Jon Foreman

Una corda tesa verso l’infinito

L’infinito in una canzone. C’è una costante tensione tra contingenza ed eternità, nella musica di Jon Foreman. Alla guida degli Switchfoot, in oltre dieci anni di carriera ha conquistato dischi di platino e nomination ai Grammy. Come solista, lo scorso anno si è messo a nudo attraverso l’intimo songwriting di una serie di Ep ispirati al succedersi delle stagioni, attraverso un percorso in cui ad essere sempre al centro è il desiderio continuo di paragonare ogni cosa con le proprie domande. Nell’intervista che ci ha concesso in esclusiva, ogni parola ha un peso inconfondibile: quello dell’esperienza affrontata fino ad arrivare alla sua radice.

In Italia, il tuo nome e quello della tua band non godono ancora della stessa fama che hanno ormai conquistato negli Stati Uniti… Se avessi a disposizione un’unica frase, come ti presenteresti a qualcuno che non conosce nulla della tua musica?
Musica a base di chitarra per gente capace di pensare.

Ci racconti qualcosa degli albori del tuo percorso professionale? Quando e come hai scoperto che volevi diventare un musicista?
Ho sempre fatto del gran rumore con pianoforti e chitarre. Ad essere onesti, non sono sicuro che ci sia mai stato un momento in cui io non volessi diventare un musicista…

Dopo dieci anni con una band di successo, che cosa ti ha spinto a rimetterti in discussione come solista? Secondo te che cosa occorre per non accontentarsi, per mantenere sempre vive le proprie domande?
Ho paura dell’ignoto ma ne sono anche attratto, voglio conoscere ciò che c’è dall’altra parte. In qualche modo questi Ep derivano da questa spinta. Ma per lo più le canzoni hanno determinato da sé il loro destino, io ho solo seguito i fili sparsi.
Suppongo che la maggior parte delle domande più vere nella mia vita nasca dal dolore. Quando nella vita sperimentiamo fatti che rimandano a qualcosa che va oltre la nostra esperienza, spesso incontriamo la cosa più importante, forse addirittura l’Altro. La paura può uccidere queste domande, se non stai attento.

I brani dei tuoi Ep sono intessuti più che mai di riferimenti biblici, ispirati soprattutto ai versi dei salmi. Il modello dylaniano (quello di brani come “Every Grain Of Sand”) sembra averti segnato profondamente. Secondo te che cosa rende quelle parole capaci di parlare ancora oggi al cuore dell’uomo?
Non sono esattamente certo di che cosa dia alle parole il loro potere. Una vecchia canzone può perdere il suo potere, non importa quanto sia vera. Credo che il ruolo di un cantautore / profeta / amante / amico / essere umano sia cercare e testimoniare la verità nei modi che sono appropriati alla sua specifica situazione.
Nella storia giudaico-cristiana della creazione c’è un Dio che tramuta le parole in carne. Che tu stia scrivendo una canzone oppure offrendo incoraggiamento alla tua ragazza, stai in ogni caso entrando in quel divino regno di creazione e relazioni dove le parole hanno un potere incredibile.

Oggi fede ed espressione artistica vengono spesso considerate quasi incompatibili tra loro: al massimo vengono create categorie su misura (ad esempio il cosiddetto “christian-rock”), partendo dal pregiudizio secondo cui chi crede in qualcosa non avrebbe nulla da dire all’uomo in quanto uomo, ma dovrebbe rivolgersi tutt’al più ad un pubblico di persone che abbiano la stessa fede. Al contrario, la tua esperienza sembra mostrare qualcosa di diverso…
Tutti noi esseri viventi abbiamo una cosa in comune: la morte sta arrivando. È in questa condizione tragicomica che cerchiamo il significato e la speranza. È da qui che vengono le mie canzoni. Questo è il terreno comune. La speranza, la ricerca, il sogno, la vita, la morte. Questi sono i miei simili: atei, cristiani, agnostici, surfisti, studenti, senzatetto e milionari.
E’ fastidioso e troppo prevedibile credere che le sole persone da amare per me siano quelle con cui sono d’accordo. Questo modo di pensare alimenta il razzismo, il fascismo e la paura. E si può vedere questa orribile vena di intolleranza tanto nella destra quanto nella sinistra. Eppure la musica è uno dei soli ospiti che si intrufola nelle nostre menti senza invito. Faccio tesoro di molte canzoni scritte da gente che aveva un modo di intendere la vita diverso dal mio. Mi aspetto che la gente aperta di mente ascolti le mie canzoni nello stesso contesto: semplici espressioni di verità, bellezza, dolore e speranza.

Il concept che ispira i tuoi Ep, dedicato al succedersi delle stagioni, sembra ruotare intorno al tema del senso del tempo. In particolare, nel brano conclusivo del ciclo, “Again”, utilizzi l’immagine della conversione del cuore degli uomini come chiave della storia: “You are turning our hearts back to you”. Di fronte alla drammaticità dei tempi in cui viviamo e allo scetticismo di chi crede che nulla possa cambiare, pensi che una posizione del genere sia realistica o utopica?
Credo che sia stato C.S. Lewis ad aver detto che supportava la democrazia perché diffidava allo stesso modo di tutti gli uomini. Riesco a comprendere il suo sentimento, ho pochissima fiducia negli uomini. Credo che l’Infinito Altro sia la sola speranza per qualsiasi forma di libertà dalle nostre svariate forme di auto-tirannia. Senza questa speranza non sono solamente scettico, sono senza speranze, quasi suicida.

Al cuore dei tuoi testi c’è spesso un capovolgimento di prospettiva: in “Revenge” la vendetta coincide con l’amore, in “Baptize My Mind” l’amore coincide con il sacrificio… Che cosa significano nella tua vita questi apparenti paradossi?
La maggior parte della vita è in uno stato di tensione. L’oscurità con la luce, l’amaro con il dolce. Come una corda di chitarra legata stretta tra due estremità. La tensione è scomoda, inquietante. E tuttavia senza la tensione la corda non avrebbe alcun tono. Spesso l’animo umano può rivelarsi uguale. Sono attratto dalla poesia perché la tensione di questi paradossi viene accettata senza essere spiegata. Spero che la mia sia una di quelle vite che si addentrano nella tensione senza cercare di fuggire via.

Il simbolismo dei quattro Ep si riversa anche sulle singole immagini di copertina, dove appare un albero le cui sembianze si modificano al susseguirsi delle stagioni, in parallelo con i colori e con la trama cartacea del panorama sullo sfondo. La cura per l’artwork, l’uso della carta riciclata, il gusto per la fisicità del cd: ti sei occupato personalmente di tutti questi aspetti?
Ho fatto tutto l’artwork da solo.

Recentemente è stato pubblicato “Limbs & Branches”, una raccolta di brani tratti dai quattro Ep, con l’aggiunta di un paio di inediti. A quanto abbiamo potuto leggere in giro, hai selezionato i brani tenendo sotto mano una specie di classifica dei preferiti dai tuoi fan. Quali sono i quattro brani (uno per ogni Ep) preferiti da Jon Foreman? Ci racconti qualcosa dei due inediti?
Mmmmmm… Davvero non so come potrei sceglierne quattro. I due inediti sono canzoni registrate durante il processo ma per svariate ragioni non sono mai entrate a far parte di uno degli Ep. Una delle due è una canzone decisamente a tinte scure. L’altra sottende un po’ più di speranza.

Sulla copertina di “Limbs & Branches” ricompare di nuovo la simbologia dell’albero. I colori e lo scenario fanno presupporre che per questa raccolta tu abbia scelto un’ambientazione “da mezza stagione”, tornando a uno scenario simile a quello del primo Ep. A questo proposito viene alla mente il film di Kim Ki-Duk “Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera”, in cui il regista coreano esprime attraverso le stagioni una concezione di lenta e ineluttabile ciclicità dell’esistenza. Per te la vita è un eterno circolo o una strada con una mèta?

La maggior parte della vita è in un continuo movimento circolare. Senza senso, senza senso, è tutto senza senso. E nonostante questo ci sono scintille e lampi di trascendenza… momenti in cui ciò che è temporale fa spazio a un brandello di infinito nella stanza. Credo che questo sia indice di un significato più grande del continuo movimento circolare. Credo che noi siamo responsabili per il modo in cui trattiamo gli altri, che né l’amore né l’odio siano inevitabili o casuali – tanto la guerra quanto la gentilezza sono frutto di scelte.

“La bellezza salverà il mondo”, per usare la celebre profezia di Dostoevskij: secondo te che cosa occorre a una canzone per riuscire a portare un frammento di quella bellezza assoluta?
L’onestà sarebbe un buon punto di partenza.

Sei cresciuto come artista in una band nata intorno a una compagnia di amici. Qualcuno ha detto che nella vita si può sbagliare tutto, ma non nella scelta dei propri amici: guardando alla tua storia, che importanza pensi che abbiano gli amici rispetto al tuo cammino di uomo?

Sono vivo proprio grazie ai miei amici.

Sul tuo MySpace dici di essere in un andirivieni di performance live già dal lontano 1997. Quali erano nel 1997 le tue sensazioni quando salivi sul palco e calava il silenzio, appena prima di dare l’avvio a un concerto? E quali sono le tue sensazioni oggi?
Nel 1997 il pubblico per il quale suonavamo raramente restava in silenzio! Odiavo suonare musica dal vivo per via della sua definitività: in un live ogni nota, sbagliata o no, è definitiva. Preferivo nettamente la forma di musica registrata, nella quale potevo trovare un po’ più di grazia.
Le mie sensazioni oggi vanno spesso nella direzione opposta. Amo la definitività di un live. Può succedere di tutto. Quando le cose da giuste diventano sbagliate ti ritrovi a spingere più forte che mai. In questi momenti la musica ti trascina in avanti piuttosto che indietro.

L’anno scorso hai realizzato con gli Switchfoot un brano per la colonna sonora del secondo film delle “Cronache di Narnia”. C.S. Lewis sosteneva di aver scritto la saga di Narnia perché non voleva che l’educazione fosse basata sul dovere, sul moralismo, ma sull’immedesimazione. “An obligation to feel can freeze feelings”, affermava. Tu che cosa ne pensi?
Non sono del tutto sicuro del contesto relativo a quella citazione… ma ho la sensazione che come fattore di motivazione l’empatia sia migliore della matematica. Gli uomini più educati al mondo sono spesso impiegati nel vincere le guerre. Il dovere si può ritrovare alla base di alcuni dei momenti più bassi nella storia della specie umana.

La “Lowercase People Records”, l’etichetta che ha licenziato i tuoi lavori solisti, è parte di un progetto più ampio fondato dagli Switchfoot per dare rilevanza alla “lowercase people” (letteralmente: “gente con la ‘g’ minuscola”, nda), dalla promozione di artisti sconosciuti al grande pubblico al sostegno alle comunità del Terzo Mondo. Ci racconti qualcosa di questo progetto?
Lowercase People era un sogno per vedere la bellezza in azione. Era un fuoco che non ha preso la direzione che avevamo sperato. Così abbiamo deciso di legare la nostra musica a questi progetti in altri modi. I ricavati e la sensibilizzazione legati direttamente alla musica attraverso i tour e le vendite nei negozi…

I tuoi Ep solisti sono come una sorta di diario personale. Che cosa c’è invece al centro del tuo nuovo progetto Fiction Family, nato dalla collaborazione con Sean Watkins dei Nickel Creek?
Il cuore delle melodie scritte con Sean è rappresentato dalla finzione, come implica il nome stesso del progetto. Ad esempio, “Please Don’t Call It Love” trae ispirazione da “The Sun Also Rises” (“Il sole sorgerà ancora” di Hemingway, n.d.r.).

La parola “switchfoot” che dà il nome alla tua band deriva dal gergo surfistico e indica la capacità di fare surf mettendo indifferentemente davanti il piede destro o quello sinistro, un po’ come se si fosse ambidestri. Il surf è una delle tue più grandi passioni e ogni volta che ne hai occasione voli sull’oceano per praticarlo. Quali insegnamenti tratti da questa disciplina sportiva hai potuto applicare alla tua musica?
La pazienza.

(19/05/2009)

Discografia

Fall, Winter, Spring Summer (Lowercase People / Credential, 2008)7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

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