Beck è l'artista che più di ogni altro ha esteso i confini del rock negli anni 90. E' l'uomo che ha preso folk, blues, rock, rap, bossa nova, funky, musica caraibica e mille altri ingredienti ancora, frullandoli alla massima velocità per ottenere un cocktail mai sentito prima. E' il classico antidivo, magro, schivo, quasi timido e impacciato nelle interviste, diventato giovanissimo idolo della "X Generation" riuscendo poi a mantenere, anzi forse ad aumentare, negli anni l'ammirazione un po' di tutti, dagli "indipendenti" delle generazioni successive agli ascoltatori mainstream. Beck il personaggio, Beck l'inventore, Beck da cui ci si aspettano miracoli a ogni uscita, anzi, a ogni canzone.
Partiamo dall'inizio. Beck Hansen nasce nel 1970 a Los Angeles ed è figlio d'arte: suo padre è un musicista bluegrass, sua madre è un'attrice del giro della Factory di Andy Wahrol, il nonno materno Al Hansen è uno dei principali esponenti del movimento Fluxus. Così il piccolo Beck, fin da quando impara a parlare, cresce immerso nella musica fino al collo e nella curiosità per l'avanguardia. La multietnicità e l'ambiente di Los Angeles, denso di tutte le salse dello spettacolo, fanno il resto.
Troviamo l'adolescente Beck sballottato tra blues e folk, che segneranno il suo punto di partenza creativo. A 18 anni si trasferisce a New York, come un novello Dylan, suonando nei club della Lower East Side e diventando parte della cosiddetta scena anti-folk di quegli anni.
Nel 1990, soddisfatto ed evidentemente arricchito da quell'esperienza, torna a Los Angeles e comincia, appena ventenne, a sfornare incisioni su incisioni casalinghe, con l'aiuto di amici e suonando da solo quasi tutti gli strumenti. Non ci sono confini di genere, non c'è blocco mentale di sorta. Tutto è permesso, partendo dal blues e passando per il folk dell'adolescenza viene tirato dentro veramente di tutto.
Dopo nastri autoprodotti pubblica un Ep "A Western Harvest Field By Moonlight" e due album, Golden Feelings e il suo vero successo underground Stereopathetic Soulmanoure.
Molte di queste registrazioni sono già hit alla nascita, sfornati come il fornaio sforna il pane la mattina o come si beve un bicchier d'acqua: come se fosse la cosa più naturale del mondo. Da quelle sessioni tra la cucina e la camera da letto nasce "Mtv Makes Me Want To Smoke Crack", singolo dal titolo programmatico che lo impone all'attenzione degli ambienti indipendenti che in quegli anni stanno dando poderosi segni di vita.
Non si fa però in tempo a vederlo nascere come fenomeno underground che un'altra di quelle registrazioni fatte un po' sul serio e molto per gioco, dal titolo "Loser", esplode in faccia al mondo diventando di punto in bianco uno dei più grandi, se non il più grande, singolo degli anni 90 e scaraventandolo direttamente tra le superstar.
Che "Loser" sia uno dei più grandi singoli del decennio lo si capisce immediatamente al primo ascolto nel 1993 (la registrazione risale però al '91). Si sa già che si potranno ascoltare singoli fino all'inizio del nuovo millennio, ma nessuno come questo potrà avere l'impatto quasi fisico, la portata innovativa, la forza trascinante dance/hip-hop e rock allo stesso tempo, riuscendo a non essere banale neanche per un istante.
Dopo "Loser" niente nel pop è più uguale a prima. La bandierina che segna il confine di "ciò che è possibile fare" è stata spostata una spanna abbondante in avanti da un ragazzo che quando ha inciso questa canzone aveva appena ventuno anni.
La Geffen lo mette immediatamente sotto contratto su consiglio del suo amico Karl Stephenson (compagno di quelle sessioni e anche coautore di alcune canzoni per quanto riguarda gli effetti sonori), che era stato assunto alla casa discografica come produttore. Stephenson, prendendo con minimi ritocchi quelle registrazioni, gli fa confezionare il suo debutto su major sulla lunga distanza dal titolo Mellow Gold .
"Loser" apre l'album con una base blues di slide guitar campionata, una batteria indolente, un testo rappato "fuori di testa" quanto basta e un ritornello contagioso come il morbillo sull'orgoglio di essere perdenti. Il resto non è da meno, commerciale e anticommerciale non si sono mai sposati così bene. Tra numeri folk, chiaramente a base Dylan, ma spostati nelle periferie suburbane tomba del sogno americano, come in "Pay No Mind (Snoozer)", e blues contaminati da ogni sorta di campionamento ed effetto sonoro, come per "Wiskeyclone Hotel City 1997" e "Truckdrivin Neighbours Downstairs", materiale da discoteca assolutamente stralunato quale "Beercan" e la stessa "Loser", musica indiana, rock e hip-hop sparsi in mille rivoli, quest'album raccoglie praticamente tutto ciò che la musica popolare ha prodotto nei trent'anni precedenti. Tutto meravigliosamente chiaro e visibile, ma spezzato e ricomposto in figure sempre nuove, irriconoscibili e conosciute allo stesso tempo.
Influenze? Dylan su tutto, ovviamente, ma anche Devo (Beck dichiarerà che ammira queste due fonti nella stessa maniera), Dinosaur Jr., noise-rock e low-fi, Public Enemy e la lucida - divertita - follia di Beastie Boys, Rolling Stones e Captain Beefheart, elettronica e musica indiana, ma in generale tonnellate di blues e hip-hop di ogni tipo. Ogni cosa è filtrata attraverso la lezione onnivora di Frank Zappa, forse il vero denominatore comune/deus ex machina. Tutto fa brodo, perché Beck riesce a usare tutto come se fosse il "suo" linguaggio da sempre, divertendosi a ricomporlo ogni volta in modo nuovo, con la stessa spontaneità di un bambino che gioca coi cubi.
La X-Generation a cavallo tra 80 e 90 trova in Beck anche un simbolo: praticamente è un nerd (o qualcosa che gli somiglia molto) con il suo aspetto dimesso e la sua (falsa) timidezza, confonde generi e stili senza riguardi per creare qualcosa di non-mainstream che allo stesso tempo è mainstream ma riesce a nasconderlo benissimo, nei testi è ermetico (per qualcuno semplicemente furbo) e ironico quanto basta per cantare l'orgoglio dei perdenti proprio per una generazione che è confusa e si sente perdente. Insomma, ha il phisique du role e le parole adatte per quei ragazzi. L'uomo giusto al posto e al momento giusto.
Dunque, arriva il successo e grazie anche ai suoi video strampalati e imprevedibili come la sua musica Beck diventa anche un eroe di quella Mtv che gli faceva "venir voglia di fumare crack".
Tutti pensano che l'inizio di questo artista sia già abbastanza, ma egli riesce a spiazzare tutti nel 1996 con il nuovo album Odelay. Nell'esperanto di Beck arrivano nuovi inaspettati linguaggi, come musica latina, party-music anni 60 e 70, punk e elettronica ancora più scoperta, che nelle sue mani si inseriscono con inaspettata naturalezza sugli elementi preesistenti. Odelay è a parere di molti il miglior disco di Beck, grazie anche alla riuscitissima collaborazione con i Dust Brothers alla produzione, quello che gli schiude definitivamente le porte dello star-system, e ascoltandolo è facile comprendere perché.
A parte il fatto di riuscire a superare in qualità il pur rivoluzionario esordio, c'è di tutto per tutti. "Devil's Haircut", l'hit che apre il disco, è uno strano mix tra influenze di lounge-music seventies, blues, campionamenti non campionamenti (Beck in questo disco non campiona le chitarre ripetitive ma - come affermerà in svariate interviste - suona proprio in quel modo), tastiere dal suono analogico, suonate sempre da lui con uno stile tra l'indolente e il jazzy.
Il risultato è affascinante e difficile da dimenticare. Le due canzoni successive "Hotwax" e "God Only Knows" sono più scopertamente blues pur con i soliti inserti paradossali a far sempre capolino, country, low-fi, hip-hop di volta in volta. "The New Pollution", a seguire, è il miglior pezzo dell'album, fatto di pura party-music d'antan, chiaramente di derivazione brasiliana (quella bossa nova che di lì a poco diverrà il nuovo amore dell'artista), sassofoni jazz, una voce dai toni bassi semplicemente affascinante e la solita influenza hip-hop nella ripetitività della sezione ritmica basso-batteria.
Non mancano i mantra lentissimi e allucinati, che sono uno dei tanti segni distintivi di Beck, come in "Derelict" e nello struggente folk di "Jack-Ass" e "Ramshackle". Semplicemente indimenticabili sono poi "Novacane" e "Where Is At" (che troverà un numero imprecisato di imitazioni). La prima è l'hip-hop che incontra il low-fi e la musica elettronica. La seconda è il perfetto inno rap da concerto, con tanto di battimani e suoni di tastiera analogici e caldi di eccezionale personalità come in tutto l'album, con un perfetto ritornello dove Beck denuncia "il demone" che lo spinge irrefrenabilmente alla bulimia musicale: "Gotta ten thousand devils in my microphone" ("Ho diecimila diavoli nel mio microfono"). In questo disco c'è persino il punk di "Minus" e il rap di chiara derivazione Beastie Boys, ma con inserti bossa nova (!), elettronici, rumoristi e disco, di "High 5 (Rock The Catskills)".
Il tutto può essere definito anche semplicemente pop, ma di certo è pop non convenzionale, mille miglia distante dalle piatte produzioni per adolescenti ai primi calori e che, a differenza di quelle, non si scorda tanto facilmente. Digerire la musica dei trent'anni precedenti e rigurgitarla in forma nuova e perfettamente coerente (è questo l'incredibile) con la semplicità apparente con cui lo fa Beck nei primi due album è facile intuire come possa risultare quantomeno affascinante per una intera generazione di ascoltatori "non convenzionali", che musicalmente si era trovata persa nel nulla del mainstream a cavallo dei primi anni 90, trovando sfogo nel cosiddetto indie-rock o nella verve sanguigna dell'hardcore, nell'hip-hop o nel passato degli anni 70 e 60, tutti elementi di cui ora Beck si fa portatore e rivelatore presso le masse che di tutto ciò hanno avvertito solo echi lontani.
L'anno successivo (1997) Beck compone tre canzoni per un piccolo film indipendente dal titolo "Deadweight". La title track svela il nuovo amore di Beck, ossia la bossa nova che già aveva fatto capolino in Odelay, ed è un ottimo risultato finale. Il lavoro appare come una naturale prosecuzione dell'ultimo album: le tastiere da party anni 70 sono le medesime, ma il ritmo a base di pettine e maracas, il flauto, i cori brasileri, la chitarra classica densa di "saudade" non lasciano dubbio su cosa stia interessando l'artista in quel momento. Visionario e surreale il video che gira per promuovere il singolo, dove un'ombra si ribella al suo padrone, triste impiegato, e ne prende il posto per realizzare i suoi desideri nascosti e fuggire dalla frustrazione quotidiana. "Erase The Sun" è un allucinato blues-folk stonato e oscuro, altalenante e dolorante, mentre "SA-5" chiude il trittico con un breve pezzo di folk scoperto, dotato di una divertente ritmica elettronica martellante e persino di influenze beatlesiane.
Sono anni di intensa creatività e prolificità musicale. Con Mutations (1998), Beck tende a ridurre quel pout-pourri di generi che aveva contraddistinto le sue prove precedenti, proponendo una serie di variazioni sul tema del country, contaminato via via con echi di "space age pop", psichedelia barrettiana e persino venature brasiliane (il singolo "Tropicalia"). Il tutto nel segno di un futuribile "folk-rock dell'era spaziale", come lo definisce l'autore, che trova la sua perfetta calibratura nel pastiche esotico-lisergico di "Diamond Belloks", vero tour de force del disco.
Sono a fuoco soprattutto le melodie, che illuminano episodi come l'iniziale "Cold Brains", con un motivetto pop appiccicoso che ti non molla più, "Dead Melodies", ballata sintetica impregnata di aromi Kinks, e "Sing It Again", struggente campfire song da praterie sterminate. E se "Nobody's Fault But My Own" riporta in primo piano la lezione psichedelica dei Sixties, "Lazy Flies" entra decisamente in territorio folk, cesellando armonie e ritornelli di grande eleganza, assecondato da una strumentazione ad hoc: viola, violoncello, pianola e sitar. Anche il suono si fa più pulito e accurato, rinunciando alla tipica impronta artigianale da "quattro piste" delle precedenti opere, mentre gli arrangiamenti portano la firma del produttore Nigel Godrich.
Meno innovativo e travolgente dei predecessori, ma sorretto da una scrittura sempre fluida e brillante, Mutations guarda al passato (la tradizione americana) con lo sguardo preveggente di chi sta già pensando alla prossima mossa per arrivare in anticipo sulla storia del rock.
Nel 1999 Beck produce l'ennesima "mutazione" del suo suono e del suo metodo di composizione con Midnite Vultures. L'idea è quella di produrre un album parzialmente più danzereccio dei precedenti e più pop-ular, nei testi, battendo il tasto più tranquillo dell'amore e l'attrazione fisica, con maggiori influenze funky e più propriamente disco o soul, meno rap, meno folk meno "provocazioni" intellettual-musicali. L'autore si fa accompagnare da una band di qualità (soprattutto la batteria "spacca" lungo tutto il disco), con una nuova abbondante presenza di fiati, e da ospiti illustri tra i quali tornano i Dust Brothers. Ne risulta un disco a fasi alterne, dove si trova dell'ottimo, del buono e dei momenti in cui il tutto viene tirato un po' per le lunghe.
Alle decisamente coinvolgenti "Sexx Laws", primo singolo con il solito ritornello tremendamente immediato, "Nicotine & Gravy" e "Mixed Bizness", dove il nostro fa le prove da James Brown, seguono parti elettroniche un po' meno riuscite come in "Get Real Paid", che avrebbe dato miglior risultato se fosse stata contenuta in due minuti, e l'egualmente troppo lungo sforzo hip-hop lounge di "Hollywood Freaks".
Analogamente "Peaches & Cream" non pare avere tutta l'ispirazione di cui avrebbe bisogno e suona faticosa a scorrere. "Broken Train" riporta decisamente alle buone vibrazioni di Odelay, così come "Milk & Honey" è un bel mix di rock & electrofunk di sapore decisamente anni 80, grazie anche alla presenza di Johnny Marr alla chitarra. Affascinante è anche la ballata a base di piano "Beautiful Way".
Chiudono l'album la rockeggiante "Pressure Zone" e un'altra caldissima ballata, "Debra", che sembra rubata dal cassetto di Prince, da ascoltare possibilmente in due la sera col camino acceso, ed è ancora una collaborazione con i Dust Brothers dalle sessioni di Odelay. Tanti giovincelli soul di bella presenza avrebbero qui tutto da imparare. Da segnalare la ghost-track finale, che appare dopo oltre dieci minuti di silenzio, una sorta di densa afro-elettronica tribale, fulminante quanto uno sfogo hardcore.
Beck ha prodotto Midnite Vultures perché non si accontenta, vuol provare a fare tutto e perciò è disposto anche a rischiare di inciampare per poi rialzarsi, il ché in nella musica popolare troppo spesso vittima di gente seduta sugli allori o nata già impacchettata per il "bizness" è spesso già di per sé un merito.
In Sea Change (2002), ideale seguito di Mutations, Beck smussa gli angoli e le stranezze residue di quel lavoro, completando una parabola artistica che lo ha portato verso un songwriting di stampo quasi "classico". Grazie anche alla produzione di Goldrich, il vestito di questi brani è curato in maniera certosina, e l'equilibrio tra melodia, elettronica e archi (orchestra diretta dal padre David Campbell) è pressoché perfetto. Abbandonati al passato giochi di citazioni, campionamenti, ironia beffarda, Beck si conferma ormai un maturo cantautore nel più classico senso del termine, e i riferimenti ai grandi maestri sono inevitabili, da Neil Young ("The Golden Age") a Scott Walker ("Lonesome Tears"), passando per Nick Drake ("Already Dead"). Tra un salto e un altro, però, ci scappa anche uno scivolone, il mezzo plagio di "Paper Tiger", che ricorda in maniera clamorosa "Melody" di Serge Gainsbourg, alla quale il nostro ha comunque ammesso di essersi ispirato.
Se la melodia la fa da padrone, vittima di questo cambiamento è il ritmo: niente funky dei bei tempi, ma lente e malinconiche ballate, dove il ritmo si alza di rado.
Non si tratta di invecchiamento, come qualcuno paventa, ma di una fase creativa che Beck ha compiuto consapevolmente, se si tratta di una senilità creativa non è certo Sea Change l'album che la testimonia.
Dopo tre anni di silenzio esce Guero, che si presenta come la summa di quanto seminato in un decennio: 14 pezzi in cui l'universo beckiano viene sminuzzato, passato, frullato, esemplificato (con ampio uso di cori e battiti di mano) e servito in piccole dosi. Purtroppo, però, manca la necessaria ispirazione per sorreggere un'operazione così ambiziosa.
Il limite di brani, pur godibili, come il singolo "E-pro" (un veloce pop-rock) o come il country-rock "Girl" è quello di suonare come b-side. Altri invece, come "Black Tambourine" (praticamente una linea di basso che si ripete scossa da colpi di batteria e tamburello) o la lunga cavalcata country "Farewell Ride", suonano semplicemente spenti.
Non mancano, comunque, episodi di buon livello, dalla filastrocca di "Que Onda Guero", punzecchiata da inserti di tromba, a "Broken Drum", in cui una melodia sognante, una chitarra tagliente, gocce di piano e una pulsazione elettronica disegnano un'atmosfera eterea, fino a "Hell Yes", quasi una cover di Eminem. A fotografare il rimpianto è semmai "Rental Car", che trova un buon giro di chitarra cui appigliarsi e alcune buone trovate in sede d'arrangiamento, ma che suona edulcorata, sfociando nell'ennesimo coretto.
In sostanza Guero costituisce, oltre che la prima pausa di riflessione di Beck, il suo primo passo falso.
Uscito a meno di un anno di distanza, Guerolito (2006) segue la stessa tracklist di Guero, proponendo un remix per ogni brano dell'originale. Non tutto il materiale è inedito, però: qualcosa si trovava già nella Deluxe Edition di Guero. E' il caso della "Girl" degli Octet, con una decostruzione che ne costituisce l'intermezzo e la coraggiosa scelta di fare a meno del ritornello. E' soprattutto un peccato che pure il superclassico di questa raccolta fosse già uscito. Trattasi della miracolosa "Broken Drum", griffata Boards Of Canada, con i suoi nastri all'indietro, la sua psichedelica malinconica che si sposa alla perfezione con il testo, la produzione non meno che perfetta. Scompare invece l'ottima "Missing" remixata dai Röyksopp. Il sostituto, però, è all'altezza della situazione: la nuova "Missing", rinominata "Heaven Hammer", è un ricostruzione operata dagli Air, che scelgono un'atmosfera quasi cupa, con synth che imitano gli archi, pianoforte e un sentore di catastrofe imminente.
Ci sono poi altri remix inediti che meritano la citazione. La "E-Pro" appena pasticciata dagli Homelife, per esempio, o il giocoso mix di "Qué Onda Guero" proposto dagli Islands. E il Dust Brother John King fa di una canzone spostata come "Rental Car" un vero elettro-delirio. Operano bene anche i nomi hip-hop coinvolti. Ad Rock, un terzo dei Beastie Boys, lavora su "Black Tambourine", mentre El-P supera le più rosee aspettative su "Scarecrow".
Nel 2006 ecco il nuovo disco di Beck, dal titolo The Information. E' un disco certamente ben superiore agli ultimi lavori del nostro la cui laboriosa lavorazione, con Nigel Godrich di nuovo in produzione, è iniziata anteriormente alla registrazione di Guero.
The Information è molto lungo ma pieno di belle composizioni, semplici e soprattutto divertite come ai bei tempi. Se in "Guero" era stato cercato, apparentemente senza successo, il sentiero volontariamente lasciato dopo "Deadweight", naturale evoluzione del suo capolavoro Odelay, con The Information quel sentiero è ritrovato e seguito verso un'altra possibile evoluzione rispetto a quella già percorsa. Il ritorno del Beck spiazzante è una piacevole sorpresa. Blues, folk, rap ed elettronica, basi di partenza come nel passato, vengono trattate con un piglio più "cantautorale" e intimista. Dalla iniziale "Elevator Music" e "Nausea", dove i blues (st)rappati e i ritornelli tremendamente immediati fanno di nuovo venir voglia di muoversi in qualsiasi circostanza, passando per il pop/folk anticonvenzionale come in "Strange Apparition", "Soldier Jane" e "Dark Star", si arriva a "Movie Theme" che parte come uno scherzo dal suono di organetto simil-Bontempi per trasformarsi in ballata struggente, all'elettronica scoperta di "Cellphone's Dead" e "We Dance Alone" (con tanto di Game Boy utilizzato per produrre suoni postmoderni) e si finisce con la discomusic-antidisco di "Inside Out", un pezzo letteralmente contagioso, tra i migliori dell'album ma presente solo come bonus track della edizione del disco con Dvd di tutti i video delle canzoni incluso. C'è nuovamente di tutto per tutti. Beck si permette persino di rischiare una suite di oltre dieci minuti, che comunque è il punto più pretenzioso e noioso dell'album.
La critica pur generalmente positiva non è unanime nel giudizio su The Information: se molti apprezzano il risultato giunto dopo quasi tre anni di lavoro, alcuni restano più freddi aspettandosi sempre il rischio massimo da questo artista. Egli comunque su quel piano ha già abbondantemente dato - rivoluzionando il rivoluzionabile - e pertanto dopo una carriera di quasi tre lustri è semmai giusto chiedere il massimo dalla sua capacità di sintesi del puzzle sonoro degli ultimi quarant'anni e della sua stessa vita artistica, cosa che in questo disco gli riesce benissimo.
Due anni dopo, invece, Modern Guilt (2008) fa cilecca. Ormai il gioco è sempre quello: Beck ripete la sua lezione da maestro senza però trovare il guizzo sorprendente.
L’iniziale "Orphans" spazia tra le solite uscite acustiche e la prosecuzione delle atmosfere seventies del precedente album. La veloce "Gamma Ray" è un piacevole pop d’autore, ma niente di più.
Le sue sempre potenti intuizioni blues e funk emergono nella title track "Modern Guilt", il brano più ballabile dell’album con delle belle frasi di chitarra e un pianoforte assassino a far da sottofondo. "Youthless" sarebbe suonata perfetta proprio su The Information, tanto che sembra presa di peso da lì. Perfetto contraltare della bonus-track finale "Inside-Out". Però c’è da chiedersi se sdraiarsi su schemi del lavoro precedente sia un pregio. Tutto sommato si comporta bene anche "Profanity Prayers", grazie a un discreto riff di chitarra nel ritornello che tiene su la struttura e a un bell’intervallo blues acustico. Il resto dell’album, però, scorre senza lasciare il segno.
Piatto, fuori fuoco, confuso, Modern Guilt è uno dei pochi passi falsi di Mr. Hansen.
Dopo aver attraversato un difficile periodo di crisi personale e artistica, Beck torna sei anni dopo con Morning Phase (2014).
Esplicita parte II di Sea Change, con atmosfere rilassate e mattutine, l'album allinea 47 minuti di brani interamente acustici e lenti, con rarissimi inserti elettrici. Un folk con arrangiamenti che spesso portano archi a supporto, fatti di atmosfere rarefatte e intime, racchiuse in poche pennellate sonore. Pare quasi di sentire gli insetti che ronzano nella quiete antimeridiana, fin dall’iniziale accoppiata “Cycle/Morning”, con la prima che in realtà è solo una intro di archi alla seconda, e ci sussurrano nelle orecchie i 13 brani dell’album, che scorrono uno dopo l’altro, come un ruscello primaverile. La successiva “Heart Is A Drum”, invita a uscire nel sole, stirandosi pigramente, seguita dal canto sofferto e dal banjo di “Say Goodbye”, che forse della serie, soprattutto vocalmente, è quello che più si avvicina alla tipicità di questo artista. A ruota arriva la languida “Blue Moon” - uno dei teaser già usciti in streaming da qualche tempo - che invita a scuotersi dalla malinconia.
Morning Phase in vari passaggi è un album da meditazione, per far viaggiare la mente. Questo accade soprattutto nella parte centrale. Tra gli acuti da evidenziare ci sono sicuramente “Don’t Let It Go” e “Blackbird Chain”, prima della conclusiva, coinvolgente e quasi commovente, “Waking Light” con la quale si torna al tema del risveglio a chiudere il ciclo.
Quanto l’appartenenza a Scientology o i recenti malanni fisici abbiano influito sull’album resta un tema sospeso, quel che è certo è che addirittura a tratti capita di ricordare i Pink Floyd acustici della fase immediatamente post-Barrett, ma anche Neil Young, esplicitamente citato in un’intervista come una delle influenze di questo lavoro, come pure le atmosfere del blues del Delta. Se questo sia un album memorabile lo dirà il tempo, si può dire che certamente sia un ascolto piacevole, adatto anche a chi non è fan sfegatato di Beck ma ama il folk acustico e rifugge la confusione.
È proprio da alcuni episodi inizialmente scartati da Morning Phase che vede la luce nel 2017 il successivo Colors, fedele però ad una intenzione sostanzialmente diversa nell'approccio, quella dello scrivere (parole dell'autore) "canzoni che rendano felici di essere vivi".
La lunga gestazione riflette in parte la difficoltà nel maneggiare con naturalezza proprio quelle sensazioni. La ricerca di positività viene raggiunta grazie alla collaborazione con il produttore Greg Kurstin (anche co-autore) ma, nonostante le migliori intenzioni, resta un po' confinata al perimetro di un progetto studiato a tavolino. Beck distilla in dosi omeopatiche tutto l'immaginario sonoro al quale ha abituato il suo pubblico in quasi venticinque anni di carriera e punta su un groove pop radiofonico (con echi del vecchio sodale Danger Mouse, atmosfere MGMT e cori alla Coldplay) che risulta ammiccante ma mai davvero sexy.
La storica attitudine al cambiamento è salva, anche se probabilmente non sufficiente per giustificare l'intera operazione, che vede fra le sue tracce migliori i singoli "Dreams", "Dear Life" e la più introspettiva "Fix me".
Disco che dovrebbe riflettere il mood 2017 di Mr. Hansen ma pare più progettato per le classifiche, "Colors" cerca di dimostrare che Beck è ancora in grado di rimanere agganciato alla contemporaneità senza preoccuparsi troppo di quanto sia stato iconico il passato.
A fine 2019, Beck riesce, dopo anni di corteggiamento, a collaborare con un peso massimo del mainstream come Pharrell Williams dentro all'album Hyperspace.
Ben 7 degli 11 brani sono infatti prodotti dal rampollo di Virginia Beach ma a stupire, stavolta, è la totale assenza di singoloni di facile presa che era forse lecito aspettarsi o temere a seconda delle preferenze. L’influenza del re mida dell’r’n’b è percepibile prevalentemente nell’approccio minimalistico e marziale dei beat utilizzati ma, nei pezzi migliori del disco, le affinità estetico-musicali tra i due sembrano curiosamente ridursi all’osso. Hyperspace pare quasi un album di transizione, piuttosto velleitario nei suoi 34 minuti di durata e sorretto da una creatività che a tratti sembra fin troppo sopita. A testimoniarlo è soprattutto un blocco centrale mai così sciapo, caratterizzato da tentazioni neo-psichedeliche in salsa r’n’b che pervadono la scheletrica “See Through”, gli zuccherosi svolazzi di “Chemicals” e una “Die Waiting” che cerca goffamente la contemporaneità scimmiottando l’ultima Taylor Swift. Sicuramente più a fuoco la sezione iniziale con una sorniona “Uneventful Days” che sembra in linea di massima la versione notturna di “WOW” e che si insinua, indolente, nella memoria e con l’unico brano in grado di fondere i tipici battiti pharrelliani con le rievocazioni electro-country del Beck più brioso (la polverosa armonica di “Saw Lightning”).
E’ soprattutto sul finale che il disco si rimette in carreggiata: “Everlasting Nothing”, al netto di un’eccessiva saturazione gospel, è un pop elettronico e crepuscolare che concede all’ascoltatore qualche confortevole reminiscenza à-la Morning Phase, mentre “Dark Places” è un brano altrettanto romantico che fluttua nel suo intimo incedere attraverso sintetizzatori in odor di Alan Parsons. E’ però la cadenza dell’ottima “Stratosphere” che, ricordando le distanze siderali ricoperte dai Pink Floyd più gilmouriani, ci toglie ogni dubbio – con un po’ di rammarico – su quale fosse il percorso musicale migliore da intraprendere in questo delicato iperspazio sonoro.
Contributi di Claudio Fabretti ("Mutations"), Paolo Sforza ("Sea Change"), Ciro Frattini ("Guero"), Nicola Minucci ("Guerolito"), Paolo Ciro ("Colors"), Stefano Fiori ("Hyperspace"), Matteo Trapasso (Hyperspace")
Golden Feelings (1990) | 6 | |
Stereopathetic Soulmanure (Flipside, 1994) | 7 | |
Mellow Gold (Geffen, 1994) | 8,5 | |
One Foot In The Grave (K, 1995) | ||
Odelay (Bong Load, 1996) | 9 | |
Mutations (DGC/Bong Load, 1998) | 6,5 | |
Midnite Vultures (Bong Load, 1999) | 6,5 | |
Sea Change (Universal, 2002) | 6,5 | |
Guero (Universal, 2005) | 5 | |
Guerolito (Universal, 2006) | 6,5 | |
The Information (Universal, 2006) | 7,5 | |
Modern Guilt (Universal, 2008) | 5,5 | |
Morning Phase (Capitol, 2014) | 7 | |
Colors (Capitol, 2017) | 5,5 | |
Hyperspace (Capitol, 2019) | 6,5 |
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