Intellettuale di prima caratura con le mani bene infisse nella materia, Giancarlo Toniutti è, dalle prime registrazioni nel 1978 insieme all’amico Tiziano Dominighini per il progetto “airthrob in”, a oggi, un artista-ricercatore che ha fatto dell’evoluzione la sua cifra stilistica. Udinese, classe 1963, egli azzecca, nel biennio 1982-83, tre opere soliste di algida sperimentazione strumentale (“Wechselwirkung”, “Metánárkōsis” e “Das Todesantlitz”, raccolte su vinile nel box del 2009 “The Early Tapes Period”), estremizzando il manifesto sonoro dei più caustici Cabaret Voltaire, ma mostrando anche un innato talento per la costruzione di labirinti rumoristici da cui risulta arduo trovare una via di fuga. Con il successivo “La Mutazione” (’85) un magma a temperature impossibili ribolle nello spazio di un dantesco inferno ghiacciato, facendo del Nostro il più probabile continuatore della Visione estrema di Maurizio Bianchi, padrino dell’industrial italiano che, una manciata di mesi addietro, aveva annunciato il suo primo di molti ritiri dalle scene.
Toniutti era già altrove, e il proprio articolatissimo studio della cosa sonora lo portò a un’ulteriore crescita qualitativa, superando in pathos gli Einsturzende Neubauten di brani manifesto come “Der Tod Ist Ein Dandy” con l’estremismo dalla chirurgica precisione intitolato “Epigenesi” (’86); di lì in avanti furono collaborazioni prestigiose e proficue (su tutte, quelle con l’outsider dell’outsider music teutonica Conrad Schnitzler e con Siegmar Fricke, altro paladino della Germania d’essai da oltre quarant’anni) e una progressiva adesione a un’elettroacustica in cui l’elettronica si fa da parte per glorificare la perfezione di suoni caricati, nel lavoro di decomposizione, da significati oltreumani.
Appaiono, così, gracchìi da lamiere male in arnese, raschiamenti di superfici zigrinate, clangori da cocci che incutono paura; i trattamenti toniuttiani sono la cornice tagliente che, all’orecchio, esalta il radicalismo di una formula simile ma diversa a quella del percussionista statunitense Z’ev, strumento capace di frantumare i limiti della power electronics per riqualificarsi nell’insieme della Musica Seria, trasfigurata dalle esperienze diy del punk e legittimata dall’enorme talento di un protagonista della contemporaneità sotterranea internazionale.
Giancarlo, perché alcuni di noi si sentono attratti dal rumore? Costruzione intellettuale o bisogno ancestrale?
Vorrei specificare che rumore o suono consistono nella medesima cosa in tutte le forme e costruzioni. È solo da un punto di vista della tradizione della musica occidentale, e da quello musicologico, che s’è potuto storiograficamente parlare di rumore in contrapposizione al suono (musicale). Oggi tutto questo mi pare abbastanza anacronistico, viste le pratiche musicali delle “avanguardie” negli ultimi 80 anni almeno. Dunque, eliminando le differenze concettuali, acustiche, teoriche, pratiche tra l’uno e l’altro, si può tranquillamente parlare solo di una naturale passione per il suono, evidentemente però per un suono cercato, un suono come fenomeno acustico significante, non semplicemente ereditato, disceso per linea dinastica. Se si vuole osservare la cosa da un punto di vista filosofico e biologico, credo si possa dire che quasi ogni organismo, secondo costume, utilizza il suono nel suo ambiente, sia come elemento distintivo che come elemento cognitivo. Così, nella stessa maniera, si pongono gli esseri umani. Dopodiché le singole culture spezzettano questi meccanismi e li ricodificano a modo proprio, all’interno dell’ambiente concettuale. Da dove derivi una specifica attrazione è risposta che compete, forse, se mai esista una risposta possibile e chiara, ai livelli della storia mentale individuale. Io non ho responsi da offrire. Penso che tutti siano attratti dal suono e dalla sua ricerca, poi però, per ragioni legate alle vicende personali, gli ambienti, gli stimoli e gli eventi che si incontrano sul proprio asse, le cose cambino e si circoscrivano. Tutto ciò può risultare altamente diversificato, può suscitare o meno, stabilire, spingere verso modi di relazione differenti per ognuno, la cui ragione e i cui gradi dipendono da quella lunga serie di concause personali che non sono in grado di reclutare. A mio parere chiunque, “esposto” a modelli concreti, a questa o quella forma musicale, tenderà a riconoscerli come validi, qualunque profilo assumano. Non esiste una naturalità nei confronti di certi suoni rispetto ad altri, una preminenza di certi modi rispetto ad altri, se non secondo statistica ed egemonia. Non si capirebbero altrimenti i criteri così diversi, e invece perfettamente condivisi all’interno di una specifica società umana, che possiedono le musiche in culture tra loro lontane e distinte.
Nell’ambito dell’elettronica, qual è l’ostacolo principale che prima o poi ogni compositore si troverà a dover fronteggiare?
Se in ogni ambito gli ostacoli possono essere vari e diversi, e possono dipendere da ragioni economiche, sociali o locali, nell’ambito della musica sperimentale, elettronica o elettroacustica che sia, ciò che prima di tutto appare come critico è il fatto che il compositore si trovi mediamente di fronte all’ineludibile circostanza di dover costruire il proprio mondo musicale, la singola composizione come l’intera opera sua, partendo da una sorta di inesorabile tabula rasa. Questo vuoto “normativo” è la conseguenza della messa in discussione dei codici formali e grammaticali su cui la musica venne ordinata fino a quel momento; nel caso delle culture occidentali, ciò cominciò intorno alla fine dell’Ottocento. Ogni sperimentazione, perché sia tale, utilizza la storia come campo di lavoro neutro, sopra il quale innestare la propria ricerca, sottoponendo le proprie ipotesi a prove e confutazioni e verificandone il valore e i possibili assiomi derivati.
È chiaro quindi che il compositore di musica sperimentale si trova innanzitutto ad affrontare territori quasi privi di riferimenti certi. Appare una specie di spaesamento in una regione della quale non si ha una precedente esperienza. Perché la messa in discussione dei codici e dei sistemi di riferimento non porta immediatamente a nuove codificazioni. Questo è un percorso molto lungo, anche abbastanza intricato, durante il quale prevale una sorta di terra incognita da conoscere solo mentre la si attraversa, e come tale, come si può ben capire, le scelte da operare avvengono mediante continue negoziazioni con la materia e le sue forme. Ed è questa instabilità che, partendo da una condizione di difficoltà, deve invece trasformarsi in un punto di forza.
Nei tuoi anni di formazione, ai tempi degli airthrob in, cosa chiedevano le tue orecchie?
Sono partito da un interesse quasi subitaneo, nel 1977, a 14 anni, nei confronti della cosiddetta musica elettronica tedesca, che nel mio caso consisteva principalmente nei lavori di Klaus Schulze e Tangerine Dream, in particolare “Irrlicht” e “Cyborg” del primo, “Zeit” e “Atem” dei secondi, subito seguiti da “Con” di Conrad Schnitzler, e mi sono mosso in quei dintorni. Pian piano l’interesse s’è allargato verso altri modelli di sperimentazione, anche nei confronti di musiche elettroacustiche più o meno colte. Quelle però sono state le mie prime matrici e sono rimaste con me fino a ora. Negli anni che precedettero quel momento sorgente, vagavo in un limbo incerto, privo di punti d’appoggio, anche se già da un po’ vigeva una necessità di musiche inusuali, che avessero un connotato di esplorazione, lontane dai suoni consueti e triti delle varie musiche pop dell’epoca, che poco o nulla mi dicevano. Era qualcosa che però non riuscivo a identificare con chiarezza. Questo vagare non è durato a lungo, a dire il vero, poiché nel giro di un paio di anni, credo, ho trovato nella musica d’avanguardia quel primo approdo. E tutto il contorno musicale è stato placidamente messo da parte.
In che modo è mutata la tua concezione della composizione ai tempi del Conservatorio?
Il momento del passaggio al Conservatorio è stato formativo nel lungo termine e Alvise Vidolin ne è stato il tramite. Il primo impatto con il lavoro nella computer music, dunque con l’informatica musicale, che è ciò che a quei tempi si insegnava, mi è risultato spesso piuttosto ingombrante; si lavorava con schede perforate, con una scrittura lunghissima dei singoli suoni e tutto questo appariva poco fertile per me. Aspiravo a un contatto diretto con il suono e invece molto tempo lo si passava in fase analitico-progettuale. Col passare del tempo e con le successive esperienze ho invece compreso quanto tutte quelle analisi e quelle istruzioni, necessarie per far funzionare la macchina informatica e chiederle di generare suono, implicassero un esame sottile e una conoscenza dei princìpi del suono, la sua scomposizione in elementi controllabili, valutabili, modulabili, che diventavano col tempo un’enciclopedia di conoscenze - non solo sonore - ma soprattutto morfologiche e strutturali. Le scienze del suono, l’acustica, la psicoacustica e molti altri modelli scientifici divennero quindi la vera molla, inizialmente quasi inconscia, che mi ha instillato una visione della complessità dei meccanismi compositivi. Della necessità di esigere da ogni scelta la reale tessitura di ciò che promette e non lasciarsi guidare dalle impressioni e dalle suggestioni irriflesse. Questo passaggio è avvenuto gradualmente, con ogni piccolo passo, con ogni gradino che determinava una presa di coscienza di possibilità prima inedite.
Quali sono i risultati più evidenti che ritiene di aver ottenuto con album straordinari come “Wechselwirkung” e “Metánárkōsis”?
Difficile valutare in astratto dei risultati, quali siano e come siano. E' difficile valutare lavori che alle mie orecchie non possono che apparire segni di un tempo trascorso e trasformato. Per quanto ingenui sotto certi aspetti, il loro esito è stato comunque quello di porsi quali piccoli fulcri indipendenti dalla cagnara delle mode, quali costrutti a loro modo esemplari di un’autonomia da riferimenti, schemi prefissati, miti e modellini d’antan, fossero quelli della musica “seria” o quelli delle musiche “popolari”, dei mercati e dei lavori più o meno d’avanguardia. A distanza di anni, mi appaiono in effetti delle opere che hanno saputo ritagliare uno spazio innegabilmente proprio, soprattutto se considerate all’interno del panorama che si è visto poi svolgere nel tempo, senza esagerarne i termini ovviamente.
Qual è il modus operandi e la strumentazione impiegati per la realizzazione di “La Mutazione”?
“La Mutazione” è stato realizzato grosso modo in due fasi. Una prima fase, in cui gli elementi base furono ancora il sintetizzatore e un insieme di suoni registrati da oggetti, ambienti, e posti in una relazione quasi di controcanto reciproco. E una seconda fase, in cui è avvenuto un progressivo allargamento del campo d’azione e dello spettro acustico, con l’inserimento di elementi via via più eterogenei, con sonorità costruite ed elaborate col nastro magnetico, suoni concreti di molte nature, che hanno portato l’iniziale struttura semplice ad allargarsi e modularsi all’interno di un mixaggio piuttosto frenetico, proporzionato ai materiali stessi. S’è trattato in fondo di due coniugazioni nuove rispetto alle condizioni d’origine: da un lato, l’arrivo di nuove tecnologie, un registratore multitraccia, un mixer 8-canali, un registratore a bobine, che hanno consentito di affrontare e maneggiare i suoni da più angolazioni, di poterli dispiegare in campi più attivi e compositi, incluso il parametro spazio; dall’altro, una sorta di evidente connubio, un punto cerniera tra due universi sonori che occupavano in quel momento i miei interessi, la musica elettronica tedesca da cui venivo e la ricerca elettroacustica contemporanea a cui tendevo.
Imboccare il sentiero dell’astrazione, nelle arti in generale, a quali conseguenze può condurre chi ha scelto di seguirlo?
Penso che prima di tutto produca un allargamento intorno ai significati della realtà. O, detto altrimenti, che comporti la necessità di dover apprendere cose da molte discipline, da diverse scienze e materie differenti per governare i meccanismi che soggiaciono all’astrazione. Astrarre non significa allontanarsi, non comporta un congedo dalla materia. In realtà, avviene esattamente la via opposta, perché si tratta di condensare la materia all’interno delle sue dinamiche distintive. Si tratta di dispiegare le articolazioni di quei meccanismi generatori che stanno dentro la singola forma. Ci si trova così vis-à-vis con le ragioni proprie della materia, le loro implicazioni a diversi livelli concreti che si stagliano sull’universo dei fenomeni. Non c’è nulla di banalmente allucinatorio, non c’è alcuna mistica del simbolo. Astrarre significa letteralmente estrarre, cavare da un’origine osservabile la materia adatta alla tessitura di uno spazio, nel nostro caso sonoro. Azione totalmente fisica, materica, ed è precisamente in questa sua matericità che sorge il significato.
Possibile lasciar fuori il pensiero politico, pur da musiche strumentali, come le sue?
No, non è certo possibile. Però non si tratta di un pensiero politico nel senso di una posizione colta all’interno dell’intervallo politico in cui ci si trova a vivere. Si tratta invece di un impegno civile innanzitutto, di una responsabilità nei confronti del consorzio civile, locale o globale che sia, una responsabilità che si può esplicare in molte maniere e che le musiche che si realizzano inevitabilmente incarnano, nelle loro strutture. Ogni scelta che si effettua ha una sua ricaduta a livello anche “politico”, poiché determina la costruzione di un universo di riferimento, il quale a sua volta costituisce un modello di interpretazione della realtà secondo schemi e trame personali. Così ogni compositore sceglie con quali materie e forme operare, e ognuna di queste scelte non è mai neutra. Indipendentemente dalle intenzioni dell’autore stesso, esse esibiscono l’esposizione di gradi vari e diversi di gerarchia, di modi e strutture di relazione nelle forme con cui si opera. È naturale quindi che queste rispondano a specifiche visioni del mondo, a distinte manifestazioni di un habitat o milieu che tramite esse viene quindi proposto, o perlomeno reso distinguibile. Non si può sperare di esimersi da tutto ciò. Anche l’artista più solipsista parla al mondo. E non è necessario che lo faccia attraverso la sua lingua: i suoi atti parlano per lui.
Perché buona fetta dei compositori attivi nei generi post-industrial e power electronics si appoggiano (anche) su immagini cruente?
La cosa, che personalmente non mi ha mai riguardato, penso sia una delle facce meno interessanti di alcune avanguardie sorte negli anni 80. Ho sempre contestato, a esempio, che al rumore, come nozione sonora, venisse associata una visione dozzinalmente negativa della realtà, una visione morbosa, incline a seduzioni di stampo più adolescenziale che a opzioni consapevoli. Certo, ci sono anche buone ragioni per l’esposizione del macabro, e non da oggi, ragioni che sorgono in qualche misura dal conflitto nei confronti della mediocrità perbenista della società. Nelle musiche che citi queste ragioni si sono viste rarissimamente. Molto invece è diventato rapidissimamente solo stereotipo e cliché, una sorta di neo-conformismo blasé, una sorta di contro-affettazione e un culto dell’irrazionalismo che non comprendo e non stimo, anche se vedo estremamente diffuso.
La figura di Conrad Schnitzler resta ancor oggi, nell’ambito dei compositori tedeschi fioriti a cavallo tra i 60 e 70, una delle più importanti ma anche delle meno citate.
Conrad è un punto di riferimento che dovrebbe essere imprescindibile nell’ambito della ricerca musicale e artistica in genere. Egli però non ha mai curato in modo commerciale la sua figura, ha sempre operato in una totale libertà d’azione, senza vincoli, senza rimandi, senza chiusure, e questo lo ha inevitabilmente tenuto un poco ai margini, perlomeno della larga notorietà, che punta al facile simulacro, e lontano dai sistemi dell’industria della rappresentazione abnorme. Anche quando ha realizzato musiche più accessibili, non s’è mai concesso al mercato, non se ne è mai curato. Il suo è stato innanzitutto un lavoro artistico in senso complessivo, la sua intera vita è stata edificata su questa connotazione. La musica, che è diventata primaria nella sua attività, è stata il mezzo col quale ha fondato la sua autonoma visione culturale e l’idea che ognuno debba avere la propria. Molti probabilmente non se ne rendono conto, poiché hanno acquisito i propri modelli da generazioni successive, ma è intorno, in qualche misura, a Conrad Schnitzler che molti movimenti della musica sperimentale in Europa si sono elevati a ruoli pubblici e hanno potuto erigere le proprie carriere. Molto di tutto ciò rimonta al suo operato verso la fine degli anni 60 a Berlino, dove ha fondato il famoso Zodiak Free Arts Club, anche assieme ad altri collaboratori come Hans-Joachim Roedelius e Boris Schaak, centro unico per il movimento d’avanguardia berlinese e non solo. Si dovrebbe studiare Schnitzler a fondo e senza remore, prescindendo da piccoli schemi interpretativi, perché è proprio là che Conrad dimostrerebbe la sua statura.
Da un punto di vista subcosciente, quando un compositore registra un suono acustico e lo modifica, a un livello profondo, in realtà, che cosa sta affermando?
Nel fare musica non si afferma qualcosa. Si tratta semmai di significare, ovvero mettere in moto una significazione attraverso il suono. L’elaborazione di un suono, modificarne alcuni parametri, ad esempio, è innanzitutto un processo necessario ai fini della composizione, si tratta di poter raggiungere certe condizioni che il suono in origine non era in grado di fornire e questo, almeno nel mio caso, senza assolutamente stravolgerne i “contenuti” dinamici e morfologici. Il modo in cui modifico un suono, quando ciò avviene, perché nella mia musica possono esistere suoni anche esattamente come sono stati registrati, seppure la loro generazione e registrazione avvengano in modalità estese, il mio modo è piuttosto semplice, non applico mai quelli che si chiamano plug-ins, ovvero effetti precostruiti ai fini del trattamento del suono (granulazione, modulazione di frequenza ecc.). Ogni mio trattamento avviene direttamente con il suono e non sopra un suono. Per me si tratta spesso di mettere in evidenza alcune caratteristiche della grana materica di un suono, magari microscopiche oppure meno evidenti, che mi colpiscono ai fini compositivi, ed enfatizzarle, magnificarle, accentarle. Osservare i dettagli di una realtà magari meno flagrante di primo acchito, eppure assolutamente presente, anzi spesso fulcro attivo di quella fenomenologia, è il principale impegno di un compositore di musica elettroacustica. Portare alla luce delle orecchie le articolate meccaniche delle microstrutture e dare alle loro relazioni una forma.
Se dovessi attribuire alla tua intera produzione uno specifico valore morale, quale sarebbe?
La posizione etica della musica è una questione molto complicata. Credo che non si possa semplificare in alcun modo, senza incorrere nel peccato di banalità, o in quello di autoindulgenza. Nel mio caso posso intravedere il senso della complessità, motore di tutto il mondo e delle sue articolazioni, come ciò che permea la mia attività musicale e sonora. La complessità è la consapevolezza che ogni fenomeno della realtà non si determina dalla somma sbrigativa di A con B, dalla ridotta linea causale da A a B, ma è sempre un composto della sua evoluzione storica, un portato dei gangli fenomenici che la permeano e le mille concause che la determinano. Ed esistono numerosi gradi della complessità, esistono più livelli e stratificazioni, un po’, se vuoi, è quello “gnommero” che Carlo Emilio Gadda descrive e utilizza nella sua narrativa, qui visto soprattutto nella sua incidenza fisica. È qualcosa che ci insegna a non dare per scontato il mondo come ci appare, ma innanzitutto cercare di spiegarlo nei suoi processi fino al punto raggiungibile. Di non maneggiarlo in modo riduzionistico e opportunistico. E questo a me pare un insegnamento etico (ed epistemologico) importante. Come dice il titolo di un libro di René Thom: “Predire non significa spiegare” (“Prédire n’est pas expliquer”).
Nel nuovo millennio hai pubblicato due album che riuniscono il tuo nome con quello di Tiziano Dominighini. In che modo hai operato sul materiale inedito da te recuperato?
La collaborazione musicale con Tiziano era terminata nel 1983; le nostre vite avevano preso percorsi diversi e i nostri contatti si erano progressivamente diradati, e di molto. L’avvenuta sua morte nel 1997 ha ovviamente chiuso il capitolo per sempre. Il recupero di materiali su cui avevamo lavorato negli anni 1979-81 è stato determinato principalmente da alcuni fattori contingenti, commissioni, richieste, ma ciò ha potuto liberare quei materiali dall’oblio mitologico e metterli in azione offrendoli pubblicamente. È così che hanno dato vita ad alcuni miei recenti lavori, che non ho potuto che co-intestare anche a Tiziano, seppur lui non vi potesse essere presente che in sola forma sonora, il che è già moltissimo. I due lavori sono stati di natura diversa, in un caso ho assemblato materiali esistenti, le nostre primissime registrazioni, e in un modo filologico, rispettandone la condizione e le finalità, seppur tenendo conto di alcuni elementi a cui ho dato un ordine che difettava; nell’altro ho attuato ciò che nel passato non fu possibile, cioè portare a compimento un progetto di collocazione sonora, recuperando i suoni da noi registrati e immettendoli, in particolari condizioni di soglia, all’interno di nuove registrazioni ambientali fatte ad hoc, che rispondevano agli intenti del progetto originale. Non s’è trattato in nessuno dei due casi di un percorso di generico recupero nostalgico o antologico. Semmai, per entrambi i lavori, la molla è stata di appurare se fosse possibile e in quale misura la loro realtà, o se invece sarebbero solo potuti restare tentativi sulla carta (sul nastro).
Quando componi, in che modo ti importa degli altri?
Ogni composizione nasce da esigenze materiali legate ai suoni e alle loro relazioni, timbriche, strutturali, morfologiche. Nessun altro motivo vi interviene, se non la volontà di comporre. Nessuna relazione, adeguamento, orientamento verso altri interviene, nemmeno verso me stesso. Contano il suono e la sua forma. Ovviamente una forma pubblica. Certo, ogni tanto vi possono essere delle “commissioni” a cui rispondo, però solo nei termini specifici, ovvero relativamente all’ambito della richiesta (etichetta produttrice, festival ecc.). La cosa non ha, nella pratica, alcuna incidenza sullo sviluppo della composizione. Bisognerebbe qui introdurre i concetti di Lettore Modello e Lettore Empirico sviluppati da Umberto Eco per avere ulteriori precisazioni. Eco distingueva tra Lettore Modello, che noi potremmo chiamare Ascoltatore Modello, e Lettore Empirico (Ascoltatore Empirico): il primo corrisponde sostanzialmente a un ipotetico lettore/ascoltatore cui in qualche misura ci si rivolge nella propria attività di compositore/autore, mentre il secondo è il lettore/ascoltatore concreto, quello che nei fatti fruisce e vive la composizione. L’autore dunque tende verso un ascoltatore che abbia caratteristiche tali da comprendere tutte le sfumature che vuole immettere in una composizione, ed è l’unico destinatario verso cui può in qualche misura rivolgersi, se non vuole finire nella caldaia dell’industria musicale e delle sue prerogative commerciali. Ma questo ascoltatore modello è un essere introvabile; esistono solo ascoltatori empirici con tutte le loro conoscenze, i loro limiti, la loro storia e le loro più o meno corrette interpretazioni. Dunque, impossibile pensare di tenerne conto in qualche misura. L’attività compositiva perciò è certamente rivolta verso l’“esterno”, verso il consorzio civile, ma si deve rifiutare di voler corrispondere ad attese e miti di specifici gruppi o “comitive”.
Cosa ami maggiormente nel collaborare con tuo fratello, il compositore Massimo Toniutti?
Le nostre collaborazioni reali e pubblicate sono abbastanza poche, dopotutto. Io e Massimo siamo abbastanza diversi nel modo in cui guardiamo alla composizione. Forse anche in alcuni aspetti relativi alla responsabilità dei suoni, ma abbiamo condiviso e condividiamo anni di analisi, dialoghi, osservazioni intorno alla musica e ai suoi fini, quasi quotidiane, che ci obbligano costantemente e reciprocamente a valutare e considerare il nostro agire compositivo personale. Come detto, alla fine abbiamo collaborato poco, in termini di composizione comune, e questo potrebbe derivare proprio dalla trasparenza dei nostri dialoghi e dall’infinitesima osservazione reciproca. Se vuoi, potremmo dire che la collaborazione reale si situa prima di qualunque messa in atto delle idee musicali, si ferma sulla soglia, in un dialogo prolungato, e poi ognuno si protende verso i propri territori.
Quali credi siano le qualità che lo distinguono e in cosa differiscono le vostre visioni?
Nei fatti, la sua attività musicale è maggiormente improntata a una sorta di empirismo critico, dove l’azione, anche fisica e marcata col suono, prevale sulla teorizzazione delle strutture morfogenetiche. Vi è come un luogo in cui l’operato si dipana attraverso l’inatteso continuo, attraverso la manipolazione a orecchio, per così dire, dal quale cominciano a stagliarsi gli agglomerati formali. Questi assumono la natura di terreni di raccolta dove le architetture diventano conseguenze e non guide delineate per vettori e superfici e campi, come avviene primariamente nel mio caso. L’attività teorica per me accompagna sempre ogni attività pratica, esse sono inscindibili e fondanti. Sono il duale della materia, per così dire. Nel caso di Massimo, invece, è la sua forma di pragmatismo che ha sviluppato in lui una sensibilità notevole nel trattamento delle componenti minute di quei gruppi sonori da cui trae musica, che si determina in attributi molto personali.
L’album che non ti saresti assolutamente aspettato di realizzare?
Probabilmente “Counterchronology”. Le musiche registrate assieme a Tiziano in quei tempi, e si parla del lontano 1979, furono anche da noi successivamente dimenticate, in qualche maniera, relegate a un ruolo di piccoli e forse vaghi esperimenti giovanili. Ho sempre pensato che fossero solamente quello e che mai avrebbero meritato un ruolo pubblico. Poi, come capitano le cose, per caso un giorno, andando a trovare Tiziano dopo vari anni di distanza, probabilmente intorno al 1990, a un certo punto lui estrasse da un mobiletto di casa, pieno di cianfrusaglie, un paio di cassette su cui stavano incise le tracce di quel periodo. Qualcosa che, senza quasi pensarci, una volta rincasato esiliai in mezzo ad altre mie vecchie cassette. Dopo molti anni, Gianfranco Santoro di Final Muzik mi chiese un lavoro da pubblicare e, non so bene come, ripensai proprio a quei nastri e considerai che probabilmente rivedere e provare a dare a quelle registrazioni un senso compiuto, nonostante la qualità tecnica delle stesse, provare a dar loro una conclusione, nonostante la loro condizione “minore”, per così dire, potesse diventare un’operazione interessante. Potesse indicare l’incipit della mia attività, mostrarlo nella sua autenticità nucleale, storicamente fondata, cosa che non avrei creduto fosse in grado di reggere. Alla fine, come vedi, hanno avuto ragione loro, i materiali, a resistere al tempo e alla mia ritrosia.
Figuri tra gli artefici del prezioso box dedicato a Enrico Piva “Anticlima”: come delineare l’indubbio valore del suo approccio sonoro?
Il progetto del box Piva l’ho cullato per oltre un decennio, dopo la sua morte. Ma la cosa era abbastanza difficile da mettere in piedi, non avevo certi suoi primi materiali, pur possedendo molti inediti, e non sapevo bene come affrontare i vari piani e come organizzarli in una edizione antologica. Poi un giorno, nel 2013, parlando con alcuni di quelli che poi sono diventati parte del progetto, ho lanciato l’idea che è subito stata colta positivamente e il lavoro di studio e messa in opera è lentamente cominciato. Un lungo, interessante e faticoso lavoro, dentro i rispettivi archivi, memorie, piani di studio. Sono sempre stato convinto che Piva fosse uno dei pochi ad aver capito alcuni nodi fondamentali della sperimentazione sonora, nonostante si fosse anche poi perso, all’interno delle sue ingarbugliate filosofie.
Cosa vuoi ricordare dell’uomo?
Umanamente è stato un personaggio anche complicato, che ha giocato, credo in certi casi anche involontariamente, con una visione tra vero e falso, tra detto e suggerito, tra successione e sostituzione della realtà, che lo portava a volte a percorrere obiettivi solipsistici. Per molti anni è stato realmente un amico con cui ho condiviso centinaia di pagine e nastri fatti di dialoghi aperti e labirintici, una persona di grandi conoscenze e spiccatissimo spirito di curiosità, con continue trasformazioni del proprio ambito di azione, mai immobile, anzi, quasi inquieto nel suo procedere per eterne nuove regioni. Come compositore, nonostante il suo progressivo ritiro dal pubblico, ha saputo molte volte intravedere esiti musicali totalmente suoi, in cui la matericità del suono diventava vieppiù carattere intrinseco della composizione, in cui gli elementi reali scoprivano il lato visionario e l’ordito, in cui la concettualità diveniva fenomeno ancor prima di essere oggetto del desiderio, in forme e progressioni uniche e tutto ciò fino a silenziarsi. Ci sarebbe ancora molto da studiare del suo lavoro.
Cosa chiedi, oggi, alla tua musica?
Una sempre maggiore attenzione al dettaglio, non in senso estetizzante, anzi proprio in senso concreto, concretissimo. Un rigore del suono e della forma, che non significa distacco e rigidità, affatto. Una specie di radicalismo caldo, se posso così dire. Si tratta di una necessità, che si è sviluppata nel tempo, di chiarire i molti e piccoli punti di snodo in una musica, i cosiddetti punti di biforcazione che costantemente si incontrano o con cui inevitabilmente ci si scontra, e di renderli sempre più decisivi ai fini della forma, e dal loro interno. Sia che questo avvenga in strutture la cui densità è alta oppure al contrario in costruzioni estremamente rarificate, è esattamente la stessa cosa. Vi è esattamente la stessa natura e necessità, ovvero quella di rendere gli accidenti sonori, che appaiono durante la generazione di un suono, dei veri nodi fondativi, diciamo dei giunti cardanici delle strutture musicali, e per farlo c’è la necessità di operare in modi sempre più definiti su quelle che io chiamo mesostrutture, in altre parole le strutture di articolazione di una composizione musicale. Che si tratti, ad esempio, della microtonalità nei rapporti tra frequenze o di variazioni di densità nei rapporti tra gruppi e forme locali. È una forma di vivezza che cerco, in grado però di tralasciare le scontate esuberanze colorite di balzi e slanci, i facili istrionismi acchiappamosche, a favore invece di un rapporto più disteso nella materia, una forma di cognizione accurata.
Dovessi azzardare una previsione, quale credi potrà essere il cambiamento più drastico al quale assisteremo, nei prossimi anni?
Non ne ho la più pallida e nemmeno la meno pallida idea. Non amo la futurologia delle previsioni assistite, ovvero quelle previsioni che si basano sulle conoscenze di oggi. Sono solo vaghe speranze o miraggi spaventati. Se guardiamo alle previsioni fatte in passato, mediamente la percentuale di quelle che hanno effettivamente trovato un riscontro nel tempo futuro e immaginato sono state pochissime. Moltissime quelle invece che hanno pensato a mutamenti epocali, che poi non si sono verificati, e sicuramente non nei tempi e nei modi previsti. I cambiamenti della realtà sono sempre fatti di miliardi di piccole linee, di punti che saltabeccano ognuno con tempistiche differenti, ognuno con sviluppi a sé, e ricascano dove loro aggrada senza tener conto delle nostre futili interpretazioni. Noi, ad esempio, siamo ben poco differenti, biologicamente parlando, dai nostri antenati di 100 mila anni fa e oltre. Non significa che siamo ancora la banale (e sbagliatissima) rappresentazione del cosiddetto uomo della pietra, stupida visione ottocentesca. Nella realtà biologica dei fatti, quell’uomo era molto, molto simile a ciò che oggi siamo, fatta la tara per differenze tecnologiche ed economiche, ma i nostri meccanismi fisiologici, quelli biologici e spesso anche quelli psicologici differiscono poco. Ci troviamo a guardare alla realtà in modi simili. Ma questa, a mio parere, è un’acquisizione estremamente utile e interessante.
Una verità indubitabile sulla quale ha edificato la sua esistenza?
Non conosco verità indubitabili. Volendo giocare con le parole direi che conosco solamente veri dubbi. Penso che la nozione di verità sia associabile solo a un livello estremamente locale della realtà. Ad ambiti molto specifici. E molto probabilmente, come vediamo nelle scienze, quella verità locale sarà soggetta a costanti revisioni, a riforme parziali o globali, a riscritture. Per questo non mi permetto nemmeno di affermare, tipico scialbo paradosso, che l’unica verità a cui credo sia il dubbio. No, il dubbio è uno strumento utile, un meccanismo indagatorio, così che, forse, meglio si potrebbe affermare che l’unica cosa su cui si debba dubitare è proprio ogni presupposta verità che ci si presenta di fronte. Non per smontarla aprioristicamente, in favore di altre verità che risultino altrettanto sindacabili, ma per maneggiare la complessità attraverso la critica e la verifica costanti dei dati in possesso. Il mondo non ha bisogno di verità, di schemi chiusi e immobili. Questi sono estremi palliativi per le insicurezze e i fanatismi, ma si nascondono a sé.
L’ultima volta che una musica ti ha impressionato?
Interessante quesito. È evidente che col passare di tempo ed esperienze, le impressioni vengono ad assumere connotati molto diversi dalle prime novità incontrate in gioventù. Probabilmente, innanzitutto, cambia la natura dell’impressione e della stessa impressionabilità. Oggi non è certo l’impressione a guidarmi, e lo era pochino anche in gioventù. Del resto, la conoscenza dall’interno dei meccanismi compositivi conduce a volte ad alcuni involontari eccessi analitici. Non se ne può fare a meno. Però è vero che esistono molte cose che continuano a cogliermi “impreparato”, costringendomi a sviluppare ragionamenti e trovare soluzioni adatte, su vari piani. Negli ultimi anni poche nuove musiche sono state in grado di spingermi a rivedere i miei principi di scrittura e progettazione, per così dire. Ci sono sì sonorità nuove e interessanti, che ogni tanto appaiono qui e là dentro musiche recenti e contemporanee, nuove opzioni interpretative, anche se spesso solo accennate, ma per quanto riguarda la morfologia delle strutture e i loro particolari, trovo che ci sia un certo ristagno, una qualche frequente accondiscendenza verso forme risapute o perlomeno già quasi codificate, con tutto un florilegio di generi e sottogeneri che si autoalimentano e autoidealizzano. Credo sia la conseguenza di un esempio di eccesso di senso pratico, una logorrea nei meccanismi e un rallentamento negli effettivi processi di ricerca sulla forma. E la musica è forma.
Come studioso di linguistica, qual è il tuo punto di vista rispetto al movimento woke e alla sua urgenza di cambiare il linguaggio e rinnegare parte della Storia culturale e artistica, a livello globale?
Credo che esistano mode. Le mode non portano mai nulla di particolarmente fondante per la costruzione delle società. Sono imbonitori che provano ad accerchiare la normale intelligenza delle cose. Così che quando, purtroppo, si insediano in tirannide, ad esempio, e determinano il destino degli altri, alla fine la loro caduta, la loro conclusione spesso cancella gran parte di quella serie di costrizioni della logica che furono forzatamente imposte o passivamente gradite. Sarà così per molte mode di oggi, come è già avvenuto in passato. Poche mode lasciano un qualche grado di conoscenza, e spesso non nella forma che prevedevano. Inoltre ricordiamoci che le lingue sono estremamente persistenti, anche se duttili. Non essendo un appassionato delle mode, ancor meno di quelle del momento e dei loro dibattiti, spesso piuttosto approssimativi (non li seguo e li conosco molto limitatamente), farò qualche affermazione generale. Il problema dunque, e parlo soprattutto da studioso di lingue, è che molte delle recenti proposte che vorrebbero “meglio rispondere” alle esigenze politico-sociali apparentemente impellenti, e mi riferisco ad esempio al dibattito intorno al linguaggio e i generi, sono derivate e modellate su base anglosassone. In questo modo difettano di una seria applicazione universale e immediata, particolarmente su lingue che hanno proprietà diverse, necessità sintattiche e grammaticali spesso largamente inadatte rispetto ai modelli proposti e alle loro soluzioni. Per non parlare del vuoto assiologico che si verrebbe a creare in lingue in cui la nozione di genere è tutt’altra rispetto a quella anglosassone, o che adoperano sistemi ordinatori dei campi semantici di tipo differente (mi riferisco a lingue con classificatori, a esempio). Ma sarebbe anche interessante chiedersi se le fondamenta "inclusiviste" di questi modelli, in realtà non appartengano molto più a una sorta di neocolonialismo, per così dire, un tentativo di “conversione” al proprio modello anche per differenze culturali che possiedono ben altre occorrenze. E in questo cancellando una conoscenza nelle varietà del mondo. Capisco che tutto ciò voglia ruotare attorno al tema dei diritti, condivisibile tema, che però a mio parere necessita ben altro e in tutt’altra portata. Il resto molto spesso s’è trasformato in una specie di autocrazia dell’eufemismo, una neutralizzazione di ogni perpendicolo, di ogni vertigine della realtà, che verrebbe a produrre solo una sorta di regolarità molesta e infruttifera.
Cosa ricerchi, oggi, che non ricercavi in gioventù?
Si tratta sempre della stessa tipologia di percorso, che da un lato s’è andato ovviamente affinando con l’esperienza e le conoscenze, e dall’altro anche ramificandosi e differenziandosi, sì da tentare di comprendere, per quanto possibile, tutti i campi del sapere a cui riesco ad avvicinarmi. Seguendo le necessità e non un’erudizione fine a sé stessa. La ricerca non è solamente uno strumento, non è semplicemente una condotta su cui convalidare le proprie idiosincrasie. La ricerca, l’attitudine sperimentale sono un cammino continuo, sono una parte che forgia i modelli della realtà studiandone i fenomeni. E le conoscenze sono un campo in fermento persistente. Chiaramente le cose si svolgono spesso per periodi, per intervalli dentro i quali si privilegia certi studi rispetto ad altri. Nei miei ultimi anni, ad esempio, è entrato di prepotenza lo studio della microtonalità spinta fino alle bande critiche, in una forma di scomposizione e ricomposizione dei fenomeni sonori a un grado microscopico, per così dire. Immagino che arriverà un prossimo periodo, che non oso né sono in grado di prevedere, nel quale la ricerca si focalizzerà maggiormente su qualche diverso parametro fenomenologico. Queste sono le regioni emergenti delle linee di ricerca, ma la ricerca non è qualcosa che serve a “trovare” qualcos’altro. Come chiese ironicamente Andrea Zanzotto: "E l’avanguardia ha trovato, ha trovato?". Il punto non è quindi trovare chissà che, la ricerca è in realtà un effetto, il risultato di una visione del mondo che si dispiega sul mondo stesso.
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Più che nella figura classica dell’artista, io mi ritrovo in quella del ricercatore. Credo che la mia attività si avvicini molto a quella del ricercatore di tutte le epoche, che opera su base teorica ed empirica, sui materiali e sulla loro morfogenesi. Che proietta teorie e ne verifica i risultati. In questo ruolo ciò che trovo incredibile è lo spazio che mi si pone sempre davanti, ogni volta che inizio un nuovo lavoro. O che medito un nuovo lavoro. Esiste una tale varietà di campi di studio, di elementi, cose, variabili, concause che il passaggio più sorprendente e intricato è innanzitutto quello di mettere a fuoco l’obiettivo di lavoro, riuscire a non cadere nelle abitudini e allo stesso tempo venir condotti dalle materie che si interrogano acusticamente. L’artista e il ricercatore dialogano con la materia direttamente, e se riescono anche a non subirne il fascino sì da rimanerne invischiati e soggiogati, possono essere in grado di trarre da questo dialogo modelli validi anche per la realtà in cui vivono. Si tratta di una osservazione nel profondo delle dinamiche della materia per via diretta, che resta costante anche al di fuori dell’ambito musicale. Bisogna però saper porre le domande corrette per ricevere delle risposte utili, e certo anche imparare a sgonfiare il proprio ego.
(09/02/2025)
Wechselwirkung (1982) | |
Metánárkōsis (1983) | |
Das Todesantlitz (1983) | |
La Mutazione (1985) | |
Epigènesi (1986) | |
Кулáк (Camma) (1990) | |
Tahta Tarla (1993) | |
*KO/USK- (1997) | |
Ura Itam Taala' Momojmuj Löwajamuj Cooconaja (2007) | |
Qʷalsamtimutkʷʔitaluc'ik (2008) | |
Iĝilaĝiilal Aglalgal (2010) | |
Counterchronology (2015) | |
The Sound-Placing Land Bridge (2016) | |
L'appendino (1849) (2019) | |
Drookitarlùp (2020) | |
Batlahatli (2021) | |
Disperse Specie Del Mio Sonno Che Mai Ritornerà (2023) | |
Bàardum Guùmuse (For Your Red Tongue) (2024) | |
Due scritti imperfetti (2024) |