Gli Swervedriver non sono la prima band in cui ci si imbatte quando si decide di approcciare lo shoegaze, o di avventurarsi oltre i soliti, due o tre grandi classici del genere. A meno che non si abbia vissuto i primissimi anni 90 in prima persona, quando avremmo potuto scovare la band di Franklin e Hartridge ben prima che lo coordinate dello shoegaze fossero completamente tracciate, solitamente ci si approccia alla loro opera avendo ben chiaro in mente come i “fissascarpe” suonino di solito. Ascoltando per la prima volta Raise o Mezcal Head, i due capolavori della band, si viene dunque investiti da un suono virulento e marcato, da una ritmica rutilante, con il basso ben in evidenza e la batteria letteralmente tempestosa, e da chitarre insolitamente discernibili rispetto agli standard shoegaze.
Eppure i connotati del genere ci sono tutti: il muro di feedback, la sconsolata cantilena di Adam Franklin e, all’occorrenza, Jimmy Hartridge (comunque ringalluzzita rispetto a quelle di Kevin Shields o Andy Bell e Mark Gardener), l’atmosfera decadente e trasognata. Soltanto ci sono un bel po’ di muscoli in più. Dovessimo paragonare lo shoegaze degli Swervedriver a un animale, questo sarebbe senz’altro il nerboruto toro che campeggia sulla copertina di Mezcal Head.
Anche il nome della band evoca una certa durezza, la capacità di lasciare un segno. Swerve in inglese vuol dire sterzata, derapata, ovvero manovre che lasciano sul suolo segni tangibili.
Il ficcante nome della formazione di Oxford è però soltanto il primo segno di un intero immaginario a venire, che sarebbe stato segnato da una sensazione di velocità e dal tema del viaggio, terreno o spaziale che sia. Rombanti coupé americane, sedili eiettabili, montagne russe, rotte aereospaziali, scie di aeroplani, treni sferraglianti e orizzonti lontani avrebbero dunque costellato i sei (ad oggi) Lp degli Swervedriver. Tutti simboli che trovano perfetta raffigurazione sonica nello shoegaze ad alta cilindrata degli inglesi, che del resto ad inizio carriera amavano definire la loro musica space travel rock’n’roll.
Lo space-rock più sferragliante, quello degli Hawkwind per intenderci, fa sicuramente parte del bagaglio di influenze degli Swervedriver, ma non è l’unico indiziato per la maggior durezza del sound della band rispetto agli standard shoegaze. Sin dall’uscita dei primi Ep, Franklin e Hartridge non hanno fatto mistero, né in musica né a parole, dell’ammirazione nutrita per assi dell’indie americano più rumoroso come Husker Du e Dinosaur Jr. e, men che meno, per i Sonic Youth. Da questo punto di vista, è facile associare la formazione a un altro grande classico nome shoegaze ugualmente segnato da un certo americanismo, quello dei Catherine Wheel. La band di Dickinson esordì però con un disco, “Ferment”, più canonicamente shoegaze e solo in seguito “imbastardì” il suo suono con sfumature grunge e alternative-metal. Post-hardcore e noise-pop fanno invece parte del Dna degli Swervedriver fin dal principio della loro parabola. Va segnalato inoltre che l’esperienza musicale congiunta dei due chitarristi iniziò quando, insieme al fratello maggiore di Franklin e al batterista Paddy Pulzer, fondarono una band chiamata Shake Appeal, fortemente ispirata dal garage rock e dal proto-punk di Stooges e MC5.
1989 – 1992: la prima formazione della band e l’approdo a Creation
Immediatamente dopo lo scioglimento degli Shake Appeal, nel 1989, Adam Franklin compose tre pezzi destinati a far parte del canzoniere degli Swervedriver: “Volcano Trash”, “Afterglow” e il primo singolo della band “Son Of Mustang Ford”. Impressionati dal livello dei brani, gli ex-compagni di band decisero di supportare il chitarrista nell’incisione di un demo presso gli Union Street Studios di Oxford. Immediatamente dopo le registrazioni, Graham Franklin e Paddy Pulzer si separarono definitivamente dai due chitarristi per perseguire altri progetti musicali.
Adam Franklin e Jimmy Hartidge, invece, erano intenzionati a continuare a fare musica insieme. Lasciarono dunque Oxford per approdare a Londra, dove avrebbero conosciuto molto presto il batterista scozzese Graham Bonnar, che avrebbe fatto parte degli Swervedriver fino al 1992, marchiando a fuoco i primi lavori della band con il suo drumming vigoroso e impietoso.
Giusto prima di lasciare Oxford, i futuri chitarristi e cantanti degli Swervedriver consegnarono una copia del loro demo al concittadino e chitarrista e cantante dei Ride Mark Gardener, che a sua volta girò la cassettina al patron della Creation Alan McGee. All’illuminato titolare della più importante etichetta shoegaze di sempre bastarono pochi ascolti, effettuati (si narra) nel retro di una limousine in quel di Los Angeles, per decidere di scritturare la band.
Tirato in barca il bassista Adi Vines (anch’egli del giro londinese), come da prassi in quel della Creation, la band iniziò a macinare Ep e guadagnare diffusione radiofonica grazie ai vari, lungimiranti dj inglesi dell’epoca, John Peel su tutti. Prima di farne confluire ciascuna title track (e molte delle altre tracce nell’edizione estesa del disco destinata al mercato americano) in Raise, la band rilasciò ben tre Ep: Son Of Mustang Ford, Rave Down e Reel To Real.
Se inizialmente l’accoglienza del mercato inglese fu molto calda nei confronti della proposta degli Swervedriver, va detto che l’interesse si raffreddò presto, con stampa e radio intenti a caldeggiare interpreti shoegaze più ortodossi. A differenza di colleghi più illustri e analogamente a quanto sarebbe accaduto ai Catherine Wheel, gli oxfordiani ricevettero però grande attenzione negli Stati Uniti, dove, potendo contare su un accordo distributivo con la A&M oltre che sul sound più congeniale alle orecchie affamate di grunge degli americani, ottennero numerose date live in supporto a band della grandezza di Smashing Pumpkins, Monster Magnet e Soundgarden.
Raise è un disco che non perde tempo in presentazioni, lente introduzioni, formalità di sorta. Propulsa da una sezione ritmica scavezzacollo - Vines e Bonnar pestano davvero di brutto - l’opener “Sci Flyer” lancia il disco subitaneamente in orbita, oltre la volta celeste della sua copertina. Le chitarre aereospaziali della premiata ditta da Oxford non sono da meno e intessono scie fumose come fossero shuttle supersonici appena lanciati verso lo spazio. Con un titolo così, del resto, non potrebbe essere altrimenti.
Pur rimanendo decisamente vigorosa, “Pile Up” inizia a mostrare sintomi di shoegaze con un cantato più smorto e tendente alla litania; mentre “Son Of Mustang Ford”, brano il cui cantato trasuda l’eredità dei Sonic Youth, è un’altra corsa a tutta birra, questa volta a bordo della leggendaria auto del titolo per le strade assolate e allucinate di “Fear And Loathing In Las Vegas” (libro citato come influenza del brano dallo stesso Franklin).
E’ la successiva “Deep Seat” a sciogliere le chitarre in una melassa di riverberi e sprofondare il disco in una curvatura spazio-temporale shoegaze, salvo poi risollevare i giri per accompagnare un formidabile assolo imbevuto nel wah-wah. Segue “Rave Down”, un’energetica gemma melodica che viene puntualmente inserita in numerosissimi best of della prima ondata shoegaze. In “Sunset” il quartetto continua a sfondare la barriera del suono per cinque minuti di repentini cambi di ritmo, rilassamenti, stasi e repentini assalti sonici.
Lo scettro di brano più pop della scaletta spetta alla successiva “Feel So Real”, canzone contenente uno dei ritornelli più rotondi della premiata ditta Franklin-Hartridge e un dinamismo tra le chitarre molto simile a quello dei Ride. È questione di secondi, perché poi sopravvengono l’ennesima, micidiale zampata ritmica e un riff virulento, ma la batteria spazzolata e l’arpeggio che aprono “Sandblasted” sembrano rimembrare gli umori di un’altra band di Oxford che emetteva i primi vagiti proprio in quegli anni, una che non c’è neanche bisogno di nominare.
La chiusura del disco, o perlomeno della sua versione originale, è affidata a “Lead Me Where You Dare”, un brano che si scarta dal resto della tracklist a causa del ritmo poco sostenuto, ma comunque magnetico, sinuoso, persino ammiccante nel suo modo di terminare spogliandosi progressivamente degli strumenti.
Tra i brani che la versione statunitense del disco estrapola dagli Ep che lo hanno preceduto, sono assolutamente da segnalare “Andalusia”, una scheggia shoegaze dalla temperatura bollente e dal retrogusto ferroso, e “Kill The Superheroes”, ovvero sei rumorosi minuti che sembrano dedicati ai Sonic Youth.
Raise permise alla band di raggiungere la posizione n.44 della classifica di vendite inglese, un risultato non da poco se si considera la durezza del disco. Seguì dunque un lungo tour, durante il quale i ragazzi si fecero notare da Alan Moulder. Habitué di casa Creation, dove aveva già lavorato con Jesus And Mary Chains e MBV, il produttore volle fortemente lavorare con la band.
Il risultato che ne conseguì dall’incontro, l’Ep Never Lose That Feeling, è senza dubbio uno dei vertici dell’intera carriera della band. Basterebbe la title track “Never Lose That Feeling/Never Learn” a consegnare questo extended play alla gloria. La cura effettuata da Moulder sul suono è evidente fin dall’attrito che i riff sembrano sprigionare, il ritornello e la carica dirompente del suo messaggio sono un prodigio pop rinforzato dal controcanto byrdsiano. Ma è nella seconda, lunga metà del brano che l’aggiunta di improvvisazioni free jazz di sassofono ne fa un assoluto vertice della neo-psichedelia oltre che dello shoegaze. A chiusura scaletta, ritroviamo “Never Lose That Feelig” nella sua versione tagliata per le radio, priva dunque della miracolosa seconda sezione.
Sono di assoluto valore anche i due brani centrali: una “Scrawl And Scream” affusolata nella ritmica ma dall’impatto noise contundente e una raffinata reprise raffinata di “Hands” (da Raise) intitolata “Hands [A.K.A. The Watchmakers Hands]”.
Nonostante creativamente e commercialmente le cose andassero alla grande, i rapporti tra i membri della band erano ai minimi termini a causa di forti divergenze artistiche. Così il tour nordamericano del 1992, il primo da headliner oltreoceano, segnò la fine della prima line-up degli Swervedriver. Aspettando di attraversare il confine tra Usa e Canada per un concerto a Toronto, Bonnar lasciò il tour bus per andare a farsi un panino e non fece mai ritorno. Grazie alla supplenza di Dan Davis dei Run Westy Run alla batteria per le successive cinque date, la band riuscì a salvare parte della tournée, ma al momento del ritorno in patria anche Adi Vines manifestò la volontà di abbandonare la formazione. Era la fine di un’era.
1993 – 1997: il sodalizio con Moulder, la nuova formazione e la rottura con Creation
Al ritorno dagli Stati Uniti, degli Swervedriver rimaneva dunque ben poco. Parafrasando lo stesso Hartridge, della formazione originale della band erano rimasti “me stesso, Franklin e qualche pedale”. Sebbene in molti li dessero per spacciati, ai due cantanti e chitarristi di mollare non passò nemmeno per l’anticamera del cervello. Durante le registrazioni di Never Lose That Feeling avevano deciso che Alan Moulder avrebbe prodotto il loro successivo Lp e, in sintonia come erano col produttore, avrebbero fatto carte false affinché la cosa andasse in porto.
Jez Hindmarsh, il nuovo batterista della band, fu presentato da Hartridge e Franklin al produttore Marc Waterman durante le incisioni di “Duress”, il primo brano realizzato di Mezcal Head; poté quindi prendere attivamente parte alla realizzazione del disco. Per il bassista ci volle invece un po’ più di tempo, tanto che tutte le parti di basso del secondo Lp della band furono registrate, a turni, dagli stessi chitarristi.
A disco ultimato, quando era tempo di imbarcarsi in un nuovo tour, Steve George si avvicinò a Franklin al bancone di un pub di Camden e gli fece “tu sei il tizio degli Swervedriver… ho sentito che state cercando un bassista, sono a vostra a disposizione”.
Mezcal Head, sul cui suono nerboruto e smaltato l’impronta di Moulder è evidente, è un disco ben diverso dal suo predecessore. Sebbene il suono rimanga segnato da una grande dose di riverberi e il cantato in prevalenza cantilenante, in Mezcal Head la band inizia a dare i primi segni di allontanamento dallo shoegaze: il riffing di Franklin e Hartridge è molto più marcato e presenta contorni più definiti che in passato, i ritornelli sono molto più innodici e cantabili (“Blowin’ Cool”, ad esempio, si può cantare al primo ascolto), la sezione ritmica è a conti fatti alternative-rock.
Tolta la succitata “Duress”, un brano altamente psichedelico dove le chitarre sgommano e si dilatano deformando le proprie traiettorie, il ritmo del disco è molto elevato e, rispetto a quello di Raise, più costante. “For Seeking Heat” e “Duel” (ispirata dal film di Spielberg ed ennesimo riferimento della band a motori e strade), che aprono il disco formando quasi una specie di unica lunga suite, mostrano subito artigli e agilità felini; mentre “MM Abduction” mette in evidenza i muscoli più pompati e definiti del lotto.
Il secondo singolo del disco, “Last Train To Satansville” è uno dei capolavori della band: il ritmo è rocambolesco, tanto che si ha davvero la sensazione di sfrecciare su un treno senza controllo, e le chitarre sono stranianti, divise come appaiono tra luccicanze spaziali e richiami spaghetti western.
Attraversate da chitarre roventi che accavallano e alternano riff e arpeggi con fantasia inesauribile, “Harry And Maggie” e “A Change Is Gonna Come” tradiscono riflessioni sulla natura contraddittoria dei rapporti di coppia, sull’ambiguità dei sentimenti e sull’impossibilità di conciliarli sempre. “Girl On A Motorbike” ci riporta on the road con un testo che sembra una sceneggiatura cinematografica, capace quindi di trasportarci prima tra la sabbia del deserto e poi in un bar di frontiera; il tutto mentre le chitarre saettano accompagnate da un pianoforte picchiettato incessantemente. Come in “Last Train To Satanville”, sembra qui fondamentale la sapienza di Moulder in cabina di regia, che ha permesso la realizzazione di un disco magari meno coeso e coerente di quello precedente, ma più cangiante e, per certi versi, coinvolgente.
Rilasciato il 12 agosto del 1993, il disco esordì in patria al 55° posto della classifica delle vendite. Un risultato certamente rimarchevole, ma difficile da migliorare con il tipo di sound che la band aveva abbracciato. A fine anno gli Swervedriver tornarono quindi in America per supportare il tour degli Smashing Pumpkins, cominciando così a concentrarsi maggiormente sul loro crescente pubblico americano.
Al contrario di quella che sarebbe stata la strategia dei Catherine Wheel, che sembrarono accettare di buon grado l’etichetta di “americani” dello shoegaze, e nonostante gli sforzi distributivi e live oltreoceano, agli Swervedriver quell’etichetta proprio non andava giù. Tanto che l’intero disco successivo, Ejector Seat Reservation del 1995, includendo ispirazioni che vanno da Elvis Costello ai T. Rex, suona come un tentativo di smarcarsi da quella descrizione.
Prodotto ancora una volta da Alan Moulder, il terzo album della band di Oxford segna rispetto a Mezcal Head uno scarto ancora più evidente di quello verificatosi tra quest’ultimo e Raise, con il tipico wall of noise shoegaze a fare la sua comparsa soltanto in alcuni episodi, con un lato psichedelico di contro molto accentuato e una propensione al pop finora inaudita.
Il disco, molto probabilmente (perlomeno al momento dell’uscita) il preferito dalla critica, fu però un totale insuccesso commerciale. La cosa, unita a forti divergenze sorte durante la sua realizzazione sia con McGee che con la A&M (che in seguito alle controversie prima posticipò e poi cancellò l’uscita americana dell'opera), portò alla separazione tra la band e le due etichette. A completare il pasticcio e a decimare il budget destinato alla band, ci si mise anche Bob Dylan, che all’ultimo minuto rifiutò di concedere i diritti per l’utilizzo del testo della sua "It's All Over Now, Baby Blue" in "It's All Happening Now", traccia addizionale inclusa in una versione promozionale già stampata di Ejector Seat Reservation, che fu dunque da cestinare.
Un po’ caotico, umorale, certamente scostante, Ejector Seat Reservation è sicuramente un disco peggiore dei due che lo avevano preceduto, ma proprio grazie a queste sue caratteristiche ha espanso la gamma di possibilità della band, che anche questa volta ha realizzato alcuni dei suoi capolavori.
La voglia degli Swervedriver di mettersi in gioco e abbattere tutti gli stereotipi generatisi attorno al proprio nome è evidente sin dai due minuti intitolati “Single Finger Salute” che aprono il disco, praticamente un lento tuffo neo-psichedelico dal sapore orchestrale. Soltanto pochi brani, come “Bring Me The Head Of The Fortune Teller” e la ferrosa e smargiassa “I Am Superman”, ricalcano pedissequamente lo stile chitarristico e l’appeal dei brani di Mezcal Head.
Movimentata da un sensuale e cavernoso groove di basso di George e da una batteria quasi à-la Oasis, “The Other Jesus” sembra quasi un tentativo si cavalcare l’onda lunga del britpop che imperversava in quel momento. La title track e “How Does It Feel To Look Like Candy?”, quest’ultima arricchita da gustosi e sfavillanti ottoni, indugiano ulteriormente in questa direzione. Tanto da far venire in mente un parallelo con “Carnival Of Light” dei concittadini Ride; anch’esso, perlomeno rispetto ai dischi precedenti, fortemente propeso verso i trend inglesi d’epoca. Rispetto ai Ride di “Carnival Of Light”, gli Swervedriver rimangono però prevalentemente elettrici.
Il capolavoro di questa timida svolta pop è in tutta probabilità la ballad lisergica “Last Day On Earth”, che con gli arzigogoli degli archi e i suoi boati di wah-wah richiama ineluttabilmente la band si è seduta a cavalcioni tra shoegaze e britpop più comodamente di tutte, ossia i Verve.
I motori degli Swervedriver tornano a rombare nella roboante “Son Of Jaguar E”, che si pone in scia di “Son Of Mustang Ford”. Fa a tal proposito sorridere che questa volta, quasi a voler corroborare il rifiuto della succitata "americanità", la band abbia scelto di intitolare questa canzone come un bolide simbolo dell’industria automobilistica britannica per eccellenza. L’ultima canzone in tracklist, “The Birds”, da il La a una sequenza di tre brani non accreditati segnati da psichedelia liquida e trasognata. Si chiude così la parte più interessante della carriera della band.
1998 – 2007: il breve periodo con la Geffen e il lungo iato
Orfani di etichetta, ma intenzionati a non smettere di suonare e scrivere nuova musica, gli Swervedriver firmano un accordo per tre dischi con la BCG Records, una sussidiaria del gigante grunge Geffen. Il primo dei dischi sarebbe dovuto essere proprio una versione destinata al mercato americano di Ejector Seat Reservation, ma il prezzo per il riscatto dei diritti fissato dalla A&M è esorbitante e il proposito fallisce presto. Così, aperto uno studio di proprietà in quel di Farringdon (nord di Londra), nel 1998 la band e Moulder si mettono al lavoro su un nuovo disco di inediti: 99th Dream.
Già durante le registrazioni, l’etichetta si mostra poco entusiasta del lavoro della formazione e, non disposta ad attendere ulteriormente materiale che la soddisfacesse, rescinde il contratto. Il quarto Lp della band riesce tuttavia a vedere la luce.
Gli stessi Franklin e Hartridge, tuttavia, non sono soddisfatti del risultato e dopo un tour colmo di tensioni e battibecchi decidono di sciogliere la band. Presto arriva anche la decisione di vendere lo studio di proprietà (a comprarlo furono gli Ash) poiché i due leader della band non vedono di buon occhio il crescente utilizzo di droghe tra i frequentatori del luogo.
99th Dream è in effetti un disco poco riuscito. Semplificate oltremodo le trame rispetto a come la band aveva abituato il suo pubblico - a detta di Moulder, per facilitare la resa live delle nuove canzoni - il disco suona a tratti fiacco, privo del solito mordente, dell’attrito di cui gli Swervedriver sono capaci. La difficoltà non viene però attutita, come nel caso del terzo disco, da qualità di scrittura alta, freschezza pop e idee geniali. “These Times” è un brano britpop senza l’immediatezza necessaria a conquistare i fan del genere, “Stellar Caprice” è un crogiolo di riverberi spaziali lacrimosi ma mai davvero affascinanti, mentre “Wrong Treats” è un alternative-rock all’americana scritto davvero col pilota automatico. Qualcosa di interessante si annida semmai negli strati di chitarra dell’opener “99th Dream”, così come nelle cascate di effetti della successiva “Up From The Sea”.
L’episodio più interessante del lavoro è però la sua conclusione. Sette minuti abbondanti intitolati “Behind The Scenes Of The Sound And The Times”, che partono come una delle scorribande ad alta velocità della band, ma con il cantato di Franklin particolarmente sgranato e stanco, e un finale che galleggia nella Via Lattea.
A partire dal 1999, per nove lunghi anni, durante i quali Franklin intraprende una multiforme attività solista e Hartridge opera invece da agente per terzi, la band di Oxford non dà segni di vita.
2008 – oggi: dalla reunion live ai nuovi album in studio
Ben prima che si riunissero band shoegaze più illustri quali Slowdive o Ride, e dunque prima che fissarsi le scarpe sui palcoscenici di mezzo mondo tornasse di moda come è successo lo scorso decennio, nel 2008, in quel del Coachella di Indio (California), lo schivo ricciolone Hartridge e Franklin, i cui lunghi capelli rasta sfoggiati da giovane erano invece ormai un lontano ricordo, riuniscono inaspettatamente la propria band. Segue un corposo tour in patria, con date trionfali a Londra e Glasgow.
Simultaneamente al tour, la Sony BMG acquista i diritti dei primi tre dischi della band e li ristampa in succose edizioni rimasterizzate ed estese, contenenti dunque numerosi brani dai vari Ep che avevano inframezzato i full length. Ci vorranno però ben sei anni prima che la band, nel 2014, si deciderà a mettere piede in studio per registrare nuovo materiale.
Uscito nel 2015 per Cherry Red Records, I Wasn’t Born To Lose You è un bel modo di rivivere quel periodo d’oro della musica rock, questo perché gli Swervedriver non hanno smarrito la loro abilità di compositori, e nel frattempo hanno messo in risalto quelle robuste nuance alla Husker Du, Dinosaur Jr., che erano già a quel tempo la vera ragione di quell’intenso coinvolgimento.
Liberando dalla nebbia gli echi psichedelici e l’attitudine pop alla Byrds, la band di Oxford rimette in gioco il proprio profilo stilistico, sganciandosi dal revival shoegaze e conservando il fascino ipnotico delle sue progressioni sonore. Ma quello che realmente stupisce è la perfetta padronanza che gli Swervedriver mettono in mostra nei dieci episodi dell’album. Il contrasto tra lo stile acid-noise e graffiante di Jimmy Hartridge e quello più sognante-oscuro di Adam Franklin resta il fulcro della loro musica: un’alchimia che si rinnova senza perdere smalto.
I Wasn’t Born To Lose You è un susseguirsi di melodie deliziose e quasi romantiche, pronte a incendiarsi al contatto dell’aria, una cascata torrenziale di accordi rock e pop pronti a lasciarsi dietro il passato, per tuffarsi in una incandescente furia lirica.
Ristabilite le coordinate base con “Autodidact”, il nuovo progetto del gruppo inglese evita il torpore del repeat automatico, con brani ricchi di variabili armoniche (“Last Rites”), incursioni nel rock’n’roll più classico ("Red Queen Arms Race") e melodie che se non fossero inebriate di furore noise (“For A Day Like Tomorrow") potrebbero sembrare figlie dei Pink Floyd di “Animals”.
Omogeneo e corposo, il ritorno degli Swervedriver è ricco di episodi a cui affidare il rinnovarsi di un sentimento: “Everso” ripercorre i fasti del loro passato con melodie che hanno sia la solarità della California sia il grigiore di Londra, "English Subtitles" mette il minimalismo al centro di una progressione sonora che sembra crescere all’infinito prima di scontrarsi col silenzio e “I Wonder?” condensa una quantità di riff e suoni capaci di reggere da soli un intero album di neo-revivalisti.
Per un gruppo che sembrava aver concluso la carriera in assenza di ispirazione, I Wasn’t Born To Lose You rappresenta una rinascita e una rivincita artistica: anche quando le briglie si sciolgono nella più lineare “Setting Sun”, o quando il britpop affiora tra le maglie della sempre verde tessitura delle due chitarre di Franklin e Hartridge, resta palese un’intensità emotiva e creativa che non appartiene solo al passato.
Quattro anni dopo, nel 2019, è invece la volta del meno ispirato, ma comunque dignitoso Future Ruins. Questa volta, però, niente piedi fuori dal finestrino di un’automobile in corsa su chissà quale route centroamericana, bensì, immersi nel grigio, i giganteschi resti di un parco dei divertimenti.
Future Ruins, come recita il titolo della traccia numero tre e del disco, ovvero il nostro presente. Quello di una società, o meglio di un'umanità, che diventa obsoleta sempre più in fretta, il fantasma di se stessa mentre è ancora in vita. Con premesse del genere, il mood dominante non poteva che essere la melanconia, al solito tradotta dagli oxfordiani in schitarrate ammantate di feedback e melodie lancinanti.
E’ infatti un concept intrigante, quello alla base del disco numero sei degli Swervedriver, o perlomeno di Adam Franklin e Jimmy Hartridge (unici superstiti del nucleo originario della band), che avrebbe meritato qualche lampo di genio e qualche pezzo memorabile in più. Che invece si riducono a tre o quattro, se vogliamo generosamente considerare nel novero la cazzuta “Spiked Flower”.
Simbolo di tutta l’operazione è il singolo “Mary Winter”, 5 deliziosi minuti di melodia e riffing muscoloso che frullano i pensieri di un astronauta perduto nello spazio che si ricorda della real life. Polverosa e desolata, con una melodia dettata da una tastiera giocattolo e interferenze radio qua e là, “Everybody's Going Somewhere & No-One's Going Anywhere” (che ben trasmette l’assenza di direzione, lo spaesamento del suo titolo) dà davvero la sensazione di vagare smarriti tra rovine futuristiche – praticamente la versione shoegaze di “Tomorrow's Harvest” dei Boards Of Canada.
Un peccato poi che, tra le stesse rovine, un’eccessivamente lunga “Radio-Silent” all’inquietudine faccia subentrare la noia, chiudendo il disco nell’assenza di ispirazione. Problematica che affligge anche alcuni episodi più movimentati, come “Golden Remedies” e “Theeascending”, che, pur piacevoli, risultano un po’ di maniera.
Contributi di Gianfranco Marmoro ("Wasn't Born To Lose You")