Merz

Merz

Un angelo caduto a Bristol

Conrad Lambert, aka Merz, è l’artigiano pop più introverso che possiate incrociare dalla parti di Clifton Bridge. Il suo songwriting è un collage minuzioso di frammenti folktronici, maculati da una voce vellutata e penetrante. Una struggente immagine di irreversibilità delle cose, di scomposta bellezza sfiorita

di Fabio Russo, Giuliano Delli Paoli

L’ala cantautorale di Bristol è da sempre uno dei contenitori più preziosi dell’indie-pop intimista anglosassone. La sempreverde arte post-rock (melo)drammatica aleggia perenne nel sud-ovest del Regno Unito, quasi a rimarcare una naturale contrapposizione emozionale al grigiore urbano della piccola metropoli.
Da qui spuntano con frequenza assidua cantori dall’estro immacolato, anime solitarie che affogano i propri umori e malumori nella stesura di un testo, nell’articolazione di una melodia, partorita per alleviare-torturare quel lamento regresso dell’io.

Conrad Lambert, aka Merz, è l’artigiano pop più introverso che possiate incrociare dalla parti di Clifton Bridge.
Autore malinconico e riflessivo, la sua arte è un collage minuzioso di frammenti acustici modellati dal tintinnio esotico di uno xilofono, dal battito sordo di un beat appena abbozzato, dal flusso candido dei tasti di un piano posto in lontananza.
Polistrumentista affermato, da circa un decennio, Lambert illumina le nostre gracili nicchie con un artigianato britpop sommerso da ciottoli di morbida indietronica, rivestita da un intarsio melodico mai invadente, avvolta da una voce intensa, penetrante, gentile, di quelle che scuotono l’anima a ogni lento sospiro.
La creatività compositiva di Merz nasce dal profondo di un’inquietudine mal celata, il suo è uno sguardo grigio, che racchiude fragilità interiori filtrate con garbo da note quantomeno struggenti. Artista defilato, capace di allontanarsi dal sottobosco indie (e da una plausibile ribalta) per anni e anni, pur di non cedere al richiamo futile di una produzione impropriamente sentita.

Nell’autunno 1999 arriva la prima opera di questo suggestivo autore, intitolata semplicemente Merz (Gronland, 1999).
Per quanto Conrad Lambert possa valersi di amicizie importanti (produce la Epic, si esibisce dal vivo assieme ai Coldplay), non mostra gran interesse a imboccare percorsi britpop a tutto tondo, svelandoci piuttosto un potenziale maculato folktronico dal gesto raffinato, un ibrido singolare e caratteristico.
Una dedica “zibaldone” alle proprie musicali ossessioni e ai propri agitanti fantasmi poetici.
La voce incantevole di Lambert veste ogni parola come flusso ineffabile, è un timbro magico che vedresti cantare ogni cosa, ornandola senza imbarazzare, forte della sua densa levità.
È anche questo insieme particolare, di corporatura decisa e animo fragile, a mantenere vitale e corrente il lavoro, laddove altre pubblicazioni coeve sono irrimediabilmente deperite o sanno, oggi come ieri, d’astuzia indie-kid sin da un miglio.
Nel caso di Merz, la crisalide è già farfalla, e si eleva vistosa e vitale col suo volo irregolare contro le intemperie, sin quasi a dominare la cupa vista esibita dalla suggestiva copertina. Questa immagine è una simbiosi per la musica dell’album: Merz è un esordio immaginifico, singolare e tenace, da riscoprire e da non considerare solo per ciò che ha originato in seguito.
Conrad Lambert si mostra in grado di tinteggiare più generi facendoli brillare cingendoli al suo blues spirituale; sfoggiando un appeal smaltato e misurato con sapienza, tra montaggi musicali e fervide liriche.
“Many Weathers Apart ”, apre e innerva, nevrotica e inquieta, su vertebre elettriche alla Massive Attack; sciorinando una superba e coriacea interpretazione vocale. “Engine Heart” insiste il flirt, tra un tappeto di tastiere e un fingerpicking acustico e fantasioso, ante “Neo-Acoustic Movement” per poi incantare e infierire su sé, in un ritornello gonfio di rammarico.
Sulla ricurva resa sentimentale di “Forsake” spuntano, inopinate, reminiscenze da illustre interprete west-coast. Tra imprevedibili passaggi strumentali (sax, acustica) e una voce vellutata, Lambert ha insomma assorbito anche quella lezione con maturità eccellente.
Le brezze civettuole di “Lovely Daughter”, le sincopi di “CC Conscious”, o l’esempio di techno serena “Asleep” o “Blues Became” s’alternano col beat sostenuto a piccoli rarefatti drammi personali calzati in grande agio, come "Starlight Night”, dai suggestivi panneggi d’archi.
E’ nata una stella.

Sei anni di silenzio assoluto allontanano il nostro astro nascente dal firmamento celeste dell’indie-pop britannico. Solo nel 2005 Lambert riaccende le luci della sala di registrazione, infornando il suo capolavoro.
I quaranta minuti di Loveheart (Gronland, 2005) racchiudono con grazia uno dei modelli più colti e variopinti di melodrammaticità indietronica propriamente british.
L’introduttiva “Postcard From A Dark Star” è uno scrigno di estatica folktronica redarguita con classe dall’ondulazione immacolata di un piano che lacrima, vibra, respira, fino a dissolversi in un colpo di vento improvviso.
In “Verily” la malinconia cresce a dismisura, raggiunge il fondo del burrone, la cognizione dell’amor perduto tesse intrecci canori e folcloristici irti di angoscia post-relazionale. E’ la forza tenue di una fiamma che sta per estinguersi, invece, a sospingere il fraseggio acustico di “My Name Is Sad And At Sea”.
Lambert è una candela che saluta per sempre la sua cera. Un ragguaglio cupo e toccante, teso a dilaniare quei tormenti che affollano il suo fragile microcosmo emozionale.
Loveheart è una costante ipnosi, formulata dal suo incantatore con cura a tratti disarmante. La stesura del testo è diluita con parsimonia, il poeta getta anche l'orologio da taschino nel cestello degli appunti stropicciati.
Nel cuore dell’opera, il brusio aulico di alcune sirene preannuncia l’avvento di una ritrovata smania: “Butterfly” mostra le ali del Merz sognatore, del Lambert ottimista e fiducioso, del Conrad felice e sorridente. E’ tutto un lunapark di acquerelli melodici, di giocosi cinguettii e vibranti sfarfallii elettronici.
La processione di intenti spiazza per la complessa minuziosità esecutiva. Le articolate diramazioni stilistiche delineano dolci sfumature, pavidi bonghi che sorreggono la sovrapposizione di vortici elettrici, un piano che implode nel fluir voltaico di una deflagrazione appena accennata (Mistic Transformation”).
Lambert sfoggia tutto il suo estro con le sicurezza di un pastore che ha pieno controllo del suo gregge.
Con Loverheart la stella Merz irradia tutta la sua energia.

Tre anni di perfetto anonimato, caratterizzati da continui traslochi per le più quiete contee, e il nostro cantore è nuovamente tra noi.
Moi Et Mon Camion (Gronland, 2008) si leva in un incipit di leggero fingerpicking, che fa balzare alla mente un eremo dei Penguin Cafe Orchestra di Simon Jeffes. Esso inquadra e allestisce improvviso un acuto senso di rimpianto, un leit-motiv in chiave folk che non è altro che un dolente, rapinoso anelito angelico.
È la piccola, traumatica, nuova magia passionale ordita da Conrad Lambert, sulla title track del terzo atto di Merz, che estende una strada virtuale senza argini né limiti. Questa sedante pasta astrale tornerà sovente sul declivio a estasiare e sbigottire, letteralmente (“Silver Moon Ladders”, uno dei pezzi più belli del 2008, “Cover Me”, “The First And Last Waltz”), levandosi celeste qua e là secondo capriccio, rischiarando a giorno un’opera la cui costante maestria si colloca e si misura in un equilibrio soprannaturale di ingredienti.
Un talento autentico e insolito nel dosare, intimare il proprio flusso emotivo candido, tenue e pregnante, senza che esso soverchi despota, affogando, come in tanti autori, in un lamento-flusso flebile, vuoto e narciso, estinguendo una lucida, costosa razionalità e le proporzioni umane del discorso.
Lambert esalta fogge e sfuma contorni, in un certosino e sofisticato vivaio di minuzie, per poi partire ancora, inconsolabile e solitario, senza piantare radici; traversando, percorrendo l’atmosfera nel suo veicolo corazzato di glassa amara e salsa, residuo di lacrime. Tanto più coriacea e inscalfibile in sé, quanto più innanzi procede intrepido e senza panico.
Si può concedere un paio di stop a grill antidepressivi "fuori percorso", senza mai annacquare (“Shun”, “Lucky Man”), del resto cauterizzati all'istante non appena la pasta si rimmerge in quel talamo con l’alma notturna sconfinata e materna, aspirando miraggi soffiati nel vento, nucleo e nodale del discorso.
Struggente immagine di irreversibilità delle cose, di scomposta bellezza sfiorita; di coscienza e disinganno sottile che allerta e ferisce. Riecheggiano l’alito drakeiano, e Mark Oliver Everett e Fred Cornog: non a caso, altre “anime senza impronte”....

Merz

Discografia

Merz (Gronland, 1999)

7

Loveheart (Gronland, 2005)

8

Silver Tree (Ep, Gronland, 2005)
Moi Et Mon Camion (Gronland, 2008)

7,5

Pietra miliare
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