In realtà sono qui per parlare quasi unicamente del brano che con i suoi straripanti trentadue minuti e quindici secondi occupa la prima facciata di “Get Up With It”, 1974, ultimo album in studio prima dell'inabissamento del trombettista nei suoi drammi psico-fisici che lo porteranno a rifarsi vivo solo nel 1981.
“Get Up With It” è una raccolta di brani registrati negli anni precedenti, con differenti musicisti e in varie sessioni. Il più vecchio è “Honky Tonk” del 1970, uno dei più recenti è “He Loved Him Madly”, punta di diamante della ricerca sonora davisiana di questo periodo, buco nero che ha assorbito ogni istanza del cammino del suo creatore lasciando un senso di smarrimento, un vuoto cosmico. Dopo una creazione del genere, a Miles non restava che sparire.
“He Loved Him Madly” è fatta di suoni che non sono più tali, sono lacerti, frammenti, particelle che danzano libere nel buio. La rarefazione musicale è totale, con la batteria che perde il suo usale compito e si fa segnale morse dall'iperspazio, movimenti che sono deboli segnali di vita pronti a collassare da un momento all'altro. A tenere in piedi la matassa sonora ci pensano le chitarre di Reggie Lucas e Dominique Daumont, anche loro però si ritrovano presto a essere inglobate dal nero che le sovrasta, con il leader a tessere tetri accordi di organo elettrico.
La suite è dedicata a Duke Ellington, passato a miglior vita pochi giorni prima di questa registrazione. E il saluto all'amico e maestro è di un'intensità dolorosa, il suo starsene sospeso nell'aria è un requiem che commuove proprio per ciò che non dice, per ciò che lascia intendere senza mai esporsi. Solo l'arte di Morton Feldman ha toccato apici così sommessamente intensi di elusività.
Intorno agli undici minuti la batteria comincia a segnare il ricordo di un ritmo costante, il jazz come solitamente lo si intende, anche pensando alle contaminazioni di Davis con il rock e il funky, è distante anni luce. Da lì a pochissimo ci sarà la Ecm a far scuola portando all'attenzione di molti oscillazioni tra jazz, contemporanea, elettronica e silenzio. Ma qui il tutto è scevro dal perfezionismo di scuola eicheriana, è una cavità ribollente di nulla, sfatta, ruvida, mai condiscendente.
Quando entra il flauto a ingentilire e, con l'ausilio del delay, a spazializzare la trama, la vera essenza del brano è definitivamente sul piatto, i musicisti si lanciano in una jam session con la malinconia. Poi, intorno al sedicesimo minuto, gli strumenti si dispongono ai margini e allargano un sipario, preparano la scena al grande ingresso della tromba del leader e al suo incedere fantasmatico, solo un lontano ricordo del passionale andazzo con cui Miles sbaragliava tutto e tutti fino a poco tempo prima. Suono e poi silenzio, silenzio e poi suono. Il wah-wah e un largo riverbero, intorno il nulla, lui che soffia due-note-due ed è come se il cielo si aprisse e lasciasse entrare uno spiraglio di luce in un tormento di nuvoloni che poi si richiudono; lunghi istanti di calma piatta, poi di nuovo quelle due note e lentissimamente la flebile massa sonora che converge verso un unico punto, i musicisti si scambiano idee e sensazioni, si raccolgono e si abbracciano per l'ultima volta nel commiato all'amico scomparso.
Resta da dire dei brani rimanenti; la latineggiante “Calypso Frelimo” (1973) con la tromba sugli scudi, “Rated X” (1972) che ancora si spinge verso territori d'avanguardia, l'organo elettrico a evocare atmosfere care a gente come Xenakis e Penderecki, “Honky Tonk” (1970), delle sessioni di “Live-Evil”, il blues di “Red China Blues” (1972), “Maiysha” e “Mtume” (entrambe 1974) che anticipano il Miles pop degli anni 80 e infine “Billy Preston” (1972) sulla scia più funkeggiante. Molta carne al fuoco, carne succulenta, ma nulle regge il confronto con l'elegia di “He Loved Him Madly”, punto di non ritorno del suo creatore, sabba crepuscolare di sempiterna magia.