La nostra musica è violenta, ma noi non lo siamo. Canzoni come “Guns On The Roof” e “Last Gang In Town” vogliono proprio essere contro la violenza. A volte ti devi mettere nei panni del tizio con la pistola. Non potrei mai farlo ma allo stesso tempo non puoi ignorare queste cose. Non siamo un gruppo del cazzo come i Boston o gli Aerosmith
(Joe Strummer)
Solitamente Joe si sedeva a una macchina da scrivere e io mi sedevo di fronte a lui. Una volta che aveva scritto qualche cosa mi passava il foglio e io tiravo fuori una melodia. Quando la prima frase era fatta lui mi passava un altro scritto
(Mick Jones)
Credo che se i Clash siano diventati una leggenda è soprattutto perché sono uno dei pochi gruppi di quel periodo ad aver sempre saputo evolversi e trasformarsi
(Paul Simonon)
Intro - British Patchanka
Alba di un nuovo decennio, il 1980 è un anno di tristi lutti e grandi cambiamenti.
La cerimonia funebre del presidente Tito diventa un evento diplomatico senza precedenti, mentre il candidato repubblicano Ronald Reagan scalza Jimmy Carter dopo l’inizio della crisi con l’Iran. Il 2 agosto i terroristi fanno saltare in aria la stazione centrale di Bologna, uccidendo più di 80 persone. In un ospedale di New York, a dicembre, muore John Lennon, assassinato dall’ossessionato fan Mark David Chapman. Il mondo della musica piange l’ex Beatle, ma sorride al primo vagito di una band di Athens, i Rem e ascolta “Boy”, intenso debutto degli U2.
Nuove ondate sonore portano avanti, cambiando direzioni e sentieri, la lezione arrabbiata e sboccata del punk che, dopo l’iniziale sfogo elettrico, inizia ad aprirsi verso un intellettualismo sempre più impegnato.
E’ il 1980 quando esce un triplo Lp, Sandinista!, che esprime al meglio le idee brillanti di un ex-gruppo punk, i Clash, che hanno abbandonato i loro violenti inni di rivolta stradaiola per abbracciare testi ad alto contenuto politico e un sound totale e cosmopolita.
Sandinista! è un disco seminale, che genera tutte le “patchanka” del mondo attraverso una musica forse utopica e romantica, ma sicuramente forte e globale. I Clash preferiscono un approccio cosciente, senza barriere, capace di fondere insieme culture musicali ed esperienze sociali di diversa estrazione in un’unica sintesi unitaria di grande spessore.
Nelle parole di Joe Strummer, il senso di una voce musicale forte: “Non mi piace che si facciano passare i Clash per un gruppo che ha fatto promesse e non le ha mantenute. Noi non abbiamo promesso niente. Abbiamo solo cercato di risvegliare l’attenzione su una serie di cose che ci sembravano sbagliate. Quelle cose sbagliate esistono ancora e i Clash no. Questo che significa? Che abbiamo perso? Non lo so. Certamente, i Clash sono stati una voce forte. Se hanno cambiato la vita di una sola persona, hanno raggiunto il loro scopo”.
E’ forse questo approccio che ha portato il gruppo di Joe Strummer a diventare “l’unica band che conta”? In parte sì. In parte, tuttavia, c’è la musica che avvolge tutto questo: “Io vorrei almeno che non si dicesse che i Clash sono stati solo un gruppo punk. Il punk è uno spirito molto più ampio della musica grezza e semplice che solitamente si identifica con quella parola. I Clash sono stati un gruppo di fusione, non una band di genere. Abbiamo mischiato reggae, soul e rock and roll, tutte le musiche primitive, in qualcosa di più della somma dei singoli elementi. Soprattutto, in qualcosa di più del semplice punk di tre accordi”.
Benvenuti al Clash Social Forum.
Dalla Westway…
1974. In un palazzo nel quartiere di Clapham, South London, un ragazzo di quasi vent’anni sfoga tutta la sua carica su un’approssimativa chitarra elettrica, suonando pezzi dei Rolling Stones.
Il giovane Mick Jones (Londra, 26/06/1955) non ha avuto un’infanzia felice: a soli otto anni ha dovuto affrontare il divorzio dei suoi genitori, rimanendo affidato per molto tempo a una bambinaia di nome Stella.
Mick ottiene voti discreti alla Strand School di Brixton Hill, ma è ben consapevole delle sue condizioni sociali ed economiche e, così, può soltanto sperare di rincorrere la sua grande passione: il rock and roll.
Il dodicenne Jones spende tutto quello che ha per dischi, riviste e concerti ed è follemente innamorato di Johnny Thunders, chitarrista delle New York Dolls, immaginandosi come lui, a calcare i palcoscenici da autentica rockstar. E’ il sogno di una vita, alimentato dalla determinazione ad uscire dallo squallore del ghetto della periferia londinese.
Deciso più che mai, Mick Jones compra la sua prima chitarra elettrica per sedici sterline e mette immediatamente in piedi un proprio gruppo insieme al bassista Tony James. I Delinquents adottano un sound grezzo e fragoroso, molto simile a quello degli MC5, e il giovane Mick dimostra subito di aver sviluppato una buona tecnica chitarristica.
Il suo repertorio è, ovviamente, ricco di cover (New York Dolls su tutti), ma la neonata band riesce a registrare un demotape con il nuovo nome di London SS.
1975. Al 430 di King’s Road ha da qualche anno aperto i battenti Sex, una boutique estrema voluta da Malcom McLaren (già manager delle New York Dolls) e dalla designer Vivienne Westwood. Nell’aria di Londra c’è un forte odore di cambiamento e, così, il negozio diventa un vero e proprio centro in fermento dove si radunano giovani dall’abbigliamento provocatorio e fuori dagli schemi. Tra i frequentatori della boutique, Steve Jones e Paul Cook, ma, soprattutto, Bernie Rhodes, collaboratore dello stesso McLaren.
Rhodes fiuta con astuzia una prossima rivoluzione musicale, consapevole che il rock verrà presto superato dagli echi americani di nuove band come Ramones e Television. Una rivoluzione non soltanto musicale, ma anche di costume, sociale che inizia il suo inesorabile cammino con il primo concerto della nuova band di McLaren, i Sex Pistols, il 6 novembre alla St.Martin School.
Bernie Rhodes capisce al volo lo spirito del suo tempo e, dopo aver incontrato Mick Jones, diventa il manager dei London SS che, nel frattempo, stanno provando con un nuovo cantante, di nome Paul Simonon.
Paul Simonon (Londra, 15/12/1955) nasce nel quartiere giamaicano di Brixton e cresce per le strade, abituato alla guerriglia urbana e agli scontri fra gang. Frequenta per poco tempo la Effra Primary School, ma dimostra subito di avere una buona predisposizione per la pittura. Dopo una parentesi di un anno in Italia, il tredicenne Paul abbandona qualsiasi tentativo scolastico e inizia a lavorare a Portobello Market.
Vivendo nella zona di Brixton, Simonon assimila il ritmo del reggae e dello ska, e si appassiona alla musica che, in poco tempo, diventa un’occasione di rivincita personale quando, appunto, viene invitato dall’amico Jones a cantare nei London SS.
Paul non sa cantare e, soprattutto, non conosce né gli Stooges né le New York Dolls, ma colpisce Rhodes con il suo look da skinhead e, difatti, è l’unico membro che resta in contatto con Jones dopo il precoce scioglimento della band.
Mentre Simonon impara a suonare il basso sul disco d’esordio dei Ramones, Mick Jones recluta uno strambo e aggressivo chitarrista di nome Keith Levene e viene incitato da Rhodes a completare la nuova formazione con un cantante dalla grinta giusta. Mick e Paul, così, vanno a un concerto di un gruppo di rock-blues chiamato 101’ers, nelle cui fila milita un cantante-chitarrista dalla voce roca, dotato di una carica sorprendente.
John Graham Mellor (Ankara, 21/08/1952), figlio di un diplomatico del governo, trascorre i suoi primi anni di vita in giro per il mondo e inizia molto presto ad appassionarsi al cinema e, soprattutto, alla chitarra. Dopo il drammatico suicidio del fratello maggiore, John decide di abbandonare la qualità della sua vita piccolo borghese per trasferirsi a Londra dove, sulle orme dell’idolo-busker Woody Guthrie, inizia a suonare dentro le stazioni della metro.
Sono queste esperienze che lo portano ad adottare il nome d’arte di Joe Strummer, letteralmente “Joe lo strimpellatore”.
Nel 1974, insieme a Tymon Dogg e al batterista Richard Dudanski, Joe forma i 101’ers, proponendo un ordinario rhythm’n’blues in stile Them. La grande personalità di Strummer, tuttavia, guida la band che incrementa notevolmente l’attività live, realizzando brani sempre più corti e veloci tra cui “Keys To Your Heart”.
E’ proprio Joe che, dopo aver visto all’azione i Sex Pistols, capisce immediatamente che cosa sta fermentando nel ribollente calderone londinese: “Valgono di più due minuti di Johnny Rotten che due ore di 101’ers. Vedi, in questo momento stiamo parlando di un movimento di idee, mentre tu vedi solo un riff di chitarra sul palco. La differenza fra i 101’ers e i Sex Pistols è che forse noi siamo un buon gruppo e basta, mentre loro hanno un’attitudine completamente diversa”.
In una parola, il punk.
Estate 1976. Nei primi mesi del 1976, i 101’ers entrano in studio per registrare il loro disco d’esordio, ma accade un evento del tutto (?) imprevisto. Bernie Rhodes, fiutati gli entusiasmi di Strummer per i Pistols, lancia un ultimatum al chitarrista: 24 ore per decidere se iniziare un’avventura musicale del tutto nuova. Nelle parole dello stesso Joe: “Lasciare i 101’ers non è stato facile, ma ho capito che dovevo muovermi nel futuro e non nel passato”. E il futuro ha già organizzato tutto: un vecchio deposito della British Rail a Camden Town viene trasformato nel quartier generale dei quattro, completati dal batterista Terry Chimes (Londra, 5/07/1956). Iniziano, così, le prime, elettriche prove del gruppo che, nel frattempo, ha deciso all’unanimità il nuovo nome. E’ Simonon che, leggendo l’Evening Standard, propone una semplice parola che richiama una sensazione fragorosa di scontro.
E’ il 4 giugno: i Clash debuttano al Black Swan di Sheffield, di spalla ai Sex Pistols. Il concerto si rivela un disastro e viene aspramente criticato dai giornalisti presenti, nonostante la carica e la buona intesa della band.
Il 29 agosto, allo Screen On the Green di Islington, i Clash si esibiscono con Pistols e Buzzcocks, ma, terminato il concerto-raduno punk, leggono l’impietoso e lapidario Nme: “I Clash sono il genere di garage-band che dovrebbe essere rispedita immediatamente in garage”. Parole davvero profetiche.
Keith Levene ne ha abbastanza e, resosi conto di stonare all’interno del gruppo, abbandona tutti per formare successivamente i Public Image Limited con Johnny Rotten. Con una chitarra in meno i Clash diventano più compatti e lo dimostrano con una prestazione incendiaria a un altro festival punk che si tiene il 20 e 21 settembre al 100 Club di Londra.
Diversamente dai Pistols, Strummer e soci non vomitano nichilismo, ma si mettono dalla parte dei giovani proletari di provincia, incitandoli a canalizzare la rabbia in una rivolta personale e collettiva che trova degno sfogo nell’inno “White Riot”, ispirato dalla violenza scatenata nell’agosto durante il carnevale giamaicano di Notting Hill.
E’ “la velocità della Westway” di cui parla Mick Jones che dona ai Clash un’aureola di credibilità (Strummer e Simonon partecipano davvero agli incidenti di Notting Hill) che viene definitivamente messa in evidenza dalla famosissima fanzine “Sniffin Glue” di Mark Perry che scrive: “I Clash sono un modello positivo a cui ispirarsi, rispetto alla mancanza di ideali che caratterizza i Sex Pistols”.
Sarà anche priva di ideali, ma l’esplosione, alla fine dell’anno, è di Rotten e soci, che portano il caos in Inghilterra con l’Anarchy Tour. I Clash si accontentano del ruolo di spalla che, tuttavia, porta all’esasperazione il bravo ragazzo borghese Terry Chimes che abbandona la band dopo un violento lancio di bottiglie contro i piatti della sua batteria.
Sul Melody Maker, così, appare un’inserzione: i Clash stanno cercando un nuovo batterista.
Londra brucia
1977. Mentre continuano le selezioni alla ricerca di un nuovo batterista, Joe Strummer e Mick Jones trovano la definitiva intesa compositiva e sfornano nuovi tasselli sonori per completare il mosaico del primo album.
Grazie a un’insistente attività live in giro per l’Inghilterra, la fama dei Clash cresce esponenzialmente e Bernie Rhodes è lesto nel raccoglierne tutti i frutti. Il 29 gennaio la band firma un contratto con la Cbs per un valore di circa centomila sterline. L’affare spiazza nettamente l’underground punk tanto che Mark Perry arriva a scrivere: “Il punk è morto nel momento in cui i Clash hanno firmato per la Cbs”.
Sarà anche morto il punk, ma è solo dopo aver firmato che i Clash possono finalmente entrare in uno studio per registrare il loro primo disco. Stranezza: sarà un album che, per attitudine e semplicità, aiuterà non poco il mondo a capire che cosa significa punk.
Prodotto dal fonico Mickey Foote, The Clash (Cbs, 1977), insieme alla tardiva e differente versione americana del 1979, mette in musica lo “scontro” profetizzato dalla band. La cara, vecchia Inghilterra viene invasa da frenetici accordi al limite dell’elementare e messa completamente sottosopra da una banda di musicisti sboccati e rivoltosi. Il rock and roll, ripulitosi progressivamente dopo gli anni 60, può tornare, così, a sprigionare un nuovo alone di irriverenza, alimentata dal vorticoso furore punk.
I Clash chiamano alle armi la loro generazione di guerriglieri urbani, aizzandoli con la promessa, in stile Ramones, di una “White Riot” al fulmicotone. Strummer preferisce lo slogan, l’inno di “London’s Burning” che, su un riff impastato, diventa il vero manifesto dell’infuocato anno londinese.
Su questi veloci pilastri sonori si regge l’intero album che, così, è libero di allargarsi con il suo stile selvaggio e dinamitardo. I Clash sembrano divertirsi a smontare e rimontare il vecchio rock and roll quando partono brani che assomigliano a sgraziate e irriverenti marcette: il rullante di “Janie Jones”, la caracollante “Remote Control” e, ancora meglio, il pirotecnico finale corale di “Complete Control”.
Strummer e Jones riescono a confezionare un sound spartiacque che lega indissolubilmente la lezione di un tempo con il futuro che avanza. Il beat epocale di Who e Kinks, per esempio, viene rivisitato con intelligenza nel riff nevrotico di “Clash City Rockers” mentre certi fraseggi dei Creedence Clearwater Revival strizzano l’occhio al tuonante incedere di “I’m So Bored With The USA”.
I Clash, tuttavia, non copiano assolutamente nulla, al contrario hanno nelle mani la pala per seppellire ciò che è stato per trasformarlo in ciò che sarà. E’ questo il senso del tribalismo balbuziente di “What’s My Name” e, soprattutto, del riff di “Career Opportunities”, che scarica una valanga di terra sulla “Gimme Some Loving” dello Spencer Davis Group solo per il gusto di infilarci sopra la grezza croce del punk. E la croce continua a scaricare fulmini di adrenalina come la batteria impetuosa di “I Fought The Law”, rivisitazione di un classico dei Bobby Fuller Four.
La semplicità epica della “Garageland”, insomma, non aspetta altro che affossare del tutto i “vecchi dinosauri” del progressive e dell'hard-rock per declamare versi impegnati con il canto burino di Strummer e il riff sparato di Jones. La Lennon-McCartney del punk, tuttavia, non è soltanto un continuo assalto sonoro, ma riesce addirittura a non rimanere intrappolata nella sua stessa rabbia di tre accordi. I Clash, a differenza dei Pistols, hanno nel sangue il senso melodico (“Hate And War”) e, soprattutto, la voglia di sperimentare strade diverse.
E’ qui che, in The Clash, si incontra il sole fumoso di Brixton e il suo reggae pulsante che contamina splendidamente “(White Man) In Hammersmith Palais” e la cover di Junior Marvin/Lee Perry “Police And Thieves”, che vive quasi una vita propria grazie al groove del basso di Simonon.
Un disco, quindi, che segna la sua epoca, entusiasticamente riassunto da Pete Silverton di “Sounds”: “Credo che i Clash debbano a buon diritto sedersi al tavolo dei Beatles e degli Stones. Se non ti piace 'The Clash', non ti piace il rock and roll”.
Ad aprile, dopo una selezione estenuante di duecento batteristi, i Clash trovano il loro uomo.
Nicholas Bowen “Topper” Headon (Bromley, 30/05/1955) inizia a suonare la batteria da adolescente in giro per locali di black music. La sua passione è il jazz che considera “vera musica”, ma risponde all’inserzione sul Melody Maker per concedersi una “parentesi” nel mondo del rock and roll.
E Topper può permetterselo, perché il suo stile è tanto raffinato quanto potente. L’ideale per Joe Strummer, che dirà del nuovo arrivato: “Topper suonava dall’età di 15 anni con dei gruppi afroamericani di soul che venivano a fare il giro dei night-club dell’Inghilterra. Con il punk, la maggior parte dei batteristi erano capaci soltanto del minimo indispensabile, mentre lui aveva una tecnica molto raffinata. E’ stata una fortuna straordinaria, senza la quale non avremmo mai potuto immaginare di tentare tante cose diverse e di andare avanti così in fretta”.
Risolta con successo la questione batterista, i Clash possono, finalmente, iniziare a fare sul serio.
A maggio parte, infatti, il loro primo tour europeo - il “White Riot Tour”- da protagonisti, con il supporto di Buzzcocks, Slits e Jam. La tournée ha successo e si conclude in un trionfo al Rainbow Theatre di Londra, dove i Clash riescono, definitivamente, a portare il loro punk a una grande platea.
La band vive il suo primo momento d’oro e, nonostante l’arresto di Strummer dopo aver scritto “The Clash” con lo spray su un muro a Camden Town, sembra che nulla possa fermarne l’ascesa.
Mick Jones e Joe Strummer sentono che è arrivato il momento di estendere la reciproca intesa artistica e partono per un viaggio creativo in Giamaica. Accomunati dalla passione per la cultura rasta, i nuovi Glimmer Twins aprono il punk-rock feroce alle vibrazioni calde del reggae e scrivono brani come “(White Man) In Hammersmith Palais” (incluso nell’edizione americana del primo album) e “Safe European Home”.
E’, di fatto, l’inizio di un cambiamento che porterà i Clash ad abbandonare la terra bruciata di Garageland.
Lasciando Garageland…
1978. La rivoluzione del punk non potrebbe essere più coerente: muore prima di diventare vecchia.
Il 14 gennaio, ultima data del tour americano dei Sex Pistols a San Francisco, il disilluso Johnny Rotten si lancia in una cover svogliata di “No Fun” degli Stooges e grida al pubblico: “Questo non è divertimento, per niente”! Tre giorni dopo, la band dell’anarchia inglese cessa di esistere.
Il punk degli esordi lascia il campo a percorsi musicali diversi che arricchiscono la sua lezione con contenuti nuovi, dotati di maggiore imprevedibilità strumentale. La “nuova ondata” viene cullata ancora una volta dagli Stati Uniti dove scalpitano e strepitano gruppi come i Talking Heads e individualità brillanti come Patti Smith.
L’Inghilterra, in attesa della folgore-incubo Joy Division, guarda il vecchio-nuovo punk attraverso i mastodontici occhiali di Elvis Costello.
Joe Strummer è costretto a osservare il clima di cambiamento dalle finestre dell’ospedale dove è stato ricoverato a causa di una brutta forma di epatite. Nel frattempo la Cbs è fermamente decisa a lanciare i Clash sul mercato Usa e, così, inizia a fare pressioni sulla band per un sound meno grezzo e più adatto alle stazioni radio. Jones e Strummer, ovviamente, non ci stanno e cercano di mediare attraverso Bernie Rhodes, ma il manager cede alle insistenze della casa discografica che sceglie, per il secondo album, il produttore Sandy Pearlman (già con Van Halen e Blue Oyster Cult).
Le registrazioni iniziano ad aprile, ma il clima è molto teso, con i Clash a premere sull’acceleratore e Pearlman a levigare il sound in fase di mixaggio. A stemperare il nervosismo ci pensa un nuovo tour inglese – l’ “Out on Parole Tour” – che permette a Strummer e soci di sfogarsi sul palco insieme a Specials e Suicide.
I problemi, tuttavia, vengono soltanto posticipati, arrivando al punto di non ritorno ad ottobre, quando il mentore Bernie Rhodes viene licenziato a causa di troppi dissapori e somme di denaro non corrisposte.
Il frutto di tanta tensione, finalmente, nasce a novembre, ma, come ipotizzato, la critica e il pubblico punk non versano le stesse lacrime di gioia che avevano accompagnato il primogenito.
Give ‘em Enough Rope (Epic, 1978) è, infatti, il frutto controverso di un periodo nervoso di transizione. I Clash sembrano faticare nel trovare un quadro sonoro che sintetizzi al meglio tutte le loro vecchie e nuove influenze, e finiscono per realizzare un album in cui i pezzi del puzzle non sono perfettamente legati insieme. E’, in sostanza, un disco che testimonia le idee di una band che tenta di camminare sul filo delicato del rapporto-scontro tra passato e futuro. Strummer e Jones sanno che la musica dei Clash deve travalicare i confini del punk, ma non riescono a trovare la loro personale formula magica.
Give ‘em Enough Rope soffre, così, di una generale mancanza di coerenza e forza artistica, di certo non aiutata dallo stesso Pearlman che, in alcuni casi, rovina delle potenziali perle sonore con un mood radio-friendly. Il rock di maniera che piace tanto al pubblico americano piega la carica eversiva di The Clash nel più classico sound rollingstoniano di “Drugstabbing Time”.
Questa volta non basta il fatto che “tutti stanno cercando l’ultima gang in città”: l’ossessione per l’orecchiabilità commerciale snatura il rock and roll teppista di “Last Gang in Town”.
E’ vero, tuttavia, che i Clash peccano leggermente di autocompiacimento quando parte il riff sparato di “Guns On The Roof”, che ricicla per l’ennesima volta il beat della ditta Kinks-Who e persino lo stesso irriverente manifesto di “Clash City Rockers”.
C’è, quindi, di che storcere il naso perché, in fondo, la magnetica, splendida rozzezza garage sembra svanita, seppellita da una coltre di chitarre linde e pinte.
Questo, tuttavia, sottovaluterebbe troppo la vena di Strummer e soci che non sono affatto un fenomeno da baraccone punk, ma musicisti coraggiosi con idee affascinanti. Il segreto nascosto del disco sta, innanzitutto, nel talento melodico di Mick Jones, che ora si presenta nostalgico e romantico (il rock and roll toccante di “Stay Free”), ora scanzonato e rabbioso (il pop-barrelhouse ubriaco di “Julie’s Been Working For The Drug Squad” e l’inno provocatorio “All The Young Punks”).
Il rock and roll epico dei Clash sarà anche reso più lucido da una patina springsteeniana, ma trova i suoi giorni di gloria in un piccolo manipolo di brani che sa urlare con il giusto, esaltante fragore. La parabola del terrorista di “Tommy Gun” assalta l’ascoltatore con la sua batteria-mitragliatrice in uno splendido crescendo senza sosta di chitarre elettriche. La “rivolta bianca” torna alla sgraziata marcetta rock and roll in “English Civil War”, aperta dal riff in stile Chuck Berry.
I Clash, insomma, non hanno perso il cuore e la grinta dell’esordio e si dimostrano un gruppo intelligente quando fanno detonare la tosta “Safe European Home”, che fonde con grazia aggressiva il rullare hard di Headon con le vibrazioni reggae della chitarra gommosa di Jones.
Non sarà l’ “album dell’anno” di cui parla la rivista “Time”, ma Give ‘em Enough Rope è il primo, coraggioso passo dei Clash al di fuori dell’ex terra promessa di Garageland.
Give ‘em Enough Rope, nonostante le critiche della stampa britannica, arriva al secondo posto in classifica e vende mezzo milione di copie negli Stati Uniti che, come sperato dalla Cbs, sembrano apprezzare molto di più il secondo lavoro di Strummer e soci. I Clash cavalcano l’onda favorevole e cercano di consolidare la loro immagine di band rock inglese attraverso il film “Rude Boy”, specchio violento dell’Inghilterra che si prepara ad accogliere la Thatcher nel maggio 1979.
La band partecipa attivamente alle riprese di Hazan e Mingay che scelgono l’esibizione folgorante di Victoria Park (concerto organizzato dall’Anti Nazi League) dove le “Brigade Rosse”, guidate da uno Strummer sempre più leader, si lanciano in due versioni al fulmicotone di “London’s Burning” e “White Riot”.
“Rude Boy” alimenta, tuttavia, la sensazione che il capitolo punk sia, ormai, finito, lasciando virtualmente il testimone ai due roadie Green e Baker che spostano la sede dei Clash da Camden a Plimco, in un nuovo spazio vitale chiamato Vanilla.
E’ qui che Strummer e Jones riusciranno a cambiare pelle per entrare definitivamente nella leggenda.
Il profilo migliore
1979. Il punk, dopo lo scioglimento dei Sex Pistols, viene nuovamente accoltellato al cuore: il 2 febbraio il ragazzaccio Sid Vicious viene trovato morto dopo un’overdose fatale di eroina. Il suicidio scuote il mondo del punk britannico che guarda allo specchio l’immagine della fine segnata dal semplice, ma ineluttabile attributo “storico”.
Già si parla, infatti, di un nuovo movimento chiamato “post-punk” che troverà, a giugno, i suoi alfieri funerei nei Joy Division di “Unknown Pleasures”, disco che cattura il punk in una ragnatela claustrofobica di sintetizzatori e chitarre in feedback.
I puristi del punk tremano e Strummer sa che non può continuare ad accontentarli: “Non mi sono mai interessate le etichette. Io sono dalla parte dei tipi strani, sono dalla parte di chi sta dietro a un muro, io sono dalla parte di chi caratterizza veramente la propria individualità. I punk vogliono sicurezza e con noi non la trovano”.
E’ proprio per sfuggire a questa sicurezza limitante che i Clash decidono di partire alla scoperta dell’America. Incoraggiata dal buon successo di Give ‘em, la band intraprende un tour statunitense, provocatoriamente chiamato “Pearl Harbour Tour”. L’obiettivo di Strummer e Jones non è, infatti, quello di trasformare i Clash in una band di rock and roll americano, ma quello di immergersi nell’oceano creativo dei vecchi stili musicali a stelle e strisce. Non a caso tutte le date del tour vengono aperte da “I’m So Bored With The Usa”.
Obiettivi creativi a parte, la tournée si rivela un grande successo e molti concerti registrano il tutto esaurito, segno evidente di un forte amore appena sbocciato.
A maggio viene pubblicato l’Ep The Cost Of Living (Cbs, 1979), piccolo assaggio della nuova direzione sonora che i Clash stanno imboccando per superare il punk e diventare gruppo rock di più ampio respiro.
In “Capital Radio”, la progressione furiosa viene rallentata (e arricchita) da un raffinato senso melodico che trova espressione ancora più armoniosa nella ballata acustica per armonica dylaniana “Groovy Times”.
Il rock and roll trascinante e grezzo della cover di “I Fought The Law” (presente nell’edizione americana di The Clash, che esce proprio nel 1979) lascia il passo a quello più complesso e arioso di “Gates Of The West”.
I Clash, insomma, continuano a spingere sull’acceleratore, ma con una sempre maggiore consapevolezza sonora e testuale. La formula magica è, ormai, quasi pronta.
Terminato il tour americano, i Clash si preparano a tornare in studio per realizzare il loro terzo album.
Con le parole di Strummer: “Pensiamo che adesso sia il tempo di metterci a scrivere nuove canzoni, buttando tutte le palle che ci ronzano in testa fuori dalla finestra. Ci rifugiamo nella sala di Plimco e ci restiamo per un paio di mesi, scrivendo e registrando pezzi ogni giorno”. La Cbs, in realtà, sta premendo per una nuova uscita discografica, ma, questa volta, sono i Clash a scegliere l’uomo che si accomoderà in cabina di regia a dirigere i giochi.
Guy Stevens possiede la giusta dimestichezza con la musica americana delle radici e, soprattutto, vanta grande esperienza come ex-produttore di Who e Mott The Hoople. Il suo inserimento si rivela subito prezioso e crea quell’eccitazione giusta che mancava del tutto nelle sessioni del precedente album. Stevens, tuttavia, dipende gravemente da alcol e droghe che lo costringeranno ad abbandonare i Clash nel bel mezzo delle registrazioni, riprese in seguito dall’ingegnere del suono Bill Price.
Il duro lavoro è quasi finito, ma la band decide di ripartire in tour a settembre prima di dare gli ultimi, decisivi ritocchi al nuovo materiale. Il “Take The Fifth Tour” è un altro giro di 42 date negli Stati Uniti e riesce nell’impresa finale di consacrare in modo totale l’immagine dei Clash come grande rock and roll band.
Parallelamente all’apertura musicale, il gruppo si allarga con il tastierista Mickey Gallagher (già con i Blockheads di Ian Dury) e con la fotografa Pennie Smith, che immortala Paul Simonon mentre spacca il basso sul palco del Palladium di New York. Supportati da pezzi di storia americana come Bo Diddley e Sam and Dave, i Clash affermano, sera dopo sera, il loro nuovo, splendido “profilo” che, di fatto, porta alla luce quello che molti chiameranno “Clash sound”.
Eletto da Rolling Stone “disco più importante degli anni 80”, London Calling (Cbs, 1979) è l’album che consacra nel modo più adeguato la musica ribelle dei Clash.
I conservatori di Margaret Thatcher stanno ancora festeggiando la vittoria elettorale quando, a dicembre, viene pubblicato un album che è un'autentica bomba a mano contro l’Inghilterra perbenista e bigotta. Strummer, novello Garcia Lorca, non intende risparmiare niente e nessuno: dalla catastrofe nucleare al fascismo internazionale, dalla violenza criminale alle condizioni urbane. Il punk che ha raso al suolo intere città con il suo messaggio nichilista adesso deve mettersi da parte perché è giunto il momento di ricostruire. Londra, bruciata dal fuoco, ora fa il suo appello: “Londra sta chiamando, la guerra è stata dichiarata. L’età del ghiaccio sta arrivando, il sole sta zoomando sopra”. Le luci apocalittiche sulla nuova metropoli devono risvegliare le coscienze di tutti i giovani rock e la voce di Strummer non potrebbe essere più densa di fervore e passione a guida del martellare incombente e sinistro dell’omonimo brano di apertura.
E’ questo il legame con il loro rivoluzionario disco d’esordio, la cui rabbia feroce viene trasportata in una dimensione più profonda, viscerale e musicalmente innovativa. Non si potrebbe, altrimenti, spiegare il perfetto amalgamare di diciannove canzoni così diverse tra loro, tasselli autonomi di un quadro sonoro dipinto con il tocco di un vero maestro.
La band punk abbandona la velocità dei tre accordi in favore di un’abbondanza stilistica racchiusa in due Lp che, stando a sentire il foglio alternativo “Village Voice”, non si sentono dai tempi di “Exile On Main Street”. Eppure l’incedere di “Hateful” è punk e ricorda proprio la morte del suo eroe negativo, Sid Vicious.
Ma è come un processo devoluzionistico-autostradale: i Clash, in piena corsa punk, tirano all’improvviso il freno a mano e iniziano follemente a ripercorrere l’intero sentiero del rock and roll a marcia indietro. Ed è strano che gli stessi punk si comportino come i tanto odiati agenti della strada e reputino blasfema questa infrazione del codice. Il punk che viene mescolato con il vecchio, giurassico rockabilly americano come nella rivisitazione veemente del classico di Vince Taylor “Brand New Cadillac”.
I Clash non sembrano preoccuparsi del ritiro della patente, ma, al contrario, ci prendono gusto, sbeffeggiando qualsiasi purista con i fiati swing di “Jimmy Jazz”, che potrebbero stonare in qualsiasi album, tranne in questo. E’ la formula magica che Give ‘em Enough Rope cercava invano, ottenuta scassinando la gabbia senza futuro dei Sex Pistols e uscendo allo scoperto per dar vita a una sorta di “zibaldone” della musica moderna.
Le marcette funk-ska di “Rudie Can’t Fail” e “Wrong ‘em Boyo” si alternano a distanza in un botta e risposta di fiati scatenati, come per dire a tutti che, oltre il fumo di Londra, c’è un intero mondo da scoprire. Mondo di paesi e di suoni che parte dalla Spagna anti-fascista della ballad soul-rock “Spanish Bombs” per ritornare nell’ipotetica terra primigenia Kingston, guidati dal pifferaio magico Strummer quando intona lo spumeggiante reggae di “Revolution Rock” o dal basso pulsante di Simonon quando segna l’incedere dub di “Guns Of Brixton”.
La passione è l’arma in più di London Calling che, così, si distacca nettamente dall’approccio al reggae più freddo e borghese dei Police di Sting. “Chi si fotte le suore entrerà nella chiesa”: il rock and roll epico di “Death Or Glory” non potrebbe parlare in maniera più diretta. La voce dei Clash arriva immediata, irriverente e, soprattutto, suona come un melting-pot unico nel variopinto mondo del rock. L’approccio enciclopedico perde i suoi connotati pedanti e didascalici e acquista un tono divertente di splendida fusione tra vecchio e nuovo. Montgomery Cliff trova, così, il suo epitaffio ironico nell’r&b scatenato di “The Right Profile”, mentre Mick Jones gioca con la new wave anfetaminica di “Lost In The Supermarket”.
Impossibile schivare la tentazione di iniziare un classico gioco dei rimandi quando parte il piano liturgico di “The Card Cheat”, che si trasforma, progressivamente, in un’imponente ballata gospel memore del “wall of sound” spectoriano. Citazioni che, tuttavia, saltano completamente quando parte lo straordinario pop-shuffle di “Train In Vain” (mescola la leggenda di Robert Johnson con “Stand By Me” di Ben E. King), che vortica su se stesso accompagnato dall’armonica calypso e trascina tutto e tutti verso la fine del disco. Il brano sfuma lentamente e, in questo, è completamente diverso dall’album di cui fa parte: London Calling è, infatti, il lavoro che trasforma i Clash in leggenda e che regala alla musica rock un’esperienza a tratti irripetibile.
Dopo l’uscita di London Calling, i vecchi fan dei Clash si mobilitano per una feroce contestazione. Mentre i Crass li accusano di “tradimento ideologico”, un punk, dopo un concerto in Svezia, ferma Strummer e gli urla in faccia che “il nuovo disco piace anche a sua nonna”.
Nessuno, in realtà, sembra voler capire il senso di London Calling: il rock and roll di “Koka Kola” non è un inno al capitalismo, il doppio disco costa quanto un singolo e, soprattutto, i Clash non hanno nessuna intenzione di diventare un gruppo americano.
A dimostrazione di ciò, la band partecipa all’iniziativa benefica del “Concert for the people of Kampuchea” e organizza un concerto clandestino alla Acklam Hall di Londra nel giorno di Natale per omaggiare la vecchia comunità della Westway.
E’ vero che il singolo “London Calling” arriva al numero undici delle classifiche inglesi e il “Times” definisce i Clash “una delle prime cinque rock band più grandi di tutti i tempi”, ma Strummer e soci non perdono di vista il cuore di tutta la loro arte: suonare per divertirsi e per lanciare un messaggio importante a ogni singolo essere umano.
Clash Social Forum
1980. A gennaio parte un nuovo tour americano – il “16 Tons Tour” – che porta in giro il “peso” dell’ultimo album.
Ad aprire i concerti dei Clash c’è, tra gli altri, il musicista giamaicano Mickey Dread, che apprezza molto l’originale approccio al reggae della band, incitandola ad approfondire altre sonorità, come il dub.
La tournée è un vero successo e registra molti sold-out, attirando consensi sempre più entusiasti di critica e pubblico. Strummer e compagnia vivono un momento di fama e creatività aurea e, così, decidono di registrare altri brani agli Electric Ladyland Studios di New York. Amanti dei sobborghi metropolitani, i Clash prendono dimestichezza con il rap e, trascinati dal nuovo mentore Mickey Dread, si calano sempre più nelle sonorità profonde del dub. E’ il momento di un altro bagno creativo in Giamaica dove la band registra pillole del nuovo materiale negli studi Channel One e, soprattutto, ai Black Ark Studios, famoso tempio di Lee Perry nel quale non è mai entrato un gruppo bianco prima d’ora.
A maggio i Clash tornano in patria per proseguire il tour in Europa e trovano i vecchi fan ancora sul piede di guerra. Il punk, sempre più serrato e tirato, si è trasformato progressivamente nell’hardcore e Strummer arriva a un punto cruento di rottura ad Amburgo, fracassando la sua chitarra sulla testa di uno skinhead.
Nonostante l’ottima vena creativa, la band inizia a fiutare un’aria di tempesta a causa dei primi problemi seri di Topper Headon con la droga. L’attività live viene, quindi, interrotta e si diffondono voci sull’ipotetico scioglimento del gruppo.
I Clash, invece, sono vivi e vegeti e, ad ottobre, danno alle stampe un nuovo Ep, Black Market Clash (Cbs, 1980).
Il dieci pollici è un piccolo, ideale ponte che unisce passato e futuro della band, tra fragore chitarristico e nuove sperimentazioni.
Da un lato, infatti, si possono riascoltare i Clash sporchi e aggressivi che tanto rimpiangono i fan della vecchia era. Il punk (solo vagamente macchiato di ska) di “The City Of The Dead” e il rock and roll di “The Prisoner” sono le foto ricordo di un album che, tuttavia, verrà definitivamente chiuso di qui a poco. I Clash, in realtà, non sono mai stati dei punk duri e puri perché, altrimenti, non esisterebbe lo shout melodico di “Capital Radio” o l’alfabetismo strumentale della versione soul-blues di “Time Is Tight”.
L’altro volto dell’Ep è, invece, decisamente più interessante, perché è una sorta di sogno premonitore del nuovo evento discografico che si materializzerà entro pochi mesi. Strummer e Jones dimostrano di aver assimilato in fretta le lezioni di Mickey Dread e sciorinano un reggae molto più articolato e maturo di quello divertente e rocambolesco di London Calling.
“Bankrobber” e “Pressure Drop” avvicinano sempre di più i Clash all’isola caraibica e, questa volta, sembrano veramente consapevoli dei propri mezzi. “Justice Tonight/Kick It Over” è, infatti, il loro primo incontro vero e proprio con il dub e la sua atmosfera da mantra avvolgente sembra dirci che è andato molto bene.
Black Market Clash è, in definitiva, un Ep importante, espressione di una band che sta per stravolgere se stessa ancora una volta.
A Londra iniziano, nel frattempo, le sessioni di remixaggio dei nuovi brani registrati tra New York e Kingston, ancora una volta insieme a Mickey Dread e con l’ingegnere di London Calling, Bill Price. Il lavoro in studio è molto faticoso e, per circa un mese, assorbe tutta l’energia creativa di una band che sta spremendo completamente la propria anarchia artistica. E’ lo stesso Strummer che spiega il perché di un simile, mastodontico lavoro: “Probabilmente sul nuovo album siamo partiti in 36 diverse direzioni. Non eravamo sicuri di dove volevamo andare con tutte quelle canzoni. Infatti all’inizio doveva essere un classico album doppio; poi, quando tutto il materiale venne definito, decidemmo per il triplo, senza rinunciare a niente di ciò che avevamo suonato”.
Quest’abbondanza stilistica per “36 diverse direzioni” si trasforma nella deliziosa croce di Sandinista! (Cbs, 1980), che esce a dicembre in ben tre Lp. I Clash portano all’esasperazione l’irriverente varietà di London Calling e costruiscono un mastodontico cantiere sonoro, aperto e nervoso. E’ l’idea più ambiziosa che Strummer e soci abbiano mai avuto: mettere insieme, senza alcun criterio di selezione, tutte le idee-canzoni prodotte nel loro periodo più fertile di creatività. Una sorta di enorme soffitta dove posare con cura tutti i ricordi sonori, le esperienze di vita, i messaggi da lanciare al mondo. Una soffitta “album bianco” che, tuttavia, non risulti come un insieme separato di individualità beatlesiane, ma come un lavoro completo di una vera, unita rock and roll band.
Sandinista! è, allora, l’album rosso dei Clash, disco guerrigliero e rivoluzionario che nasce dalla rabbia del popolo oppresso del Nicaragua e cresce in un nuovo calderone di musiche che parlano i linguaggi più diversi. E’ l’approccio più aperto possibile che fa convivere il valzer barocco di “Rebel Waltz” con il reggae caldo e politicizzato di “One More Time”. Nasce la patchanka, territorio senza identità che si gode il sole cosmopolita e totale di una musica che non vuole saperne di etichette e regole prestabilite. E, dopo tutto, basta mettere il primo disco sul piatto e andare con ordine per rendersene immediatamente conto.
“The Magnificent Seven” apre letteralmente le danze con un bagno profondo nel funk e nel rap dei sobborghi, ma viene immediatamente seguito dall’irresistibile ode alla vecchia Motown di “Hitsville Uk”.
L’ascoltatore è già leggermente frastornato, ma i Clash incalzano sbeffeggianti e vanno avanti con il reggae di “Junco Partner”, lo scatenato r&b elettronico di “Ivan Meets G.I. Joe” e il rockabilly galoppante di “The Leader”. La sfida lanciata da London Calling è, insomma, ancora più marcata e, soprattutto, ha dalla sua parte una maggiore consapevolezza artistica.
La melodia pop diventa più ricercata nella classicheggiante fanfara di “Something About England”, mentre il gusto jazzy migliora in esecuzione nel trascinante swing a cappella di “Look Here”. Strummer raggiunge uno status di raffinato songwriter quando detta il tempo jazzato dello splendido crescendo notturno di “Broadway”.
I Clash brutti, sporchi e cattivi sono, ormai, un ricordo che viene evocato solo saltuariamente dai rock and roll scintillanti di “Somebody Got Murdered” e “Police On My Back”.
I nuovi Clash, invece, sono i musicisti impegnati e sperimentali del dub per violino di “The Equaliser”, della melodia calypso di “Washington Bullets” o dell’incedere sinistro di “Charlie Don’t Surf”.
“Tutti quei giovani nel corso dei secoli, hanno marciato allegri verso la morte, uomini politici osservavano orgogliosi, con le lacrime agli occhi”: quando parte lo ska-reggae di “The Call Up” non si può più pensare che i Clash siano soltanto una band di rock and roll.
Sandinista!, tuttavia, non ha soltanto profumati fiori (rossi) nel cuore. L’abbondanza esasperata paga un suo prezzo in una certa disomogeneità di fondo di cui London Calling era privo. Come il parlare per ore e ore, può avere un suo lato negativo: alla fine, qualche stronzata scappa sempre. L’album, infatti, soffre nel momento in cui viene troppo riempito con manipolazioni di studio (“Mensforth Hill” e “Shepherds Delight”) e remake dub (“One More Dub” e “Version Pardner”), per non parlare della scemenza dei bimbi che rifanno “Career Opportunities”.
Se London Calling preferisce il martellare sinistro e apocalittico, Sandinista! vira verso il terzomondismo per giga di “Lose This Skin”. Sono solo differenze ed è un bene essere costretti a parlarne perché vuol dire che i Clash hanno realizzato, ancora una volta, qualcosa di nuovo e di assolutamente elettrizzante.
Il triplo Sandinista! mette seriamente in difficoltà il giornalismo musicale inglese, non certo abituato a recensire una magniloquenza sonora di questo calibro. La difficile catalogazione dei trentasei brani porta riviste come l’Nme a critiche ferocissime nei confronti della band (Nick Kent parla di un “ridicolo auto-compiacimento”), ma non mancano gli applausi a scena aperta, come nel caso del foglio alternativo americano Village Voice. Sono, infatti, gli Stati Uniti ad apprezzare maggiormente l’album, trascinandone le vendite, nonostante il disinteresse della Cbs nel promuoverlo a dovere.
Lo stato di grazia dei Clash, tuttavia, avvista nubi sempre più nere all’orizzonte. I due inossidabili gemelli Mick e Joe, infatti, iniziano ad avere alcuni screzi a causa di un atteggiamento troppo pignolo da “rockstar” di Jones.
E’ solo l’inizio… della fine.
Morte o gloria?
1981-1982. I Clash hanno, ormai, conquistato i cuori dei giovani americani e le vendite continuano a salire di gran lena. Le finanze della band, tuttavia, non godono di buona salute e Joe Strummer sente che è arrivato il momento di curarle con maggiore attenzione. Il chitarrista ambisce al ruolo di leader indiscusso e, così, richiama il vecchio mentore Bernie Rhodes scontrandosi con la volontà di Mick Jones che lo aveva estromesso dal giro Clash tre anni prima.
L’equilibrio perfetto in seno al gruppo inizia, così, ad incrinarsi, ma la questione non sembra fermare i quattro che tornano in tour con la solita verve incendiaria. I Clash, alloggiati all’Iroquois Hotel, si immergono nella frenesia vitale di New York, tenendo due settimane di concerti al Bond’s di Times Square con i Grandmaster Flash in qualità di supporter. I biglietti vengono venduti alla velocità della luce e, quando la polizia dichiara la location inagibile a causa delle eccessive richieste, si verificano violenti scontri tra questa e decine di fan imbufaliti.
La “fasulla beatlemania” ha lasciato il posto a Strummer e soci che, negli Stati Uniti, affermano ancora di più la loro immagine pubblica anche grazie a numerosi passaggi televisivi e al documentario di Don Letts, “Clash On Broadway”. E’ una fama che nessun gruppo storico del punk ha raggiunto finora e che estende l’eco della band in tutto il mondo.
Ad aprile parte l’“Impossible Mission Tour”, nuovo giro europeo che tocca anche l’Italia con tre concerti storici a Sanremo, Milano e Firenze.
Il successo dei Clash, tuttavia, viene minato seriamente dal ricovero in clinica di Headon che provoca numerose interruzioni alle registrazioni, tra Londra e New York, dell’album che dovrà succedere a Sandinista!. Album che, nel frattempo, cerca di uscire dall’utero creativo con difficoltà e sofferenza.
Joe Strummer, dopo l’abbuffata di stili, vuole un deciso ritorno sonoro alle origini, cercando di far riaffiorare la vecchia anima della band, approssimativa e viscerale. Mick Jones, al contrario, è fermamente intenzionato a proseguire la strada sperimentale del precedente album. I vecchi gemelli del punk sono, ormai, divisi e vedono la realtà intorno ai Clash in maniere del tutto diverse. Più Mick cerca di dare al gruppo un’identità musicale unica nel suo genere, maggiori sono le pretese filosofiche di Joe, orientate verso una politica forte e utopica, abbinata a un sound nuovamente grezzo e diretto. Alla fine dell’anno i due vivono inattivi e col muso, attirando la stizza della stampa inglese che si vedrà “allegramente” chiudere la porta in faccia.
Questi Clash chiusi in se stessi continuano comunque a registrare il nuovo album agli Electric Ladyland, insieme al poeta beat Allen Ginsberg, ma devono fare i conti nuovamente con la bomba all’eroina Topper Headon, che viene arrestato all’aeroporto di Heathrow a dicembre. Bisogna fare in fretta… l’età del ghiaccio sta arrivando.
I Clash, ormai, non possono fermare l’inevitabilità del loro destino. Topper Headon, incapace di proseguire l’attività dal vivo, è costretto a lasciare la band alla metà del nuovo anno. Il batterista ricorda: “Mi ero perso, ero un grande fan di Keith Moon e lo avevo preso alla lettera: vivi rapido, muori giovane”. E’ Strummer che prende la sofferta decisione di licenziare Topper, dichiarando in seguito: “Era impossibile continuare in quella situazione. Come potevo scrivere testi contro la droga quando c’era lui dietro di me, completamente fatto?”. L’estro di Headon, tuttavia, riesce a compiere l’ultimo sforzo nel rispondere all’appello finale delle nuove registrazioni in studio e completa il suo lavoro prima di dare l’addio ai vecchi compagni d’avventura.
Prodotto dall’esperto Glyn Johns, Combat Rock (Cbs, 1982) è il canto del cigno dei Clash, che decidono di tornare al singolo Lp senza azzardare alcun tipo di nuova magnificenza sonora. La realtà è, infatti, ben diversa: Strummer e Jones sono ai ferri corti e non riescono più a rincorrere insieme l’inventiva del passato. Inventiva che, tuttavia, non sembra essere sparita del tutto.
Combat Rock è, per molti versi, il disco più “americano” della band, se non altro perché è sicuramente quello più curato, professionale, scintillante. La nuova strada del “rock da combattimento” non può più tornare indietro al grezzume del punk degli esordi e, allora, si rende conto che è necessaria una sorta di “maturità” rock and roll, che passa per un sound più luminoso e commerciale.
E’ la nuova “Radio Clash” che brilla nel buio della tensione interna al gruppo, trasmettendo non-stop nuove hit e intense ballate. Basta sintonizzarsi e rispondere all’appello: “Questo è un servizio di pubblica informazione per chitarra”. Strummer è sempre lì, novello Adrian Cronauer, a urlare ubriaco il suo “buongiorno, mondo” attraverso il furore martellante di “Know Your Rights”.
E si finisce per schizzare sull’attenti, da veri militanti del rock, quando Mick Jones si ricorda di essere un Keith Richards e fa partire il riff in accelerazione di “Should I Stay Or Should I Go”. Lasciando perdere, ovviamente, il fatto che opterà per la seconda.
Potrebbe essere visto come un blasfemo tradimento musicale, ma i Clash sembrano proprio decisi a esagerare la verve da sala da ballo di “Magnificent Seven”, cercando (e trovando) l’hook a prova di bomba di “Rock The Casbah”. Sono le regole base del funk che ipnotizzano “Red Angel Dragnet”, ma che, invece, sovraccaricano “Overpowered By Funk”, rendendola una ridicola anticipazione di Prince.
Il “rock da combattimento”, infatti, è come diviso, lacerato internamente da una lotta tra “forza” e “lato oscuro”. I timidi rock and roll corali di “Atom Tan” e “Inoculated City” sono segni abbastanza evidenti di stanchezza. Eppure, quando i Clash ritrovano la sperimentazione, è altrettanto evidente che siamo davanti a un gruppo che pesa e che non parla se non ha qualcosa di rilevante da dire. La forza scorre, allora, nell’avvolgersi dub di “Straight To Hell” e nell’inquietudine jazzata di “Death Is A Star”, dove Joe Strummer insegue i suoi fantasmi di morte e apocalisse per l’ultima volta.
Le spranghe e i bastoni della rivolta bianca hanno, ormai, lasciato il posto alle parole e alla voce. Giusto in tempo per farle entrare nel cuore di tutti.
Il suono più pulito di Combat Rock trova subito i favori del pubblico americano, che trascina l’album al settimo posto in classifica, ispirato dai due singoli killer “Rock The Casbah” e “Should I Stay Or Should I Go”.
I preoccupanti problemi finanziari vengono presto risolti e Bernie Rhodes spinge i Clash a intraprendere una nuova tournée negli affamati Stati Uniti. A giugno parte, così, il “Casbah Club Tour” (con il ritorno di Terry Chimes alla batteria) che, davanti alle ventimila persone del Palladium di Los Angeles, pare esorcizzare le irrecuperabili tensioni tra Strummer e Jones.
La popolarità è alle stelle e i Clash, ormai, hanno bisogno di spazi giganteschi come il Jkf Stadium di Philadelphia e lo Shea Stadium di New York dove suonano insieme a Santana e The Who.
E’ il regno dei cieli rock, ma tutti sentono che i ragazzi stanno per finire dritti all’inferno.
Dritto all’inferno, ragazzi
Terminato il lungo tour, i Clash decidono di prendersi una pausa per rifiatare.
La frenetica attività live aveva spinto Strummer e Jones a seppellire momentaneamente l’ascia di guerra, ma, ora, il rapporto tra i due sembra essere definitivamente svanito. Con Mick e Joe che evitano addirittura di parlarsi, Terry Chimes decide, per la seconda volta, di abbandonare la band a se stessa.
I Clash, tuttavia, vogliono andare avanti e scelgono l’ex Cold Fish Peter Howard, con il quale provano per un paio di mesi prima di ripartire per una serie di date americane.
Ma questa volta il palco non compie la sua magia e il gruppo appare così com’è, nervoso e privo d’energia.
E’ il 29 maggio del 1983: allo US Festival va in scena l’ultimo concerto dei Clash con Mick Jones.
Dopo un inquietante silenzio stampa, il 10 settembre l’Nme pubblica un comunicato: “Joe Strummer e Paul Simonon hanno deciso che Mick Jones deve lasciare il gruppo poiché si è allontanato dall’idea originale dei Clash. La band, comunque, continuerà a lavorare ritornando al progetto originario”.
La stella rossa è esplosa.
Clash Mark II
Alla fine del 1983, Mick Jones fa parte di una storia ormai passata, ma il chitarrista ci tiene a dire la sua, replicando al comunicato dell’Nme: “Quel che è riportato non corrisponde a verità. Volevo chiarire che non c’è mai stata nessuna discussione in merito alla mia cacciata dal gruppo. Io non sento di aver tradito nessuna delle idee originali del gruppo e continuerò a lavorare in quella direzione”.
Strummer e Simonon, nel frattempo, sono fermamente convinti nel proseguire l’avventura Clash, ma hanno bisogno, ancora una volta, di nuovi compagni di viaggio. Joe sta pensando di dedicarsi principalmente al canto e, così, assume due giovani chitarristi per dare linfa vitale alla band. Nick Sheppard (ex Cortinas) e Vince White, tuttavia, non hanno l’esperienza e la forza di Mick Jones e si riveleranno del tutto inadeguati per l’azzardato obiettivo di Bernie Rhodes di rilanciare i Clash nel panorama musicale degli anni 80.
Combat Rock, infatti, vende ancora molto bene e gli Stati Uniti richiamano a gran voce la band.
Rhodes, ovviamente, non vede l’ora di accontentare il pubblico americano e, all’inizio del 1984, organizza una sorta di tour-jukebox che porta in giro i grandi classici dei (furono) Clash.
Il ritorno alle radici profetizzato da Strummer si rivela, in realtà, un pretesto sconclusionato per darsi in pasto alla fame dei fan che continuano ad acclamare la band da Londra a Roma. Il cosiddetto “Clash Mark II” non ha una direzione artistica precisa, limitandosi a riaccendere l’antica fiaccola del busker di provincia che strimpella brani immortali nelle stazioni della metro o nei pub al fine settimana. Quest’umile serenità non può durare a lungo, soprattutto perché è lo stesso Joe che non trova risposte significative ai punti interrogativi che gravano sulla band, finendo per mollare tutto e scomparire per un po’ dalle scene. Ormai è rimasto solo Bernie Rhodes a credere nel futuro (commerciale) dei Clash ed è proprio lui che, senza volerlo, rifila la coltellata mortale al cuore dei suoi ragazzi.
Alla fine del 1985, il vecchio mentore decide di mettere mano ad alcuni brani composti da Strummer, mixandoli e registrandoli senza il suo permesso. Joe si dissocia e disconosce il lavoro del manager, ma è troppo tardi: il nuovo album dei Clash è già in circolazione.
Cut The Crap (Cbs, 1985) è un disco che non sta in piedi, perso nelle nebbie amletiche che imperversano intorno alla nuova band, priva degli unici, veri musicisti Jones e Headon.
Strummer, nelle note interne all’album, cerca di ritrovare la via dell’impegno, ma l’internazionalismo musicale è, ormai, andato per sempre. “Si può battere il vecchio sistema? No, non senza la tua partecipazione… Un cambiamento radicale comincia per la strada! Così se stai cercando un po’ d’azione… butta via la merda e vai lì”.
Ascoltando il rallentare melodico di “This Is England” si potrebbe anche aver voglia di seguire, ancora una volta, l’appello del pifferaio magico. In guerra contro l’Inghilterra della Thatcher. Quando, tuttavia, parte il rock and roll sintetizzato di “Dictator” o il punk rivisitato di “Dirty Punk”, si fa una fatica estrema ad alzare la mano davanti ai Clash e rispondere: “Io ci sto!”.
Il cambiamento non passa più per l’inquietante “età del ghiaccio”, ma attraverso l’inutile ska elettronico di “Three Card Trick”. La rivolta stradaiola di “White Riot” è diventata coralità da stadio nello pseudo-inno “We Are The Clash”. E’ l’azione che sembra scomparsa del tutto, almeno stando al synth-rock di “Are You Red..y” e “Life Is Wild”. Con Jones fuori dai giochi, il furore rollingstoniano diventa innocuo e finisce per annoiare, come nel riff di “Cool Under Heat”.
Questi non sono affatto i Clash e, allora, se si vuole parlare d’azione musicale, bisogna fare proprio come dice Strummer: buttare via questo disco e andare altrove.
E’, adesso, davvero la fine. Dopo l’uscita dell’album, un’ombra infamante viene gettata sul gruppo che, così, decide di sciogliersi. Definitivamente.
Cavalieri del rock and roll
Estromesso dai Clash, Mick Jones non si dà per vinto e continua con le sue nuove idee musicali.
Mentre Strummer insegue il fantasma brutto e cattivo della band originaria, Jones inizia, tassello dopo tassello, a comporre uno strano mosaico sonoro. Il chitarrista cerca, in sostanza, di ampliare ulteriormente l’intrigante lezione di Sandinista!, mescolando il rap suburbano con il funk da discoteca, il caldo e amato reggae con il sempreverde riff punk.
Questo cocktail fresco e innovativo prende il nome di Big Audio Dynamite, gruppo che Jones forma nel 1984 con l’amico dj Don Letts e che viene completato da Leo Williams al basso, Greg Roberts alla batteria, Dan Donovan alle tastiere.
La band non perde tempo ed entra in studio per registrare il disco d’esordio che – scherzi del destino – viene pubblicato dalla stessa Cbs e, soprattutto, nello stesso anno di Cut The Crap.
This Is Big Audio Dynamite (Cbs, 1985) è la dolce rivincita di Mick Jones, che dimostra di essere l’unico a poter portare avanti la più classica tradizione Clash. Mentre Strummer si perde in inutili rock and roll da stadio, Jones guarda al futuro attraverso brani che, per contaminazione, non avrebbero sfigurato su Sandinista!. L’impatto chitarristico di “The Bottom Line”, il reggae-blues di “X-Party” e le hit “E=MC2” e “Medicine Show” sono i primi, variopinti tasselli di una nuova, promettente avventura sonica.
Terminata ingloriosamente l’epopea dei Clash, Joe Strummer vive un periodo di crisi artistica che lo porta a non avere più le idee brillanti del passato.
Nel 1986 lo “strimpellatore” prova a rilanciarsi scrivendo “Love Kills” per il film di Alex Cox, “Sid And Nancy”, ma, soprattutto, riallacciando inaspettatamente il filo con il più ispirato Mick Jones che, nel frattempo, sta lavorando al secondo album della sua band.
Dopo quasi quattro anni, i vecchi gemelli del punk si ritrovano, così, ancora insieme per N. 10 Upping Street (Columbia, 1986), secondo album dei B.A.D. La gloriosa ditta, ovviamente, non può compiere miracoli, ma emana sprazzi di elettricità quando parte la morriconiana “Sightsee M.C!” o il ritmo da Love Parade di “C’mon Every Beatbox”.
L’operazione-nostalgia, tuttavia, si rivela solo un bagliore isolato perché Jones è troppo preso dalla sua musica che sta acquistando critiche positive e buoni risultati commerciali.
I B.A.D. girano il mondo in tour e, sull’onda dell’entusiasmo, pubblicano un terzo album, Tighten Up Volume 88 (Columbia, 1988), che, sulla scia del singolo “Just Play Music”, vira verso un mediocre funk da discoteca.
La verità è che Mick Jones soffre di una forma acuta di polmonite e deve fermarsi per un po’ di tempo.
Nel 1987, Joe Strummer tenta una nuova fortuna nel mondo del cinema e partecipa, come attore, al film western di Alex Cox, “Straight To Hell”.
La scommessa del chitarrista, tuttavia, è affidata alla composizione di diverse colonne sonore.
Walker (Cbs, 1988) mescola più o meno sapientemente accelerazioni rock e atmosfere latine, ma l’episodio più interessante è quello di Earthquake Weather (Cbs, 1989) che unisce, in stile Clash, folk elettrico, rock e reggae.
Strummer sembra, così, rinascere, fondando una band-meteora – la Latino Rockabilly War Band – con la quale torna sul palco per un tour inglese organizzato dall’associazione della sinistra anarchica Class War.
Le vendite degli ultimi album, tuttavia, procedono in maniera disastrosa, lasciando Joe in gravi difficoltà finanziarie e, soprattutto, in un altro momento di sfiducia in se stesso.
A parte la produzione di “Hell’s Ditch” dei Pogues (li seguirà anche in tour, prendendo momentaneamente il posto di MacGowan), l’ex leader dei Clash vive quelli che molti definiranno gli “anni desolati”. Strummer, infatti, si ritira dalle scene, passando tutta la prima parte degli anni 90 a suonare come dj nei rave e a registrare brani nella quiete della sua nuova farmhouse nella campagna del Somerset.
Superati i problemi di polmonite, Mick Jones ritorna subito ai suoi B.A.D con i quali registra il quarto album, Megatop Phoenix (Cbs, 1989). Il disco, prodotto dalla vecchia conoscenza Bill Price, prosegue sulla strada ballabile, ma convince di più grazie al talento melodico di Jones.
E’ l’ultimo lavoro della line-up originale che, all’alba del 1990, abbandona in blocco il chitarrista e il suo coraggioso progetto.
L’ex Clash, tuttavia, vuole andare avanti imperterrito e riforma la band con Nick Hawkins (chitarra), Gary Stonadge (basso) e Chris Kavanagh (batteria).
I cosiddetti Big Audio Dynamite II organizzano un tour europeo e, nel 1991, fanno il botto con The Globe (Cbs, 1991), che vende benissimo grazie al vibrante singolo “Rush” e all’uso del riff di “Should I Stay Or Should I Go” nella title track.
E’ l’ultimo sussulto per la carriera di Mick Jones, che non riuscirà più a ripetersi, pubblicando album sempre più modesti e dimenticabili fino alla decisione finale di tenere in piedi i B.A.D. come sound-system, in giro a far ballare i ragazzi nelle dance-hall di mezza Inghilterra.
E’ l’anima stessa di Jones, il cuore romantico e caldo dei Clash.
Nel 1998, dopo anni di tranquillo isolamento e svariati rifiuti all’idea di rimettere in piedi i Clash, Joe Strummer decide che è arrivata l’ora di tornare sulla strada del rock and roll.
Lo strimpellatore sta pensando seriamente, insieme all’ex chitarrista degli Elastica Anthony Genn, di formare una nuova band e, così, scinde il contratto che ancora lo lega alla Columbia.
Il progetto Joe Strummer & The Mescaleros prende progressivamente forma con l’innesto di Martin Slattery (tastiere e sax), Scott Shield (basso), Steve Barnard (batteria) e del polistrumentista Pablo Cook, decollando grazie a Tim Armstrong dei Rancid, che propone al gruppo un contratto-carta bianca con la sua etichetta Hellcat Records.
“Dedicato a tutti quelli che lottano per la libertà”, Rock Art And The X-Ray Style (Hellcat Records, 1999) è un disco multiculturale oltre che multimusicale. In dieci brani Strummer cerca di tracciare una visione di fine millennio che, tra passato e futuro, possa coniugare lo spirito rivoltoso delle radici con le nuove inquietudini urbane. Il viaggio internazionalista e terzomondista passa per il bastardo territorio clashiano, ma incontra un mix piuttosto disomogeneo di stili. Rock, reggae e ritmi africani non trovano la giusta coesione, ma Joe sembra avere idee molto più chiare rispetto al passato. “Sandpaper Blues”, “The Road To Rock And Roll”, il lungo singolo “Yalla Yalla” e la ballata strappalacrime “Willesden To Crickelwood” sono i primi capitoli di una storia che potrebbe rivelarsi divertente e stimolante.
Dopo l’uscita dell’album d’esordio, Joe Strummer porta i Mescaleros in tour, registrando un ottimo successo di pubblico.
La fama consacrata del suo ex gruppo aiuta il chitarrista, stimolato sempre più a continuare il nuovo progetto musicale, nonostante l’abbandono di Genn, Cook e Barnard.
Strummer richiama, così, il vecchio amico busker Tymon Dogg (violino e chitarra) e si chiude ancora in studio per registrare il secondo album.
Global A Go Go (Hellcat Records, 2001) prosegue il viaggio multirazziale e, questa volta, sembra che la direzione da intraprendere sia più chiara e spigliata. La lezione confusa e felice di Sandinista! crea un album variopinto e improvvisato, che allarga le maglie sonore come se fosse la valigia di un cittadino del mondo.
Strummer insegue cieli d’Irlanda nella giga folk and roll di “Johnny Appleseed” e, soprattutto, nel lunghissimo lamento tragico di “Minstrel Boy”. Tra bonghi africani e trame calypso, il disco passa con naturalezza da un continente all’altro, fino all’approdo al solito calore nero, nella terra del reggae pianistico di “At The Border, Guy” e dell’incedere avvolgente di “Mondo Bongo”.
Lo strimpellatore torna, insomma, folksinger e confeziona un lavoro più raffinato e ricercato, bandiera di un mondo musicale privo di confini precisi.
Tra il 2001 e il 2002, i Mescaleros tornano in tour negli Stati Uniti, riscotendo consensi sempre più entusiasmanti. Lo Strummer indeciso delle prime colonne sonore sembra, ormai, un pallido fantasma a confronto con il nuovo Joe, rinato menestrello del terzo mondo.
La ritrovata iperattività porta a un terzo album, Streetcore (Hellcat Records, 2003) che, purtroppo, è l’atto finale di un’intera vita.
Il raffinato sound multirazziale di Global A Go Go resta, questa volta, sullo sfondo e lascia campo libero al rock and roll meno depurato di “Coma Girl” e “Arms Aloft”, che strizza l’occhio alla vecchia energia dei Clash.
Strummer ha trovato la sua formula vincente, scrivendo di getto nuovi folk apocalittici, tra la morbidezza acustica di “Long Shadow” e l’incalzare di “Burnin’ Streets”. La vena poetico-letteraria ritrova la magia accorata della cover di “Redemption Song” e finisce per affascinare con la cinematografica deriva notturna di “Midnight Jam”. Musica che resta “di confine”, con i Clash ancora vivi nel cuore, nella speranza di aver dato qualcosa per un mondo diverso.
Clash 77 Revisited
Terminata definitivamente l’avventura, per i Clash arriva il momento di aprire tutti gli scrigni segreti.
The Story Of The Clash (Cbs, 1988) inizia, così, la celebrazione del periodo più creativo di Strummer e soci, soprattutto con la splendida contaminazione reggae di “Armagideon Time”.
E’ tempo, insomma, di chinarsi sui libri e ripassare la storia rovente del punk inglese.
Manuali del corso, Crucial Music: The Clash 1977 Revisited (Sony, 1990) e l’imponente Super Black Market Clash (Epic, 1993), che estende l’Ep di tredici anni prima con b-side e rarità, tra cui l’epica “1977”, dove Strummer, sul riff incalzante, urla sguaiato il famoso slogan: “Niente Elvis, Beatles o Rolling Stones nel 1977”.
E lasciamo perdere che, nel 1993, il riff rollingstoniano di “Should I Stay Or Should I Go” è famoso in tutto il mondo per uno spot della Levi’s. Quelli erano decisamente altri anni.
Nel 1994 esce On Broadway (Sony, 1994), cofanetto di tre cd che contiene il rock aggressivo di “One Emotion” e le cristalline ballate “Every Little Bit Hurts” e “Midnight To Stevens”.
…All’Eternità
Nel 1999 viene pubblicato, finalmente, il primo e unico disco dal vivo dei Clash.
From Here To Eternity (Sony, 1999) è il degno testamento musicale di una band che, sul palco, ha dato tantissimo con calore, sudore ed elettrica energia. Nel momento in cui parte la roboante “I Fought The Law”, si torna indietro alla furia grezza di Strummer e soci, quando la missione principale era incendiare le strade per scuotere le coscienze. L’urlo impastato di “London’s Burning” e il riff di “Clash City Rockers”, le prime contaminazioni con il reggae di “White Man In Hammersmith Palais” e “Armagideon Time”.
Dal fuoco di Victoria Park ai grandi concerti americani del 1982, il disco è il miglior itinerario di viaggio per scoprire il cuore dell’“unica band che conta”.
Nel 2001 i Clash ricevono a Londra l’Ivor Novello Award per il loro innegabile contributo dato alla musica inglese. Anche se solo per ritirare il premio, Mick Jones, Joe Strummer, Paul Simonon e Topper Headon si ritrovano insieme su un palco. Non succedeva dal 1982.
I quattro sembrano sereni, appagati, ma la risposta alle sempre insistenti proposte di reunion è sempre la stessa: la vecchia band è ormai una leggenda e nessuno ha intenzione di scalfirla.
Nel novembre 2002, tuttavia, Mick Jones raggiunge Joe Strummer alla Acton Town Hall di Londra per un concerto benefico in favore del sindacato dei vigili del fuoco inglesi. Il solito impegno sociale si tinge di un colore del tutto particolare e inaspettato. “Bankrobber”, “London’s Burning” e “White Riot” sono i sussulti di un piccolo momento che i due musicisti non condividevano da quasi vent’anni.
E’ l’ultimo saluto in musica al vecchio fratello gemello.
Il 21 dicembre, in un tranquillo pomeriggio nella sua casa del Somerset, Joe Strummer, seduto in cucina, viene stroncato da un infarto.
Nel 1977 cantava: “Londra brucia di noia, sono nel sottopassaggio e cerco casa mia. Corro nel vuoto pietrificato perché sono solo”. Il suo cuore ha bruciato per cinquant’anni… ora lascia le fiamme a noi, perché non è solo e ha trovato casa.
Outro - I Diecimila Giorni
1979. Joe Strummer: “Le riserve di petrolio dureranno ancora diecimila giorni”.
Giornalista: “Vuoi dire che ci restano diecimila giorni per trovare una fonte d’energia alternativa?”.
Joe Strummer: “No, voglio dire che ci rimangono ancora diecimila giorni per fare rock and roll”.
In memoria di Joe Strummer (1952-2002). Riposa in pace, fratello strimpellatore.
THE CLASH | ||
The Clash (Cbs, 1977) | 8 | |
The Cost Of Living (Ep, Cbs, 1979) | ||
Give 'Em Enough Rope (Epic, 1978) | 6,5 | |
London Calling (Cbs, 1979) | 9 | |
Black Market Clash (Ep, Cbs, 1980) | ||
Sandinista! (Cbs, 1980) | 8 | |
Combat Rock (Cbs, 1982) | 6,5 | |
Cut The Crap (Cbs, 1983) | 4 | |
The Story Of The Clash (antologia, Cbs, 1988) | ||
Crucial Music: The Clash 1977 Revisited (antologia, Sony, 1990) | ||
The Singles Collection (antologia, Sony, 1991) | ||
Super Black Market Clash (Epic, 1993) | 7 | |
On Broadway (Sony, 1994) | ||
From Here To Eternity (Live, Sony, 1999) | 7,5 | |
The Essential Clash (antologia, 2cd, Sony, 2003) | ||
The Singles Box (antologia, Sony, 2006) | ||
The Singles (antologia, Sony, 2007) | ||
BIG AUDIO DYNAMITE (B.A.D.) | ||
This Is Big Audio Dynamite (Columbia, 1985) | 7 | |
N.10 Upping Street (Columbia, 1986) | 6,5 | |
Tighten Up, Vol. 88 (Columbia, 1988) | ||
Megatop Phoenix (Columbia, 1989) | ||
Kool-Aid (mini-cd, Cbs, 1990) | ||
Ally Pally Paradiso (Live, 1991) | ||
The Globe (Cbs, 1991) | ||
The Lost Treasures of B.A.D. (antologia di singoli e remix, 1993) | ||
Higher Power (Columbia, 1994) | ||
Planet B.A.D. Greatest Hits (antologia, 1995) | ||
F-Punk (Radioactive, 1995) | ||
Superhits (antologia, 1999) | ||
CARBON/SILICON (MICK JONES + TONY JAMES) | ||
The Last Post (Audioglobe, 2007) | ||
JOE STRUMMER | ||
Elgin Avenue Breakdown (1981) | ||
Walker Soundtrack (1988) | ||
Elgin Avenue Breakdown Revisited (postumo, 2005) | ||
JOE STRUMMER & THE MESCALEROS | ||
Rock Art And The X-Ray Style (Hellcat Records, 1999) | 6 | |
Global A Go Go (Hellcat Records, 2001) | 7 | |
Streetcore (Hellcat Records, 2003) | 7 |