars, l’ingresso in squadra di Jeff Tweedy dei Wilco e il maggior impegno riversato da tutti in questa avventura collaterale, certificato dal buon livello qualitativo e quantitativo dei brani originali composti apposta per il gruppo. Così l’esordio dei Golden Smog sulla lunga distanza, Down By The Old Mainstream (che esce per Rykodisc nel 1995), suona a tutti gli effetti come una sorpresa. Il biglietto di benvenuto di “V” è ruspante quanto basta ma con un formidabile intuito melodico. Il sapore è quello delle rimpatriate tra vecchi amici, verace e un tantino goliardico. A tratti il disimpegno tende al plateale come il caricaturismo roots che anima i musicisti coinvolti, sopra le righe ma in modo genuino. In termini di qualità, però, le canzoni non scherzano affatto.
“Ill Fated” è un altro titolo emblematico. Il jangle-pop riesce scintillante, l’elettrica di Gary romba incontenibile, mentre Jeff e Kraig sono chiamati ad armonizzare, sulla falsariga proprio di Louris e Olson. Il ritornello, memorabile, è solo il primo di una lunga serie per questa gioviale combriccola, all’insegna di un’Americana assai meno ingessata dello standard. “Pecan Pie”, un bozzetto acustico che è puro Tweedy, marginale quanto si vuole ma efficacissimo nelle sue aromatiche inflessioni yankee. In “Yesterday Cried” e nella crepuscolare “Williamton Angel”, prova di romanticismo a brandelli pure incantevole (se si è nella giusta disposizione), Johnson irretisce con la sua voce lagnosa, acidula e miagolante, prediligendo cadenze blande ma non rinunciando a regalare carezze melodiche o decorazioni traditional di slide che ingolosiscono. Va persino meglio con l’alt-country infiammato (e impazzito) di “Friend”, le cui vibrazioni e i cui spifferi nervosi conferiscono spessore a una prova sufficientemente aspra e sanguinante, compensando nel contempo i limiti artistici e caratteriali di Kraig. Il risultato è per lui meno lusinghiero quando la medesima intonazione, tirata un po’ troppo in chiave semi-amatoriale, finisce per indisporre (“He’s A Dick”, titolo per certi versi programmatico).
In una raccolta molto gradevole come Down By The Old Mainstream, i pezzi davvero incisivi sono però pochi. Su tutti forse “Nowhere Bound”, merito della griffe teatrale (ma ispirata) del sempre controverso Dave Pirner, in un brano che effettivamente potrebbe passare per una miracolosa outtake di “Grave Dancers Union”, al netto della melassa di quel bestseller milionario. A “Glad & Sorry” va la palma per il riff più indimenticabile (onore da tributare all’autore dell’originale, Ronnie Lane dei Faces), pure nel solco di una produzione casereccia, di un disco scritto o arrangiato comunque alla buona, “una incisione e via”. In questo quadro Louris non sfigura certo e, anzi, lascia una traccia indelebile delle proprie sortite. Irrompe piuttosto tardi con “Won't Be Coming Home” e il suo piacevolissimo twang-pop, pur senza eludere un senso di ordinaria amministrazione e senza discostarsi dal canone della sua band, specie dalle sonorità del recente Tomorrow The Green Grass. Non è un caso, trattandosi di un’eccedenza proprio dell’ultimo lavoro cointestato a Mark Olson.
Se gli episodi più tonici restano quelli firmati da Murphy – che oltre all’opener getta nel mucchio l’anthemica (e amabilmente provincialotta) “Red Headed Stepchild”, sempre all’inseguimento del suo capobanda – si collocano tra i senza infamia e senza lode diversi di quelli cantati da Jeff: la cover di “She Don't Have to See You” di Bobby Patterson ha il giusto piglio cantautoriale, “Walk Where He Walked” può vantare l’eco dei Wilco grossolani e genuini di certe uscite minori (le riletture guthrieane della serie “Mermaid Avenue”), ma pur divertendo con quel loro fare guascone rimangono titoli prescindibili. Il finale con “Radio King”, inedita joint-venture Tweedy-Louris (praticamente la crema di un’intera scena), è però da incorniciare, uscita felicemente irrilevante, sussidiaria, eppure in grado di pungere.
Si potrebbe pensare a questo disco come a una festa del tutto estemporanea, ma i ragazzi ci hanno ormai preso talmente gusto da non poter rinunciare al giocattolo collaterale, e i grandiosi risvolti dimostrano la bontà della loro scelta condivisa. Noah Levy degli Honeydogs abbandona e dietro ai rullanti si accomoda un’altra star, lo storico batterista dei Big Star Jody Stephens. Gary non sarà più Michael Macklyn, Marc "ripudia" Raymond Virginia, essendo decaduto ogni vincolo legale sull’uso del proprio nome nei credits.
Il sophomore dei Golden Smog esce sempre per Rykodisc nell’ottobre del 1998 con la produzione di Brian Paulson (scelto per l’eccellente servizio reso ai Jayhawks l’anno prima): si intitola Weird Tales, come l’omonima rivista pulp degli anni Trenta-Quaranta che omaggia apertamente tra copertina e booklet, e si impone all’attenzione dei pochi che hanno la fortuna di ascoltarlo per il capolavoro che è, una pietra miliare del rock delle radici anni Novanta.
L’avvio è a dir poco rombante, con una cavalcata modello Soul Asylum rilanciata nelle ambizioni dall’impianto corale vivacissimo e dalla caratura superiore degli attori coinvolti. Una valida introduzione all’album, raccolta di trionfanti esternazioni power-pop, smaliziate e contagiose.
“Until You Came Along”, semplicemente una delle migliori canzoni di sempre di Louris (non per nulla riproposta spesso dal vivo anche con i Jayhawks), rincara la dose: impressionante autorevolezza, afflato nostalgico di grana finissima oltre a un eccelsa declinazione dei precetti espressivi dell’Americana, dal jingle-jangle delle chitarre a un’armonizzazione inappuntabile. Un capolavoro che non chiede altro che essere cantato senza riserve assieme alla band. Nel mezzo, il primo contributo di Johnson ha un’irrinunciabile marcatura roots, priva di pose accademiche o tediose lungaggini classiciste. Il tono si conferma frizzantino, un’esaltazione della melodia a tutto campo orchestrata da un’autentica macchina da guerra easy-listening.
I ritornelli sono tutti memorabili, anche quelli affidati alla fragile voce di Kraig Johnson (emblematica “If I Only Had A Car”), meravigliosamente cesellati dalle elettriche al crepuscolo o dalla scorta vocale degli altri membri della ghenga. Il respiro si è fatto lungo, riflesso di un’epica solidissima pur nella sua marginalità e di un equilibrio di forze davvero pazzesco. Non da meno anche gli arrangiamenti o le decorazioni degli archi, mai invadenti o pacchiane, superbo corredo quando si riaffaccia Louris il seduttore, in una “Jane” molto più frugale e confidenziale nel suo bel vestitino elettroacustico (e con le spazzolate di Stephens). Non sempre è necessario travolgere l’ascoltatore con i carichi da novanta per lasciare il segno, quando si possiede una voce di velluto come questa. E se la canzone d’amore propende un po’ per la dolcezza, tanto meglio, ci si ammorbidisce un istante e il risultato è garantito. Quando viaggiano in una dimensione più raccolta, i Golden Smog suonano comunque calorosissimi. “Lost Love”, ad esempio, ha un taglio intimista tipico della penna di Jeff e omaggia la tradizione country-folk con superba partecipazione, meglio che negli Uncle Tupelo o nei primi Wilco.
Quel che piace, in particolare, è il tono smaccatamente ludico di diversi episodi, sintomo di una band non solo in condizione ma anche intenzionata a divertirsi senza scadere, peraltro, nelle tipiche goliardate autocompiaciute da supergruppo. Il legame di amicizia tra i musicisti, tutti particolarmente ispirati, si percepisce in maniera nitida. Appare evidente che le energie non vengano dissipate in futili esercizi di stile e buona parte del merito va attribuita a un Tweedy sì guascone ma assolutamente in parte. Anche i passaggi più pungenti e stilizzati riescono oltremodo convincenti, “I Can’t Keep From Talking” su tutti. Johnson è ruvido ma arriva al cuore con l’essenzialità di un brano spigliato, folk agro ma anche blues, formidabile celebrazione di tutto un retroterra. Ma non c’è modo di rifiatare perché le gemme si susseguono senza soluzione di continuità. Non fa eccezione la ballatona strappacuore “Reflections On Me”, dove Murphy mostra ancora una volta di saper rubare i trucchi del mestiere al suo diretto superiore, quel Dave Pirner qui assente, imitato con indubbio profitto mentre l’ennesimo refrain assassino si aggiunge alla lista. I titoli più riflessivi e cantautoriali si mescolano a quelli muscolari o con più marcate credenziali college-rock, per un tripudio della musica alternative statunitense dei nineties costruito a regola d’arte e a tutto tondo. Se Weird Tales suona a tal punto bello e convincente è perché, per una volta, non si ravvisa la minima debolezza tra gli anelli della catena e tutti contribuiscono al meglio, soprattutto le cosiddette seconde linee.
Non manca il pezzo più spiritato, nervoso e spigoloso, “White Shell Road”, opera di Gary che già anticipa certe favolose derive irrequiete dell’album successivo con la sua band, per giunta senza il pacchiano maquillage di Bob Ezrin. Ma sono favolosi anche bozzetti come “Please Tell My Brother”, miniature acustiche che vanno ben al di là dei semplici riempitivi per contribuire all’affresco con altre storie, altre immagini folgoranti e tormentoni fatti in casa da mandare a memoria. “Fear Of Falling” è l’ennesima canzone firmata da Louris (con Tweedy e Stephens) a meritare l’ovazione, per la sincerità e quella malinconia invariabilmente intrigante, disegnata dal suo canto acidulo e dall’armonica d’ordinanza. Il congedo è apparecchiato dalla sottile psichedelia di un soliloquio atmosferico tenuamente trasfigurato dalla grana sovraesposta, “All The Same To Me”, e suggellato dall’ultima magia di un Gary in stato di grazia: si intitola “Jennifer Save Me”, una gemma sentimentale sporcata appena da qualche suggestivo detournement spacey e da pochi, disciplinatissimi, inserti rumoristi.
Proprio sul più bello, tuttavia, l’avventura si arresta. Con i Wilco Jeff pubblica un paio di album epocali, Gary e Marc hanno il loro bel daffare con la band principe, il (momentaneo) capolinea dei Soul Asylum influenza negativamente Murphy e, insomma, i Golden Smog finiscono in un attimo nel dimenticatoio. Devono trascorrere addirittura otto anni perché la vecchia congrega si ridesti dal proprio torpore e si riunisca per plasmare un po’ di nuova musica. Il ritorno si intitola Another Fine Day, arriva nei negozi nell’estate del 2006 e rivela dal primo istante una cura del dettaglio sonoro che si è fatta certosina. Le chitarre mordono, levigate, rumorose, arrembanti, ma rispetto all’ormai lontano predecessore sembra essersi rotto qualcosa, si sono un po’ perse la magia e l’incoscienza festosa delle prime uscite. Se sul piano formale è innegabile l’approdo a un alt-rock privo di pecche evidenti, si fa largo nel contempo un’impressione di compitino svolto in maniera diligente, più per timbrare il cartellino che per effettiva passione. Bene si comporta la title track con un Gary di nuovo felicemente smaliziato in mezzo a una selva di riverberi e ombrose digressioni, e analogo giudizio merita la puntata tradizionalista di “Long Time Ago” (con tanto di banjo), ancora sull’asse Louris-Tweedy, velleitaria ma piacevole. Anche in passaggi che riescono a tal punto trascinanti o rigogliosi, tuttavia, manca il brivido autentico.
“5-22-02” è un numero divertito e movimentato, con buone vibrazioni e una robusta tornitura rock-blues. Si sente il riflesso della mezza rivoluzione copernicana operata nel frattempo dai Wilco (e in parte dalla svolta pop di Smile, evidente nella spacconata pacchiana di “Corvette”) ma i frutti sanno in questo caso di replica un tantino leziosa, con un primo accenno di maniera. Nel gruppo salgono le quotazioni di un Louris che suona di tutto (wurlitzer, omnichord, glockenspiel e mellotron inclusi), si fa un po’ prendere la mano e talvolta bada troppo alla forma, dimenticando il cuore nel cassetto (una “Gone” da sbadigli), mentre Tweedy si auto-relega sullo sfondo limitandosi a cantare in tre soli brani, compresa una preziosa cover della kinksiana “Strangers”.
Il contributo di Murphy tende per una volta al pessimo, tra la sboronata arena-rock di “Hurricane” (nel solco delle cose peggiori dei suoi Soul Asylum) e la ballata amarognola di “Never Felt Before”, che si ricorda solo per la faciloneria e le artificiose velleità; resta invece in linea di galleggiamento Kraig Johnson, dignitoso negli episodi che firma e interpreta, tenuto conto che è del meno talentuoso della cricca che si sta parlando (comunque pregevoli l’infervorata “Frying Pan Eyes” e il duetto finale di “Think About Yourself”, con Gary).
Prevale un tono celebrativo tanto magniloquente quanto fine a se stesso, così diversi buoni pezzi – tra cui la riverberatissima “Beautiful Mind” – si perdono in una futile rassegna di virtuosismi assortiti, muscoli e feedback. Ci sono troppe canzoni, spesso troppo seriose e troppo lunghe, e questo impedisce a un album pure volenteroso come Another Fine Day di decollare. Il perfezionismo ha messo le ganasce a un progetto che aveva nell’immediatezza e in una radicale libertà espressiva i suoi fiori all’occhiello. I Golden Smog sembrano aver sacrificato il divertimento e la weirdness per privilegiare la professionalità, specie sul piano tecnico, e il risultato per una volta è deludente.
Ad eccezione del dimissionario (e ormai svogliatissimo) Tweedy, il gruppo sceglie comunque di continuare e nel giro di qualche mese pubblica una nuova raccolta, Blood On The Slacks, troppo stringata per un vero Lp ma anche sufficientemente ricca per un semplice Ep. Come il titolo scherzoso che omaggia Dylan lascia intuire, i ragazzi recuperano in buona misura la posa guascona dei primi lavori o, più che altro, una felice propensione al caos, una luminosa approssimazione che rende particolarmente godibile la movimentatissima opener “Can't Even Tie Your Own Shoes”.
Il clima si conferma poi frizzante e goliardico in “Look At You Now”, macchiettistica forse ma con classe indubbia, in “Scotch On Ice”, che è un po’ il suo contraltare acustico, e nella sbrigativa deragliata punk di “Insecure”, che chiude i giochi. Una buona cover della celeberrima “Starman” di Bowie, estetizzante quasi per necessità, gratifica gli eventuali estimatori della band nella sua incarnazione più azzimata mentre l’altra rivisitazione, da “Tarpit” dei Dinosaur Jr, è Kraig Johnson che vampirizza l’indie-rock con la propria peculiare intonazione alt-country. Nulla di eclatante, insomma. Devono essersene persuasi anche i Golden Smog, in silenzio discografico da allora.
Sorrisi e bugie
Alla fine del 1995 I Jayhawks sembrano avere davvero il vento in poppa. Buone recensioni in patria come in Europa, un nuovo batterista che promette di conservare a lungo il posto, il sostegno incondizionato della propria casa discografica. E’ allora un vero fulmine a ciel sereno il comunicato con cui Mark Olson annuncia l’intenzione di lasciare i compagni per potersi dedicare fino in fondo a Victoria Williams, la cantautrice malata di sclerosi multipla che ha appena portato all’altare. Il suo trasferimento a Joshua Tree, in California, pone di fatto fine a un dualismo con Gary Louris tanto sotterraneo quanto logorante. Troppe le canzoni scritte dall’uno e dall’altro a fronte dei limitati spazi concessi da ogni singolo disco, e troppo vincolante la scelta di non inflazionare le uscite della band.
Per chi resta il colpo è duro da assorbire, e la stampa già suona per il gruppo le campane a morto. Con il leader indiscusso fuori dai giochi, lo scioglimento appare davvero a un passo. Gary, ad ogni buon conto, non si scoraggia e organizza in sordina il riassestamento. Imbarca per primo l’amico Kraig Johnson, chitarrista e cantante dei Run Westy Run (scuderia Sst) che con lui condivide l’esperienza Golden Smog, quindi assolda anche la di lui compagna (anche nel progetto O’Jeez, con il prezzemolino Dave Pirner), Jessy Greene, violinista dei Geraldine Fibbers. Il sestetto così composto si chiude in studio con Brian Paulson, produttore di Uncle Tupelo, Wilco e Son Volt, e con il solito George Drakoulias. Il risultato è il quinto album della compagine di Minneapolis, Sound Of Lies, l’opera struggente di una band che ha (temporaneamente) concluso la sua ricerca nei territori della tradizione e si mostra finalmente libera da qualsivoglia pressione di natura espressiva.
Pronti via ed è subito classe, con una ballata dominata dal pianoforte e dall’uggia malinconica che resta una delle modulazioni tipiche di Louris. Non occorrono che pochi minuti per realizzare che l’alt-country è un ricordo, lontano per giunta, visto che i nuovi Jayhawks hanno puntato le proprie fiches su una regola cantautorale corazzata pop-rock, inesorabile per presa melodica e per gli ovvi debiti verso John Lennon. E’ una canzone solida e priva di pecche “The Man Who Loved Life”, sentimentale senza essere lacrimosa, un carro armato cui la scorta corale della Grotberg ha messo le ali. La direzione rumorosa e aperta a un sottile revival psichedelico appare chiara, ma a fare la differenza sono il favoloso mix di aggressività e dolcezza, un Gary quantomai sicuro del fatto proprio e la sua chitarra animatissima, ora guizzante ed effettata, ora nervosa e puntuta, da vertigine quando affolla di cavalloni elettrici il finale di “Think About It” (qualcosa di impensabile con Olson in squadra). Un tradimento dell’estetica precedente, certo, ma anche una prova di coraggio per un gruppo che rifiuta di farsi etichettare una volta per tutte e sceglie di guardare avanti, impassibile. La delicatezza in fondo è da sempre nelle corde del cantante, che in “Trouble” si supera in fatto di contemplazione nostalgica e accarezza l’ascoltatore con quella sua voce così affabile. Non si avverte più il bisogno delle armonizzazioni a tutti i costi con l’ex-compagno perché il nuovo ruolo di uomo forte al comando gli ha conferito il giusto carattere. E poi per aggraziare il tutto sono sufficienti i leggiadri rinforzi corali di due spalle validissime come la tastierista e il nuovo batterista.
A referto non ci riesce di segnalare alcuna canzone men che bella, forse perché è la leggerezza a guidare come mai prima d’ora la penna dei musicisti. Un’intonazione d’irriducibile meraviglia, lo stupore fanciullesco e l’entusiasmo muovono i Jayhawks in questa occasione, e una volta di più il gruppo rifiuta di farsi portabandiera di questo o quel movimento per cantare solo se stesso, con cuore, lasciando da parte i massimi sistemi e correndo fluido come i tasti del piano. Ci sono gli archi, ma non hanno nulla di accademico o di forzato. Contrappuntano il dominio dei due strumenti principe donando ulteriore chiarore a un sound già orientato alla grazia e alla nitidezza. Così i passaggi di estrema bellezza si avvicendano senza soluzione di continuità, come i refrain killer che di Louris sono un po’ il marchio di fabbrica, singalong regolarmente micidiali. Il singolone che omaggia Alex Chilton alza gli indici di spensieratezza e la mole di increspature, accomodando la compagine del Minnesota tra quelle più festosamente power-pop in un decennio in cui il genere gode di una seconda insperata giovinezza. Il tono confidenziale del frontman rende tutto più credibile, specie nel nuovo arrembante guazzabuglio elettrico che chiude proprio “Big Star” come nella perla “Haywire”, che ha la stessa seducente malia di altri devoti del verbo chiltoniano degli stessi anni, cui i Jayhawks hanno preso a somigliare (ben più che ai vecchi sodali Wilco): i Teenage Fanclub.
Con “Poor Little Fish” i Nostri guardano anche a un dark-pop con modeste inflessioni lisergiche, mutuando formule decotte dei tardi Sixties ma adeguandole alla propria smaliziata (e irriducibilmente ottimistica) sensibilità. E’ easy-listening plasmato a regola d’arte, scorrevole, intrigante e mai scontato, da resa senza condizioni (tranne che per certi soloni della carta stampata), pilotato da un Louris al meglio, languido seduttore e confidente impagabile. Nella seconda facciata fa capolino un fondo di inquietudine, una componente del tutto minoritaria che aiuta però a non congelare le canzoni della band in un’aura di vacuo ottimismo o di ridanciana euforia. Gary è un maestro con le sfumature e negli incroci pericolosi di acidulo e zuccherino, come quando riesce a non impastrocchiare (e a rendere comunque interessante) una “Sixteen Down” felicemente elusiva e cangiante, impreziosita da un ospite di lusso come Matthew Sweet. Irrequietezza e aggressività convivono in superbo equilibrio in un altro episodio a cinque stelle, "Dying On The Vine", ora malmostoso ora incantevole, la riprova di come il gruppo possa dire la propria a molteplici livelli quando non ha ganasce stilistiche a limitarne i movimenti. La catarsi conclusiva, di una bellezza cristallina, è il certificato della rinascita ormai incontestabile sotto nuove spoglie.
Il trittico conclusivo segna un rallentamento provvidenziale ma speso con innegabile maestria. Dapprima con una notevole ballad amarognola appaltata a O’Reagan (che dimostra buonissime doti di songwriter e arrangiatore), “Bottomless Cup”; quindi con una title track dimessa in acustico che ingentilisce e culla l’ascoltatore con il velluto vocale di Gary (come una melodiosa ninnananna) e una chiusa camerista sensazionale; infine con un nuovo volo liberatorio, degno di quello assicurato da “My Little Corner Of The World” al capolavoro firmato Yo La Tengo dello stesso anno. L’emancipazione dai vecchi registri è compiuta, la riscrittura della tradizione country rappresenta (per ora) un capitolo chiuso. Resta giusto il suffisso alt-, che riporta il gruppo in seno a un più generico clan alternative, tra gli interpreti meno audaci, forse, ma anche tra i più autorevoli e consapevoli.
Come (in parte) prevedibile, Sound Of Lies fa storcere il naso ai fan della prima ora. Ottiene una reazione analoga buona parte della critica, incapace di svincolarsi dal comodo stereotipo appioppato alla compagine del Minnesota per poterne valutare il lavoro con la giusta obiettività. E’ un vero peccato. Grazie al cielo, però, non basta a spegnere l’appetito del nuovo frontman, felicemente intollerante a schematismi di comodo e steccati di genere, che ha in serbo un’ulteriore sorpresa.
Il sesto album dei Jayhawks, Smile, esce nel maggio del 2000. Dopo una lunga e proficua collaborazione, a George Drakoulias vengono preferiti per la produzione due volponi dalla pluriennale esperienza in ambito mainstream, Bob Ezrin e Jay Healy. La American viene ora distribuita dalla Sony col marchio Columbia e Karen Grotberg ha lasciato per dedicarsi alla figlia neonata, pur avendo contribuito a scrivere e registrare diverse delle nuove canzoni (dal vivo la rimpiazzerà per un paio di anni Jen Gunderman dei Dag). Il ritorno in pista, affidato alla carezzevole title track, mostra un Louris subito particolarmente ispirato. Il sound si è aperto in maniera ancor più smaccata al pop-rock, ma la cura ipercalorica di Ezrin non inzavorra comunque i brani, bestie mutanti in chiave easy-listening la cui naturale propensione al singalong si è fatta sfrenata. Gary gioca con le ballatone un po’ artefatte, ma la sua maestria nei ritornelli è ormai incontenibile. I seguaci della scena alternative si diradano ma tra i pochi nuovi estimatori ci sono i cosiddetti creativi delle agenzie pubblicitarie, che scoprono i Jayhawks con qualche anno di ritardo e aprono scenari imprevisti in termini di ricadute commerciali. La “I’m Gonna Make You Love Me” prestata a Ralph Lauren vale come coronamento di questa deriva ma il profilo, al netto degli eventuali pregiudizi, si conferma comunque piuttosto elevato.
Non mancano le prove di cantautorato deviante e in curva glicemica, come “What Led Me To This Town”. La sfumature zuccherine, le evidenziature cromate apportate dal produttore non snaturano un brano delizioso e dall’(ormai sepolta) anima folk. Un’impostazione autoriale anche più genuina riaffiora a tratti, tra fragranze acustiche e qualche trasparente orlatura corale. Le suggestioni che regalano “Broken Harpoon” o la populista “Mr. Wilson”, sorta di instant classic e insieme di orecchiabile (e ruffiano) divertissement, sono una più che valida gratifica per gli affezionati della prima ora, quei pochi che sono rimasti. Così questo (bistrattatissimo) disco mette subito in fila almeno un quartetto di perle, da cantare a squarciagola assieme a Gary e alla sua nuova spalla femminile. “Somewhere In Ohio” e la gagliarda “Queen Of The World” aprono ai synth, a un’impiastratura elettronica mai invasiva, ma il risultato è sorprendentemente fresco e spensierato, merito di un songwriting al solito molto solido e dell’intuito degli arrangiatori, leggeri nella loro mezza rivoluzione. La chitarra di Gary, per non smentirsi, si prodiga comunque nello sgasare e aggredire la strada, assicurando un contrasto stimolante con certe svenevolezze decorative. Le sonorità bombate e anabolizzate non scadono nella mera falsificazione, perché i Jayhawks riescono ad adattarsi con profitto al nuovo audace abito musicale, e cavalcano con perizia i suoi toni più chiassosi.
Qualche episodio decisamente inferiore non inficia una prova certo non epocale ma comunque convincente: la leziosa e un tantino stucchevole “A Break In The Clouds”, più fumoso mestiere che arrosto, e soprattutto l’indecoroso pastrocchio di “(In My) Wildest Dreams”, davvero troppo brutta per essere vera. A compensarne la cattiva impressione pensano un paio di gemme più propriamente rock e rumorose, una licenza concessa alla felice esuberanza elettrica del capobanda. I sempre più affidabili Perlman e O’Reagan fanno il resto, erigendo quando occorra una muraglia ritmica all’altezza della situazione. Suona quasi come una risposta al nuovo corso degli amici Wilco, uno sfacciato superamento dello schematismo alt-country ormai logoro del decennio appena mandato in archivio, che di tanto in tanto la loro scaltrezza di veterani degrada a un anthemico classic-rock (il filler diligente “Pretty Things”). La battute conclusive hanno in serbo per l’ascoltatore ancora due ottimi brani. Se “Better Days” replica la magia dell’opener, con un refrain incantevole e la consueta poetica del marginale rispolverata con tempismo assai provvido, la schiumante “Baby Baby Baby” è un congedo grandioso e tutt’altro che risaputo, cartina al tornasole di un gruppo ancora affamato e in eccellente condizione, fisica e mentale.
Secondo intermezzo: Mark, con e senza i Creekdippers
Mentre i Jayhawks si imbarcano nella coraggiosa svolta pop-rock del dopo Mark Olson, a Joshua Tree la vita coniugale del songwriter procede tranquilla ma non priva di slanci creativi. Mark e Victoria danno vita a una band condivisa assieme al polistrumentista Mike “Razz” Russell, gli Original Harmony Ridge Creekdippers (più avanti, semplicemente, Creekdippers), negli anni impreziosita da ospiti di lusso come l’ex-Black Crowes Marc Ford, l’ex-Screaming Trees Barrett Martin, John Convertino dei Calexico e Don Heffington.
La nuova avventura parte nel 1997 con l’apprezzato The Original Harmony Ridge Creek Dippers e i toni dimessi di una ricerca mai esasperata delle radici americane. Passo lento, respiro mediamente lungo, country-folk pauperista dal retrogusto asprigno e dalle tinte terrose. A ben sentire, non è che occorra molto per fare centro: luci soffuse, un paio di chitarre acustiche a velocità più che moderata, comparsate dell’armonica, del banjo o del violino di tanto in tanto e appena qualche rinforzo corale, fragile quanto aulico. Olson è protagonista assoluto in scena – indelebile piglio classicista, sguardo terso (“Be On My Way”, deliziosa) e garbo d’altri tempi – mentre Victoria si limita a elargire parsimoniose infiorettature vocali a contorno. La grazia del loro tandem, candido ed essenziale, raggiunge in qualche caso (“Valentine King”, “Run With The Ponies”, “When School Begins”) livelli prossimi al clamoroso, ma per il resto non si discosta dal canone di una piccola raccolta di cantate intimiste dal sapore domestico, illuminate dall’immediatezza e dalla sincerità di un lo-fi sempre dignitoso (emblematici i fiori nel deserto della ballad “Jericho”).
Il terzetto non perde tempo e l’anno seguente licenzia Pacific Coast Rambler, sophomore che prosegue sulla falsariga del precessore, con un country-folk bonario e accorato, infarcito di duetti coniugali (e violini), aprendo discreti scorci estatici (“Give My Heart To You”, la title track) senza offrire tuttavia particolari lampi di classe all’ascoltatore. Casalinga la produzione, dimessa l’intonazione, ancora esclusivamente acustica la veste: dopo il buon esordio, questa compagine mostra sempre più di voler essere non soltanto un affare di cuore ma anche una proposta per pochi, pochissimi intimi, cui regalare un’altra collezione di ballate fragili, disadorne, per quanto non prive di un risoluto fervore sentimentale (“Prayer Of The Changing Leaf”). Il brio, ad ogni buon conto, alla piccola band di stanza in California fa decisamente difetto.
Nel 1999 è quindi la volta di Zola And The Tulip Tree. Mark torna a incantare con la sua voce inconfondibile, ma lo fa in un quadro nuovamente troppo frugale e riservato per lasciare un segno memorabile. Preferisce giocarsi piuttosto la carta di un cantautorato al cloroformio, da navigato storyteller senza troppo nerbo (“Cedric Harper”), o rifugiarsi in un verboso bozzettismo privo di ambizioni, un po’ come il Vic Chesnutt miserabile e triste delle prove autoprodotte. A prevalere questa volta sono le stranianti e selvatiche affabulazioni della consorte, quella di “Lorna Doones Garden” per tutte. Così i parallelismi con i Jayhawks si giocano sempre in sedicesimo, con pallide ricopiature di suggestioni fugaci e in ordine sparso (“Into The Yard”, la graziosa “Custom Detroit Railroad”) che non possono entusiasmare più di tanto.
Non trascorrono che pochi mesi e My Own Jo Ellen cambia in parte la prospettiva. Finalmente si riaffacciano una chitarra elettrica, una batteria, e la voce che torna squillante nella sua favolosa modulazione acidula. Nulla di veramente eclatante, intendiamoci, ma è tutta un’altra marcia e sul filo dei ricordi l’ascolto torna a farsi piacevolissimo. “Someone To Talk With” è già una bella scossa e “Linda Lee” riporta subito inequivocabilmente ai Jayhawks (ritorno anche geografico – “Walking Through Nevada” – e espressivo, con quella “Rainbow Of My Heart” che suona come un’outtake al rallentatore di Hollywood Town Hall).
Le canzoni di Mark riprendono allora ad avere polpa, costrutto e un pathos troppo a lungo silenziato. Al minimalismo della Williams restano le briciole, e si tratta non a caso degli episodi più macchiettistici, tipo “Ben Johnson’s Creek”.
L’instancabile combriccola lascia passare un altro paio di anni, quindi torna a farsi viva con December’s Child, quinta uscita del suo catalogo. La proposta si fa, se possibile, anche più raffinata in questo nuovo album, per quanto l’impronta riprenda a essere prettamente intimista, luminosa ma appartata (“Climb These Steps”, “Still We Have A Friend”). Qualche bizzarria vocale o a livello di arrangiamenti prova a movimentare canzoni pure carine, ma tornate un po’ troppo rinunciatarie, flemmatiche ed esangui (“Alta’s Song”), con la sorprendente eccezione del finale etilico di “One Eyed Black Moses”.
Se la title track gioca con vetusti stilemi delta blues, contaminandoli con la propria vivace sensibilità country-folk per un risultato cangiante (e interessante), le ballad veraci e tradizionaliste ancora una volta non mancano all’appello (si prenda “How Can This Be”). “Back To The Old Homeplace” sembrerebbe dover restare insomma un buon proposito solo sulla carta, per quanto la sua anomala indole scherzosa non manchi di farsi apprezzare, quand’ecco “Say You’ll Be Mine” che – ospite Gary Louris – risulta a tutti gli effetti un nuovo pezzo dei Jayhawks circa 1995.
I Creekdippers continuano a scrivere e proporre la loro musica fuori moda da una nicchia tranquilla e appartata, dove il tempo sembra essersi fermato. Nell’arco di un paio di mesi, primavera 2004, pubblicano un paio nuovi lavori il primo dei quali, Mystic Theatre, rappresenta un interessante sussulto espressivo. Dall’incipit parrebbe di tornare a una forma di cantautorato insieme più lineare e convenzionale, con buone fragranze di Americana ovunque (da “No Water No Wood” all’eleganza di “Wood In Broken Hills”) con giusto qualche eccezione enfatica che incuriosisce (l’ottima “Salome”). In realtà, si tratta forse dell’opera più irregolare, originale e meglio prodotta nel catalogo dei Creekdippers. Il disco è esattamente quel che promette l’intestazione, un’operina che teatralizza certi cliché della canzone d’autore e nel contempo li impreziosisce con l’aura mistica della provincia più remota. Sugli scudi salgono quindi “Grand Army Of The Republic”, con le sue aspre soluzioni folkloriche à-la David Eugene Edwards, il gospel di “Bells Of St. Mary” e la meticcia “Rock Slide”, bellissima. Inevitabile poi che Victoria torni a pieno titolo coprotagonista con il suo timbro inconfondibile, in “Betsy Dupree” e nell’incespicante delta blues di “It Don’t Bother Me” e “Bath Song”, con discreto profitto. La seconda fatica della stagione si intitola Political Manifest. Gli alberi da frutto in copertina sono gli stessi dei braccianti raccontati da Woody Guthrie tra le pagine di “Bound For Glory”, ed è inevitabile che un disco con una simile intestazione non possa esimersi dal guardare a cotanto maestro, evocato anche in maniera esplicita nella svagata introduzione di “Poor GW”. Il lodevole messaggio è naturalmente riportato all’attualità degli States negli anni dell’amministrazione Bush – presidente attaccato frontalmente in “George Bush Industriale” – tra nuova miseria e un clima di generalizzata sfiducia che trova il suo emblema nell’accorata “Portrait Of A Sick America”. Tra qualche dylanismo di troppo (“Duck Hunting”) e una Williams tornata troppo presto flemmatica e didascalica (“Senator Byrd Speech”) il risultato delude un po’ le aspettative e non riesce evocativo come avrebbe voluto.
Dopo sette dischi insieme, il sodalizio tra Olson e la Williams è tuttavia giunto al capolinea. Alla fine della collaborazione nei Creekdippers segue presto, nel 2006, il divorzio. Rimasto solo a Joshua Tree con le sue delusioni, Mark trova tuttavia lo slancio necessario a guardarsi dentro ancora una volta e far fruttare i tanti spunti abbozzati sul suo taccuino esistenziale. Il risultato è The Salvation Blues, prima opera intestata unicamente a lui in oltre vent’anni di carriera. E’ un disco sofferto e molto intimo questo, un percorso di redenzione privata che non nasconde ferite più o meno recenti (il suicidio del padre in “National Express”, la fine della relazione con Victoria) ma sa guardare con fiducia al di là del baratro (“Look Into The Night”) e mescola con superba ponderazione schematismi cantautorali, aromi alt-country e sottili effrazioni blues (“Winter Song”). Questo primo passo a proprio nome si configura quindi come un album da meditazione che torna a pungere nel vivo per la sincerità (“Tears From Above”), pur senza rinunciare a un sobrio decorativismo, e offre canzoni lente ma vive, ispirate, che raccontano la ricerca di riscatto nella semplicità e nell’armonia (“Clifton Bridge”, la title track).
Tre anni più tardi Olson torna nei negozi con un’opera di tutt’altro tenore. Many Colored Kite è un disco più orientato all’ottimismo e riapre le porte ora a un arioso jangle-pop (“Little Bird Of Freedom”), ora a un disciplinato camerismo (“Beehive”), ora persino a un folk sghembo à-la Nick Drake, anche grazie a una terna di ospiti lussuosi (Vashti Bunyan, Julie Doiron e il tuttofare Neal Casal) e al leggiadro accompagnamento della nuova compagna norvegese, Ingunn Ringvold, in arte Sailorine. Ne viene fuori un album di quiete teporosa e rilassata contemplazione, una raccolta colma di gratitudine, dove Mark trova anche il modo di sbarazzarsi una volta per tutte del fantasma della Williams (“No Time To Live Without Her”). Nulla di eclatante al di là di un pregevole lavoro di artigianato, con opportune puntellature di solido mestiere nei momenti di stanca, sempre rimanendo a debita distanza dal cifrario dell’ormai scomoda band pilotata un tempo.
L’ultimo capitolo dell’avventura solista del Nostro è, ad oggi, Good-bye Lizelle, un album nato tra mille traversie addirittura in Repubblica Ceca. Il primo impatto è alquanto sorprendente. Accompagnato dall’harmonium della consorte scandinava, Mark si affida infatti a inedite soluzioni barocche e sembra guardare più alla scena inglese dei tardi sixties che non al proprio consueto retroterra. Coordinate e sonorità restano decisamente anomale anche nella susseguente “Running Circles”, sorta di madrigale folk dalle arcane suggestioni che parrebbe piuttosto pane espressivo per i reduci della New Weird America, da Greg Weeks a Meg Baird. Può spiazzare ritrovare Olson alle prese con influenze aliene al suo repertorio yankee, ma l’artista mostra di sapersi calare nella parte con felice aderenza ai cliché di genere e affabula con la necessaria disinvoltura, senza riuscire tuttavia a riscattare del tutto un certo tono didascalico. Poi eccolo rientrare nei ranghi della tradizione, riprendere a giocare con la propria classicità senza stravolgersi, giostrando a piacimento con gli automatismi di un alt-country frizzante, piacevolmente virato al rock, o prediligendo riadattamenti pauperisti. A farla da padrone è però sempre il mestiere e, che le cose girino più o meno bene, non si va mai molto al di là dei candidi e tiepidi bozzetti. Tra le eccezioni l’originale “Jesse In An Old World”, apertura a un esotismo mediorientale non teatralizzato come ce lo si potrebbe aspettare in un album di Piers Faccini: non memorabile ma sincero nel proprio sinuoso andare alla deriva.
Un’inattesa convergenza
Il 2001 segna per i Jayhawks l’abbandono di Kraig Johnson (che sceglie di dedicarsi al nuovo progetto Iffy) e Jen Gunderman. La formazione è ridotta ai minimi termini ma Gary non si scompone. Per l’anno nuovo pianifica un tour interamente acustico assieme a Tim, Marc e l’ex Long Ryders Stephen McCarthy, vero maestro della chitarra slide, quindi il gruppo si chiude in studio con Ethan Johns, già produttore di fiducia per Ryan Adams e Brendan Benson. Il settimo album del gruppo, Rainy Day Music, arriva nei negozi nell’aprile del 2003 e il suo biglietto da visita si intitola “Stumbling Through The Dark”. Sorpresa: il tono è più raccolto, dimesso, frugale. E’ tornato il jangle-pop trasognato dei tempi di Blue Earth, quel pauperismo luminoso e oligominerale che fa fuoco con la poca legna che serve. Elettrico ed acustico riprendono a dividersi la scena da bravi fratelli, in un quadro di mirabile equilibrio, e le nuove ballate guardano nuovamente alla tradizione Americana, a un robusto country-folk (“Tailspin”, con il suo banjo), tagliando in particolare le adulterazioni delle ultime uscite. I Jayhawks ritrattano la personalissima deriva pop del dopo-Olson e sembrano gettare un amo proprio al vecchio compagno, una bozza d’intesa che non può non trovare l’ovvio plauso di tutti i detrattori della precedente svolta.
Le canzoni ispirate non mancano, anche se non si segnala l’episodio davvero eclatante. Louris si conferma una volpe: abbassa tutti i coefficienti di difficoltà per andare sul velluto con l’usato garantito, un songwriting dal formulario tutto sommato risaputo e che per lui non ha più segreti da tempo. Se ne serve con disinvoltura imbarazzante e culla l’ascoltatore con soluzioni immancabilmente gradevoli, pur incantando solo di rado. E’ il caso del gioiellino “Save It For A Rainy Day”, di “You Look So Young” e della più sincera “Angelyne” (canzone d’amore vecchio stampo), unici passaggi a regalare qualche brivido autentico, memore di quelli degli anni d’oro. Sugli scudi in particolare la seconda, che non nasconde l’irriducibile propensione del frontman per il pop, quello capace di farsi ricordare e scaldare il cuore quanto basta.
Per il resto il Nostro non si discosta dagli standard di un bonario e innocuo power-pop in chiave intimista, aggraziato ma mai pungente, compensandone i limiti grazie al solito mestiere. Di tanto in tanto movimenta le acque con discreto profitto (“The Eyes Of Sarahjane”, merito di un hammond guizzante) ma, al di là del vestito vagamente estetizzante, la sua profferta stilistica ed emotiva resta limitata all’epidermide.
Anche la meraviglia di una piacevole “One Man’s Problem” non ha modo di elevarsi all’eccellenza nonostante un refrain particolarmente indovinato, mentre la polverosa bozza desert-folk di “Madman” langue nella sua stessa indolenza, priva della benché minima suggestione drammatica. Così il disco scorre, suona amabile ma privo di grande sostanza, un accompagnamento sonoro accurato e leggerino che difetta di nerbo, sangue e nervi. L’O’Reagan autore e primo interprete si fa largo con “Don’t Let The World Get In Your Way” e guarda ai Wilco rivoluzionari di “Yankee Hotel Foxtrot” (The Ashes Of American Flags” in particolare) cui rubacchia ombre e inquietudini sparse, ma appare privo del necessario spessore romantico e a dirla tutta non entusiasma. Non gli riesce granché meglio “Tampa To Tulsa”, un aggiornamento dei diari di viaggio di “Nevada, California” che tende al soporifero. L’inseguimento alla creatura di Jeff Tweedy fallisce peraltro anche a Gary e alla sua “Come To The River” (ospite Jakob Dylan ai cori), impantanata con il suo ritornello stucchevole e una cattiveria tutta simulata. Il finale a due voci di “Will I See You in Heaven”, firmato dal solo Marc Perlman e tutto all’insegna del garbo (e del politicamente corretto) è un contentino pregevole concesso ai nostalgici inguaribili, prima di una reprise che non aggiunge nulla.
Riuscito nell’intento, una mossa strategica anche apprezzabile come via di uscita da un vicolo cieco, Rainy Day Music resta tuttavia un’opera interlocutoria e sopravvalutata che ha nella copertina minimalista, lei sì bella davvero, la sua vera perla. Quel che conta, ad ogni modo, è che la cartolina raggiunga Olson a Joshua Tree proprio mentre l’amore di Victoria per lui comincia a sfiorire. In poco più di due anni Mark perde tutto un’altra volta, compreso l’emerito progetto coniugale dei Creekdippers. Non abbandona il deserto, ma le puntate in Minnesota si fanno via via meno sporadiche. Nonostante il ritiro ventilato in più occasioni da Gary, nel futuro del gruppo deve per forza esserci altro. Il cambio di vento darà ragione al fan che da sempre non disdegnava il dileggio dell’incurabile visionario. Vale la pena di aspettare, evidentemente. Prima tappa del ricongiungimento è il tour acustico che Gary e Mark imbastiscono nel biennio 2005-06, all’indomani di uno hiatus stabilito in via consensuale con Perlman, McCarthy e O’Reagan, per dedicarsi ciascuno a altri progetti musicali.
A proposito di Tim, è proprio lui a sorpresa il primo membro dei Jayhawks a pubblicare un disco solista, intitolato senza troppa fantasia Tim O’Reagan: un lavoro forse eccessivamente dimesso, garbato e frammentario, ma con qualche intuizione melodica non disprezzabile. L’indole è rinunciataria, sorniona, per quanto a tratti si faccia risentire l’autore folgorante di “Bottomless Cup” (la beatlesiana “River Bends”, una seducente “Girl/World”) o emerga una vena decisamente più sanguigna e verace (“That’s The Game”). Qualche buona suggestione fa insomma capolino in un album che replica senza particolari lampi lo stile della band, chiudendosi in una celebrazione della gentilezza che a lungo andare tedia un po’.
Nel 2007 è la volta di Mark e del già menzionato The Salvation Blues, mentre il debutto di Gary arriva un anno più tardi. Prodotto a sorpresa da Chris Robinson, Vagabonds rappresenta il Louris in assoluto più controllato: taglio elettroacustico, pianoforte in rilievo, tenui coloriture tra gospel e soul e marcate reminescenze seventies. Se il risultato suona intrigante nell’ottima apertura di “True Blue”, con la sua inebriante malinconia, e se “Omaha Nights” movimenta ulteriormente per via di quelle accattivanti innervature bluegrass e di una disinvoltura formidabile, altrove (l’accurata “She Only Calls Me On Sunday”, “To Die A Happy Man”) il tono si fa eccessivamente compassato – ma ancora non malvagio – o incline a un entusiasmo zuccheroso che ricorda da vicino le canzoni più smielate del cantante dei Crowes (“We’ll Get By”). Bella la grazia domestica della lennoniana “Black Grass”, belli i chiaroscuri di “D.C. Blues” (à-la “Summertime”), per non parlare dell’irrequietezza di “I Wanna Get High”.
A indebolire un album che regala per ampi tratti una vivida impressione di pacificazione è tuttavia quella sua finezza estetizzante, che rilascia su molti dei brani una sottile ombra di maniera, di leziosismo in fondo controproducente (nell’episodio che presta il titolo alla raccolta, ad esempio).
I contatti tra i due leader di un tempo, frattanto, si moltiplicano. Alla fine del 2008 arriva nei negozi il frutto della nuova collaborazione, Ready For The Flood, cointestato e prodotto anch’esso da Chris Robinson. Il ritorno dei due songwriter gioca con il classicismo dei trascorsi condivisi, per cui è inevitabile che a prevalere sia la linea espressiva di Olson, tra reminescenze degli episodi più sobri e prettamente acustici dei primi Jayhawks e, in primissimo piano, le inappuntabili armonizzazioni che hanno fatto la fortuna di questi interpreti (“The Trap’s Been Set”). Il tono dimesso ma orgoglioso giova evidentemente a Mark, mentre Gary mostra di soffrire un po’ il nascondino e i ritmi blandi, troppo compassato nella sua posa dylaniana in “Bicycle” o nella pur suggestiva “Black Eyes”. Ciononostante la fragranza genuina delle nuove canzoni conserva intatto il fascino di un sodalizio davvero senza tempo. Certo alcuni passaggi, disciplinati ma un po’ tiepidi sanno di ordinaria amministrazione e non offrono alcun azzardo che esuli dal consueto mestiere (“Turn Your Pretty Name Around”, l’esangue ma toccante “My Gospel Song For You”). La coppia accarezza ma non sa (forse nemmeno vuole) pungere, così ci si deve accontentare di questi garbati fraseggi a base di sussurri e delicatezze per chitarra un tantino monocolori (“Saturday Morning On Sunday Street”, in cromia seppia).
Il taglio confidenziale è senz’altro pregevole, ma il disco non scalda come forse era lecito sperare perché a mancare è il sangue, soprattutto, e poco possono fare la moderata esuberanza country-blues di “Chamberlain, SD”, la vena più ruspante di “Doves And Stones”, lo scarno desert-folk di una pur ispirata “When The Wind Comes Up” o la smaliziata chiusa di “Cotton Dress”. Il ritratto che affiora, ancorché prolisso oltre necessità, è quello di due attempati cantastorie, ancora convinti nella propria vocazione ma un po’ a corto di mordente.
La strada tortuosa di questo riavvicinamento in sordina trova il suo compimento quando, dopo la pubblicazione della doppia antologia Music From The North Country (per metà best of, per metà miscellanea di rarità), nel settembre del 2011 i redivivi Jayhawks licenziano Mockingbird Time, molto più di un disco da reunion considerati gli antefatti. La squadra è la stessa del 1995, avendo risposto alla chiamata persino Karen Grotberg, e questo aspetto spingerà il disco fino al trentottesimo posto nella chart di Billboard, paradossalmente il loro miglior piazzamento di sempre. C’è un momento, verso il finale di “Tiny Arrows”, in cui il pianoforte di Karen sembra invitare alla danza il fraseggio acustico accennato da Olson. Subito risponde l’elettrica di Louris, accendendo un breve dialogo di assoli che è quanto di meno professorale o lezioso si possa immaginare. Nella confortevole frugalità di questo incontro quasi appartato risiede lo spirito autentico, amichevolmente intimo, della band fenice riemersa dalle fiamme, mentre l’incessante riabbracciarsi delle voci, il ricomporsi di armonie corali semplicemente magiche, porta con sé la verità più compiuta e toccante di un’intesa mai sbiadita. Occorre una prova di superbo artigianato musicale perché il legame si riannodi e le ellissi diventino pallide cicatrici, riassorbite fino a negarsi alla vista. E Silence è la parola che più spesso fa capolino, non per caso. Come un monito o uno spazio vuoto, come a tradire l’ansia di aggredirlo davvero il silenzio degli ultimi sedici anni.
Pigiare il triangolo per “Hide Your Colors” è come far ripartire un vecchio orologio, o riaprire un volume all’esatto capoverso in cui la lettura era stata interrotta. La classicità di Tomorrow The Green Grass ha lasciato un’orecchia sulla pagina, una piega che non si cancella. Lo stesso capita con gli automatismi della squadra. Intatti. Funzionali quasi li avessero oliati in vista della riapertura. Mark si arrangia al proprio posto con la destrezza del veterano, gran classe secca e colorata, lunghi intermezzi strumentali e la stessa voce asprigna delle ultime fatiche in solitaria. La vena introspettiva del “blues della salvezza” sveste però il manto spietato dell’amarezza per pavesarsi di germogli e serena nostalgia. L’afflato malinconico è tiepido al punto giusto, il polso fermo, abbastanza per impedire alle melodie uno smottamento di registro verso il languido o lo svenevole. Non si adagiano comunque i sodali ritrovati, andando a chiudere entrambe le facciate con le ottime vibrazioni di quel paio di episodi appena più movimentati, senza sconfessare mai l’insopprimibile inclinazione al folk impuro che da sempre rappresenta il marchio di fabbrica del loro sound.
Tra l’ampio diversivo country di “Guilder Annie” e la sontuosa enfasi roots di “Black-eyed Susan”, la più marcata vena traditional della seconda parte riporta direttamente alle foto di gioventù della band – la gradevole marginalità del Bunkhouse Lp – ma non inficia la sostanziale riuscita di un album ad altissimo coefficiente di tipicità. Nessun instant classic a questo giro, ma canzoni corpose che lievitano ascolto dopo ascolto come il dolce della nonna. Canzoni cui sarebbe irragionevole imputare addebiti che vadano al di là dell’eccessiva indulgenza nello scoprire le proprie carte, o di uno sguardo forse troppo caparbiamente rivolto al passato. Alquanto veniali come recriminazioni. Trascurabili, se sull’altro piatto della bilancia infiliamo anche solo il crescendo prodigio di “She Walks in So Many Ways” o l’intarsio vocale sfalsato di “Cinnamon Love”, rincorsa a perdifiato nella sterminata prateria attorno alla chiesa di Hollywood Town Hall. Ecco, questo sì potrebbe essere un bell’incipit per chi volesse scrivere quel benedetto libro su di loro. O ancora meglio per un romanzo autobiografico del solo Mark Olson, chiamato a servire le proprie petite madeleines a ricerca ormai ultimata: “Riapro gli occhi, la neve si è sciolta ovunque il mio sguardo arrivi. Quel che resta siamo noi, invecchiati, nascosti dentro una pozzanghera”.
La quarta stagione
Un vero idillio quello di Mockingbird Time, a guardarlo da fuori. Miracolosa intesa in studio, poi replicata per oltre un anno in un lunghissimo nuovo tour mondiale. Facile pronosticare per i Jayhawks una proficuo e tranquillo avvenire creativo, senza più turbolenze di sorta, insospettate lotte intestine o rancori striscianti. La verità, tuttavia, è un’altra e la si comincia a intravvedere quando nel 2012 la band si rifugia in una nuova pausa a tempo indeterminato di ogni attività condivisa, eccezion fatta per le immancabili ristampe con inediti dell’intero catalogo. L’intervallo non è poi così lungo e il silenzio viene rotto da una serie di nuovi concerti nel 2014. Allarme rientrato, insomma, non fosse che Mark Olson non vi prende parte, rimpiazzato dal redivivo Kraig Johnson. La sua assenza può essere imputata ai nuovi impegni dell’ex-Creekdippers, che a settembre pubblica Good-bye Lizelle, ma non deve trascorre un altro anno perché gli altarini vengano finalmente scoperti. Il retroscena è svelato direttamente da Mark che in un’intervista si toglie più di un sassolino dalla scarpa e spara a zero sugli ormai ex-compagni, in particolare su Gary, parlando di una difficile convivenza forzata nata dall’urgente bisogno di denaro per far fronte a spese legali impreviste (dopo che la moglie Ingunn era stata accusata di immigrazione clandestina e rispedita in Norvegia senza possibilità di rientrare negli Stati Uniti nei due anni successivi). Nel rivivere quel tormentato ultimo biennio assieme, il resoconto di Olson è impietoso: fa riferimento alla dipendenza da stupefacenti di Louris e a un tour “vissuto da rockstar”, ben al di sopra delle proprie effettive possibilità, il che spiega anche il suo rifiuto di viaggiare con gli altri sul bus del gruppo e la scelta di spostarsi di tappa in tappa guidando un'automobile a noleggio.
Con questa seconda conclusione al veleno del rapporto tra i due cantanti, e con le pessime storiacce di droga legate per la prima volta al nome di Gary, quasi si perde ogni residua speranza sul conto dei Jayhawks. Poi ecco, all’improvviso, un paio di nuovi dispacci. Due notizie, e la prima ha un sapore decisamente buono: un nuovo album annunciato per la primavera del 2016, non con la formazione che regalò i capolavori dei primi anni Novanta, ma con quella miserabile e bellissima che con Sound Of Lies e Smile, alla fine di quello stesso decennio, mostrò di avere ancora canzoni superbe da offrire. La seconda novità è ancor più inattesa ma non meno preziosa: il ritorno in pista proprio di Gary Louris, con un progetto inedito in combutta con Django Haskins degli Old Ceremony. Gli Au Pair, questa l’intestazione, nascono quasi per caso alla fine del 2014. Il primo incontro in occasione di un concerto tributo ai Big Star, di cui entrambi i musicisti non hanno mai fatto mistero di essere fan devoti (da non dimenticare il pluriennale sodalizio con lo storico batterista Jody Stephens nei Golden Smog), l’idea di una collaborazione del tutto informale, quindi lo scoprirsi spiriti affini capaci di intonarsi alla perfezione.
Low budget stream of consciousness affair. Così i due hanno provato a raccontare il frutto della loro collaborazione, registrato assieme a Brian Haran (già al servizio di Hiss Golden Messenger e Vetiver) con Renée Mendoza Haran degli Ashrae Fax nei panni dell’unico ospite. La definizione, in effetti, pare calzante: è artigianato folk in confezione povera che intriga con quel suo vestitino alla buona e tutto impolverato, lo stesso sfoggiato occasionalmente dai Wilco delle produzioni minori (dalla trilogia guthrie-ana con Billy Bragg al recente “Star Wars”). Certo, al di là dei detriti, delle scaglie e del terriccio, il refrain di “In Every Window” suona come la classica perla di Louris, di quelle che non impiegano più di due ascolti per conficcarsi in mente. Le pretese sono quindi piuttosto basse, nessuna esasperazione, giusto qualche asperità disciplinata o qualche ombreggiatura minimalista nei fondali riarsi. Eppure l’incanto che questa coppia di artisti – maestri di economia e suggestioni autentiche, plasmati alla scuola del chiltonismo e del lennonismo migliori – riesce a infondere con pochissimo lascia ammirati.
Parrebbero brani zoppicanti, fragilissimi, destinati a sfarinarsi al primo ascolto, questi di One Armed Candy Bear, ma in realtà rivelano una consapevolezza che li rende assai solidi. Merito anche di un songwriting che non indugia in sterili artifici, sobrio, robusto nella fibra e luminoso per gradazione emozionale. Il folk sghembo e apparentemente claudicante degli Au Pair ha il respiro lungo e lo sguardo terso della miglior provincia nordamericana e dei suoi sterminati paesaggi, proprio come in Simon Joyner o negli Skygreen Leopards. La prospettiva è quella colma di meraviglia marginale, da contemplativi navigati. Le due voci bisticciano ma finiscono per armonizzarsi, sullo sfondo modeste vampe controllate o miraggi che amplificano a dismisura le seduzioni da cantastorie accattoni (i Vagabonds tanto cari a Gary). Ne esce una collezione di quadretti fugaci ed elusivi ma promettenti, una raccolta insieme intimista e di spazi aperti, un disco di atmosfere dal passo lento eppure privo delle anguste e dolenti lusinghe dello slowcore.
Meglio, molto meglio dell’analoga prova di Gary con Olson, Ready For The Flood. Questo disco riesce assai più vivo, vibrante, palpitante, e le canzoni hanno la consistenza francamente inattesa degli instant classic, una fragranza che proprio non ha nulla di adulterato o costruito a tavolino. “Middle Distance” offre echi di Roy Orbison e di altri fantasmi dell’inesauribile tradizione Americana (oltre a quello di Louis Sullivan, mito personale dell’architetto in licenza Louris), con l’entusiasmo curioso e la dignità del già evocato Woody Guthrie, una lezione che ogni bravo alfiere della scena alt-country pare aver metabolizzato con innegabile profitto (si pensi proprio a Mark Olson, con e senza la ghenga dei Creekdippers).
Dal canto suo, Haskins si prende la briga di alzare i coefficienti classicisti, ma ancora una volta questo avviene attraverso un’assoluta frugalità nel tocco (bellissimo il dialogo acustico di “Make An Entrance”), seguendo un’inclinazione che non scade mai in posa. La title track piega verso un blues domestico e nervoso, pelle e ossa ma con un’anima elettrica maligna che si esprime in sottili spirali di aria calda. Siamo dalle parti del movimentato deserto notturno dell’Howe Gelb solista (o di un Hugo Race, anche) con il relativo corredo di sporche fascinazioni. Riverberato e squillante, “Sullivan's Ghost” è un altro episodio che esalta la vena genuinamente yankee del duo, con una serie di intersezioni vocali ed elettriche che mimano quasi la sbuffante vitalità di una locomotiva in corsa (e la corrispondenza con l’autore di “Bound For Glory” può dirsi completa).
Le esplorazioni della coppia pungono e scaldano il cuore a un tempo, parlando un idioma musicale che per dabbenaggine si potrebbe credere morto e sepolto, ma merita fino in fondo di essere riscoperto. Certe storie, in effetti, non sarebbero le stesse se venissero raccontate attraverso codici viziati dalla modernità e dalle sue irrimediabili banalità, quelle che impoveriscono quasi sempre l’affresco. Non è il caso di One Armed Candy Bear, grazie al cielo.
E qualche mese dopo il debutto degli Au Pair, rieccoli i Jayhawks. Mark Olson è tornato a essere nulla più che un ricordo lontano mentre per Gary, ripulito e umile come non mai, si presenta con Paging Mr. Proust l’ennesima occasione per riscoprirsi giovane e dare carta bianca al proprio estro di musicista. Dell’esperienza di Mockingbird Time il Nostro conserva esclusivamente l’impronta dirigista sul piano tecnico, scegliendo peraltro di condividere l’onere produttivo con due autentici mostri sacri della console, il sempre entusiasta Peter Buck e il ben più certosino Tucker Martine. Non occorrono che pochi istanti dell’inaugurale “Quiet Corners & Empty Spaces” per realizzare che la nostalgia canaglia è quella di sempre proprio come il jangle delle chitarre, le scintillanti armonie vocali o quelle melodiose cantilene capaci di far sognare, da mandare a memoria dopo un solo giro sul lettore. Il riposizionamento stilistico nell’orbita di un garbato college-rock anni Ottanta è evidente, per quanto le sorprese cambino di continuo il quadro dei rimandi. “Lost The Summer”, per dire, irrompe sinistra sull’idillio quasi da cartolina sonora dell’opener come una finestra dark-pop spalancata sull’inquietudine. Ma non mancano certo le concessioni al classicismo della band, alle ballate gentili e compunte, a un intimismo povero ma bello in grado di aprire squarci radiosi all’improvviso. Quella che emerge da “Lovers Of The Sun” è una certezza per la penna del sessantunenne Louris, che torna a guardare a Gram Parsons o ai Byrds con gli occhi lucidi di commozione. A proposito, il contentino per gli irriducibili fan della prima ora si intitola “Isabel's Daughter”, perfetta intonazione alt-country e ritornello di fabbrica, una di quelle canzoni senza tempo che non avrebbero sfigurato nella seconda facciata di Tomorrow The Green Grass.
E poi c’è “The Devil Is In Her Eyes”, altro brano che si riallaccia senza timori al passato della band e entusiasma per via di quella sua epica spicciola ma umanissima, del suo orgoglio limpido e di una franchezza mirabile, lo stesso nitore che il gruppo aveva nelle sue corde quando registrò Hollywood Town Hall. Dal cilindro di Gary escono ancora canzoni formidabili come “Leaving The Monsters Behind”, vera gemma easy-listening con micidiale refrain a orologeria. Non ci si discosta dal felice schematismo della casa, quello che sposa dai tempi di Sound Of Lies la solidità di un songwriting campione di dolcezza e contemplazione a un decorativismo elettrico di pura sostanza, una licenza evidentemente irrinunciabile per il capobanda. A spezzare a metà un album che si concede il lusso di citare, oltre a Marcel Proust, anche John Keats, David Foster Wallace e John Updike, pensa “Ace”, quasi un mantra con la sua dondolante e ritornante follia o le sue oscure evocazioni, un anomalo soliloquio del frontman affollato di spettri e derive rumorose, a esorcizzare forse quella balorda dipendenza da stupefacenti finalmente archiviata.
L’influenza di Peter Buck si fa sentire forte e chiara nel trattamento delle chitarre, nella loro inedita inclinazione alle ombreggiature o ai mulinelli in chiaroscuro, in un'irrequietezza sofisticata, acquerellata su toni grigiastri, cui giova anche il drumming bombato e impassibile di O’Reagan. Il power-pop stile Rickenbacker di “Comeback Kids”, rinvigorito, tonificato e occasionalmente anabolizzato, può ricordare proprio una delle ultime opere della compagine di Athens, “Accelerate”, per l’analoga attualizzazione di vecchi schemi e sonorità da tempo accantonati.
Se Paging Mr. Proust si candida a essere il suo omologo nel catalogo della formazione di Minneapolis è anche perché il parallelismo si fa irrefutabile quando tocca a “The Dust Of Long-Dead Stars”, episodio guizzante ma revivalista fino al parossismo e discreta goduria, un inciso ludico alquanto opportuno nell’economia del disco. A completare la rassegna di incroci tra queste due grandi bestie totemiche dell’alternative anni Ottanta e Novanta, vanno segnalati i cammei proprio di Buck, del Mike Mills wilsoniano e della sei corde dell’immarcescibile Scott McCaughey.
Le sottili sporcature sintetiche riportano invece a un’opera controversa come Smile, il più palese riferimento di un lavoro che alle pasticciature kitsch di allora preferisce tuttavia i malinconici ed estetizzanti contrasti a marchio Rem, applicati sul consueto infallibile formulario twang-pop. Quelli di Paging Mr. Proust sono forse i Jayhawks più crepuscolari di sempre, ma la freschezza dei richiami li preserva dal ricorso a cliché più artatamente decadenti. Il finale al velluto è tutto all’insegna di una soffusa autocelebrazione che certo non indispone: prima con le confidenze dolciamare di “Lies In Black & White”, quindi con la meravigliosa chiusa estatica di “I’ll Be Your Key”, ennesima carezza di un eterno seduttore e di quella sua voce incredibile: Gary Louris, protagonista senza eguali di un romanzo tra i più avvincenti del rock alternativo degli ultimi trent’anni, non ancora prossimo al sigillo della parola fine e alla quiete del suo angolino nell’armadio dei ricordi musicali.
E poi, eccoci al 2018. Ci sarà anche arrivata in sordina e prendendosi tutto il tempo necessario (ben trentatré gli anni di carriera), ma quello del decimo album a referto resta un traguardo di tutto rispetto pure per una band veterana e da sempre rispettata come i Jayhawks. Dopo la piacevolissima deriva twang-pop tra Rem e Wilco di Paging Mr. Proust, la compagine di Minneapolis torna a guardare in via esclusiva alla propria incarnazione più classicista per quanto non disdegni di offrire ai suoi affezionati qualche sorpresa intrigante, a cominciare da quel paio di titoli affidati alla voce della tastierista Karen Grotberg (quelli offerti agli exploit canori del batterista Tim O’Reagan non fanno più notizia). Dall’ultima fatica in studio è trascorso appena un biennio, per quanto illuminato dal rientro in Sony (nella sussidiaria Legacy), movimentato dalla defezione di Kraig Johnson, arricchito dalla doppia collaborazione con Ray Davies per i dischi intitolati (assai a proposito) “Americana” e di recente immalinconito dalla notizia della morte del primo storico batterista, Norm Rogers, sconfitto da una grave malattia lo scorso febbraio.
Le tempistiche oltremodo esigue richieste dal nuovo Back Roads And Abandoned Motels si spiegano facilmente con la scelta del leader, Gary Louris, di offrire una seconda opportunità a una serie di canzoni da lui scritte nel corso degli ultimi dodici anni assieme ad altri artisti più o meno noti, dalle Dixie Chicks a Carrie Rodriguez passando per Jakob Dylan, e da questi pubblicate ai tempi, ognuno con la propria ragione sociale. Solo quattro gli inediti assoluti e appena due (i brani conclusivi) firmati in esclusiva dal capobanda, per l’occasione ancora una volta produttore assieme a Ed Ackerson e al nuovo membro, John Jackson, che offre contribuiti come violinista, mandolinista e secondo chitarrista. Quello del singolone “Everybody Knows” rappresenta allora il più confortevole dei ritorni a casa, con il gruppo che pare muoversi a memoria, bonario e confidenziale, nel suo vestitino alt-country di recupero da Tomorrow The Green Grass via Rainy Day Music: tutto risaputo eppure a suo modo prodigioso e irrinunciabile. Con “Bitter End”, Louris si compiace di far trapelare tutta la propria fragilità in una ballata tradizionalista e di ampio respiro che ribadisce il trend magari frugale ma comunque assai partecipato del disco, che ha proprio nell’apprezzata raccolta del 2003 il suo più evidente riferimento espressivo (si senta anche il secondo e più asciutto estratto, “Backwards Women”, che marca l’ormai proverbiale inseguimento del Nostro al mito di Dylan salvo risolversi in una pur onorevole ordinaria amministrazione). Più posato e d’atmosfera, il gruppo statunitense riesce a intonarsi al meglio con quanto l’anagrafe racconta sul suo conto, senza particolari adulterazioni formali ma con garbo e classe pressoché intatti.
Nella seconda facciata l’album tende a farsi sempre più inessenziale nel suo sfuggente intimismo, plasmato a immagine e somiglianza di un frontman che lascia da parte la magnanimità della prima parte – dove si era trovato ad assecondare la tiepida malinconia di O’Reagan (“Gonna Be A Darkness”) o l’estro più frizzantino à la Fleetwood Mac della Grotberg (nell’anomala apertura di “Come Cryin' To Me”, con tanto di innesto soul di fiati a firma David Ralicke) – per recitare ora assorto in una disillusa contemplazione, ora blandamente imbronciato, a tratti persino luminoso. Con la ballad oligominerale “Bird Never Flies”, i Jayhawks tornano a prediligere un certo tocco impressionista che ben si accorda con quello di altre grandi realtà della medesima scena, pure mai troppo fortunate (su tutti i Richmond Fontaine).
Privo di canzoni davvero indimenticabili eppure curatissimo, terso, onesto e pacificato come quasi sempre è capitato di realizzarne alla band del Minnesota, Back Roads And Abandoned Motels è un disco fascinoso anche perché (gradevolmente) irrisolto e piuttosto fedele nel tratteggiare il microcosmo americano tanto caro ai Jayhawks, quella marginalità umana resa a meraviglia dall’elegante crepuscolo della conclusiva “Leaving Detroit” e in parte restituita anche dalla foto di copertina firmata da un certo Wim Wenders (provvidenzialmente tornato dalle parti di “Paris, Texas”, a quanto pare).
THE JAYHAWKS | ||
The Jayhawks(Bunkhouse, 1986) | 6 | |
Blue Earth(Twin/Tone, 1989) | 7 | |
Hollywood Town Hall(American, 1992) | 8 | |
Tomorrow The Green Grass(American, 1995) | 7,5 | |
Sound Of Lies(American, 1997) | 8 | |
Smile(American, 2000) | 7 | |
Rainy Day Music(American, 2003) | 6,5 | |
Mockingbird Time(Rounder, 2011) | 6 | |
Paging Mr. Proust(Thirty Tigers, 2016) | 7 | |
Back Roads And Abandoned Motels(Legacy, 2018) | 6,5 | |
GOLDEN SMOG | ||
On Golden Smog Ep(Rykodisc, 1992) | 5,5 | |
Down By The Old Mainstream(Rykodisc, 1995) | 7 | |
Weird Tales (Rykodisc, 1998) | 8,5 | |
Another Fine Day (Lost Highway, 2006) | 5,5 | |
Blood On The Slacks Ep(Lost Highway, 2007) | 6 | |
GARY LOURIS | ||
Vagabonds(Rykodisc, 2008) | 6,5 | |
AU PAIR | ||
One Armed Candy Bear(Thirty Tigers, 2015) | 7 | |
MARK OLSON & GARY LOURIS | ||
Ready For The Flood(New West, 2008) | 6 | |
MARK OLSON | ||
The Salvation Blues(Hacktone, 2007) | 7 | |
Many Colored Kite (Rykodisc, 2010) | 6 | |
Goodbye Lizelle (Glitterhouse, 2014) | 6 | |
MARK OLSON & THE CREEKDIPPERS | ||
The Original Harmony Ridge Creek Dippers (Koch, 1997) | 7 | |
Pacific Coast Rambler(Creek, 2002) | 5,5 | |
Zola And The Tulip Tree(Atlantic, 1999) | 5,5 | |
My Own Jo Ellen(Glitterhouse, 2000) | 7 | |
December's Child(Glitterhouse, 2002) | 6,5 | |
Mystic Theatre(Glitterhouse, 2004) | 7 | |
Political Manifest(Glitterhouse, 2004) | 6 | |
TIM O'REAGAN | ||
Tim O'Reagan(Lost Highway, 2006) | 6 |
Baltimore Sun | |
Take Me With You (When You Go) | |
Waiting For The Sun | |
Settled Down Like Rain | |
I’d Run Away | |
Blue | |
V | |
Big Star | |
Until You Came Along | |
Smile | |
I’m Gonna Make You Love Me | |
Save It For A Rainy Day | |
She Walks In So Many Ways | |
Quiet Corners & Empty Spaces |
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