Michael Stearns

Il maestro dell’espansione totale

intervista di Filippo Bordignon

Una bruma crepuscolare avvolge l’imprescindibile discografia di Michael Stearns; tra i rivoluzionari di ambient e new age a partire dalla seconda metà degli anni 70, il compositore americano, classe 1948, vanta, dalla propria, una complessità stilistica che lo avvicina in realtà ad alcuni dei nomi più blasonati della musica seria, anche grazie a un approccio “concrète” in cui la tecnologia trascende il suono, per azzardare nuove vie a procedere. Più dei colleghi Steve Roach, Robert Rich e Kevin Braheny, egli fa proprio un eclettismo derivato non tanto da una ricerca sistematizzata, quanto dal modus operandi di chi si abbandona con fiducia al processo compositivo e improvvisativo, evocando musiche già esistenti in luoghi a noi ancora insondabili. Affidandosi a un paio di accordi al synth, sovente, Stearns tratteggia emozioni di pura elevazione; con il ricorso a strumenti di propria invenzione (uno su tutti, il Beam), confeziona colonne sonore di austera bellezza, autosufficienti rispetto alle immagini a cui vengono affiancate. Una bruma crepuscolare avvolge queste composizioni, si asseriva, ed è un’impalpabile presenza nella quale la materia sonora entra, e dalla quale escono testimonianze di Tempo e Spazio dilatati all’inverosimile. Non la drone music del minimalismo estremo, quanto piuttosto il ritratto di un organismo pulsante, che vive e muta lentissimamente all’interno delle orecchie. Senza intellettualismi o adesioni a questo o quel genere, Stearns prosegue ancor oggi in una carriera estranea ai compromessi, testimone di un linguaggio biofilo in cui l’uomo è solo il tassello di un più grande mistero.

Michael, partiamo da un album poco noto ma di altissima caratura, “Sustaining Cylinders/Sleeping Conches”, siamo nel 1977.
Bene. L’album è stato ricavato da esplorazioni sonore con lo strumento microtonale Ikosany, progettato da Erv Wilson, e da registrazioni di utensili da cucina e dal suono di una tavola da surf. All’epoca avevo pochi soldi ma abbondava la voglia di creare paesaggi sonori utilizzando qualsiasi cosa mi si presentasse a tiro. Erv aveva riaccordato le barre metalliche di un vibrafono a specifiche altezze, relazionandole agli intervalli musicali prodotti dall’Ikosany. Era uno studio basato sulle relazioni matematiche presenti nell’icosaedro. Ho registrato il suono colpendo ogni barra con il preamplificatore del microfono completamente abbassato, per poi sfumare il suono verso l’alto, al fine di determinare un attacco lento; tieni conto che, a quel tempo, i circuiti elettronici ADSR non erano ancora stati inventati. Il registratore a nastro che ho usato è stato successivamente rallentato a ½ velocità, per creare l’effetto texture tipico del pezzo. Sul lato dell’Lp con “Sleeping Conches” ho usato la stessa tecnica, colpendo però gli oggetti della mia cucina: pentole, padelle, argenteria ecc.; questi toni sono stati poi mescolati con il suono di una tavola da surf che solca le onde, che avevo “catturato” a Yelapa, in Messico.

Una delle tue prove da studio più originali è certamente “Lyra Sound Constellations”, dell’83. Come si è sviluppato il progetto?
L’artista George Landry aveva progettato una grande installazione d’arte all’interno della sua galleria Double Rocking G, nel distretto artistico al tempo ubicato nel centro di L.A.. L’aveva chiamata appunto Lyra Sound Constellation, e consisteva in 156 corde tese dal pavimento al soffitto; alcune di esse erano lunghe più di 6 metri. George mi chiese di aiutarlo a progettare i meccanismi di accordatura e a produrre un sistema di amplificazione del suono per Lyra. Una volta completata, l’installazione era aperta al pubblico ogni giorno, in orari specifici: i visitatori ci si muovevano attraverso suonandone le corde e alcuni portavano magari uno strumento musicale per esibirsi insieme a Lyra. Durante il periodo di apertura, ho tenuto una serie di concerti affiancandomi a Lyra: io stesso e alcuni artisti l’abbiamo suonata, e altre volte ho suonato il mio synth analogico modulare Serge Synthesizer. Tutte le composizioni presenti nell’album sono state ricavate durante quelle esibizioni, impiegando solo una coppia di microfoni Neumann M 49.

Esiste un metodo sicuro per recalcitrare le proprie influenze formative, trovando così uno stile originale?
Per me resta un mistero! Il mio stile si è evoluto lungo la strada, comparendo dal “dispiegarsi” della mia stessa vita. Forse è il mio stile ad aver trovato me. Ho avuto la fortuna di non avere una formazione musicale strettamente formale: ho studiato, questo sì, la fisica degli strumenti musicali e del suono... e ho incontrato nel corso del tempo molti musicisti, artisti, compositori, esperti di musica microtonale, scienziati, tecnici dei generi più disparati da cui ho imparato e che hanno influenzato il mio modo di affrontare la composizione. Inoltre, ho avuto la fortuna di poter viaggiare, immergendomi nei suoni del mondo naturale e nelle musica di popoli a me distanti, non solo in quella che chiamiamo musica “occidentale”. Per un compositore con una formazione conservatoriale è necessario possedere un bisogno aggiuntivo, al fine di trovare la forza per uscire da quella “sabbiera” della musica in cui si è formato. Ed è raro trovare qualcuno che lo faccia.

A differenza di molti tuoi colleghi, in te non risulta evidente l’influenza della “komische musik”.
Ancor oggi, chi si rifà a quella corrente ha un atteggiamento diciamo “di maniera” nell’impiego di una strumentazione spesso assai tradizionale, che di norma prevede basso, chitarra, batteria e synth. Molti compositori risuonano bene, secondo quell’approccio. Ma non è il mio caso.

E invece è presente, in ogni tua “incisione”, l’adesione a una modalità mistica di percepire la realtà, qualcosa di simile a quanto descritto, a esempio, dai grandi maestri del sufismo.
Fin da bambino ho avuto esperienze al di fuori dalla realtà comune. Potremmo definirle “fuoriuscite dalla sabbiera”. A livello più formale, ho trascorso settimane in meditazione silenziosa, e sono stato benedetto da una profonda immersione nel nostro mondo naturale. Questi aspetti nutrono radicalmente la mia musica.

Quali sono i vantaggi che un’arte non-narrativa offre ai suoi estimatori?
Con l’arte non-narrativa non c’è nessuno che interpreta per te, che ti dice qual è la storia, che ti fornisce una descrizione di ciò che stai vedendo o ascoltando, che ti dà indicazioni su come dovresti sentirti, che crea una connessione a te familiare o una narrazione da seguire. Non c’è un copione o una voce fuori campo che ti parla di ciò a cui stai assistendo. Non ci sono “attori” attraverso i quali viene raccontata una storia. Mediante l’arte non-narrativa tutto è dentro di te, in qualità di spettatore. Sei tu a imporre le tue storie, i tuoi sentimenti, le tue emozioni sull’arte. O forse è l’esperienza dell’arte che crea uno spazio dentro di te, per scovare qualcosa di nuovo.

Cosa si potrebbe rischiare di scoprire?
Si potrebbe scoprire cosa significa essere un “tu” ma in un modo diverso, al di fuori delle storie che ci raccontiamo continuamente.

La tua strumentazione, a oggi?
La strumentazione si evolve costantemente, si dissolve, muta man mano che arrivano nuovi strumenti da sperimentare o da utilizzare per progetti specifici. E gli strumenti non utilizzati da tempo, poi, trovano delle nuove case. Al momento sono focalizzato su una Roli Seaboard 2 come controller, un laptop coi vari synth virtuali, il synth modulare Waldorf Iridium, un 3RD Wave, un Korg Wavestate, un ASM Hydrasynth e, per finire, un Moog One. C’è inoltre una sezione dello studio con un grande sistema modulare Eurorack - molto divertente per le esplorazioni sonore - e strumenti collegabili al Soma e al Folktek, oltre a un’area con le chitarre e altri strumenti acustici. I computer dello studio ospitano, ovviamente, anche un assortimento di sintetizzatori software.

La rivoluzione digitale ha mutato il tuo approccio alla composizione?
L’atto compositivo è sempre stato un processo intuitivo, per me. A volte qualcosa mi ispira, è chiaro, a volte invece mi siedo alla tastiera e succede. Sembra esserci un “filo” invisibile che seguo. Quanto al mondo digitale, per certi versi, ha aperto nuove strade a chi vuole esplorare: attualmente ci sono più modi, rispetto al passato, per catturare ed elaborare immediatamente il materiale sonoro, e in questo gli strumenti digitali sono meravigliosi.

I suoni prodotti spontaneamente dalla natura intorno a noi possono essere considerati una composizione vera e propria, capace di riconnetterci con quanto di divino ci alberga?
La musica fatta dall’uomo, nasce dalla mente dell’uomo. Nella natura non c’è una mente, non c’è un referente riconoscibile. Non c’è separazione, se non quelle che creano i nostri pensieri, sicché tutto avviene in armonia, come un unico svolgimento. Ecco perché una semplice passeggiata nel bosco può essere così significativa e ispiratrice.

Tra i tanti, hai collaborato con la madre fondatrice del genere new age, Constance Demby.
Ho suonato spesso con Constance, era un’amica speciale. Ci siamo esibiti individualmente e insieme, alle fiere New Age, alle conferenze di Asilomar ecc. Lei ha suonato il suo Space Bass e la Whale Sail nell’apertura della mia colonna sonora per il film “Chronos” di Ron Fricke. Se non ricordo male, fu la nostra amica in comune Anna Turner, a contattarmi per suonare nel suo “Novus Magnificat”.

Fricke non è solo un grande direttore della fotografia: attraverso film quali “Chronos”, “Baraka” e “Samsara” - per i quali tu hai curato le colonne sonore - si è dimostrato regista di documentari artistici spesso superiore al più noto Godfrey Reggio.
Ron è un artista con una visione sul mondo davvero unica. Oltre a essere un direttore della fotografia e un regista, è un pittore e ha inventato particolari meccanismi tecnici per le telecamere e per i supporti di sostegno delle stesse. Come tecnico delle luci è un genio. Ed è anche un “meditatore”. Lavoriamo insieme in modo molto intuitivo: non sono necessarie parole tra di noi, basta seguire il flusso. Ma va citato anche il suo collaboratore, Mark Magidson: senza Mark, altro genio a tutti gli effetti, forse, non saremmo mai stati esposti alla grandezza di Ron.

“Lightplay” (’83) è una delle tue prove da studio più dense. Qual era la tua intenzione di partenza?
Ti assicuro che non mi propongo mai di raggiungere alcun risultato, con la mia musica. Non mi viene mai in mente di farlo. La musica accade, e basta. Molto probabilmente, essa è un’espressione della mia partecipazione alla vita, nel momento esatto in cui la compongo e la registro.

Come fluiva la tua vita, ai tempi dell’esperienza Continuum?
Nel 1975 lasciai Tucson per unirmi al Continuum movement di Emilie Conrad, che faceva base a Los Angeles. A Tucson suonavo in una band sei sere a settimana, frequentavo il college e passavo le giornate bazzicando zone desertiche e le montagne dell’Arizona meridionale, i luoghi in cui sono cresciuto. Lasciarli è stato un punto di svolta importante per me, ha significato davvero lasciarmi tutto alle spalle e ricominciare. Oltre al Continuum, sono stato introdotto nel movimento della elettronica di L.A. e lì ho trovato l’habitat ideale per svilupparmi musicalmente. È stato un nido d’incubazione per me, ma anche per Kevin Braheny, Steve Roach e molti altri.

L’album “Desert Solitaire” (’89) riunisce i tre grandi rinnovatori dell’ambient statunitense, che siete appunto tu, Kevin e Steve. Come vi siete ripartiti i ruoli in quell’occasione?
Se ben ricordo, tutti e tre siamo stati commossi dal “Desert Solitaire” di Edward Abbey, un libro meraviglioso che racconta le esperienze dell’autore come ranger del parco sito nei canyon dello Utah meridionale. Tutti e tre avevamo trascorso del tempo in quell’ambiente e ne eravamo stati profondamente influenzati. C’è un “motivo” interiore, che ci ha portato a comporre l’album omonimo. Abbiamo deciso di registrare sia collaborazioni tra di noi che pezzi solisti, come espressione del mistero di quelle terre. Steve e Kevin si sono sempre sentiti come parenti di un altro tempo e di un altro spazio, e per me è stato un piacere condividere il progetto con loro.

Godendo della purezza di un album come “Singing Stones,” (’94) c’è da chiedersi se noi esseri umani dell’era iper-tecnologica possiamo ancora connetterci con quella spiritualità che ci conduce alle rivelazioni di Madre Natura.
Non è solo possibile, è probabile. Succede ogni giorno. Ma accade a livello individuale. La vita è un tale meraviglioso mistero.

Per chi non ti avesse ancora ascoltato, quali sono i titoli per iniziarsi alla tua estetica?
Probabilmente inizierei con il mio esordio, “Ancient Leaves” e proseguirei con “Morning Jewel”, “Planetary Unfolding”, “Chronos”, “Encounter”, “The Lost World” e “Baraka”. Tra le collaborazioni, citerei “Beyond Earth & Sky” con Steve Roach.

L’album che meglio riassume la tua evoluzione artistica degli ultimi anni?
Durante la pandemia del Covid ho registrato diversi nuovi album, il primo dei quali si intitola “In The Garden” e uscirà all’inizio del 2025. Sarà, probabilmente, all’interno della mia discografia, il titolo che meglio riassume quanto registrato fino a quel momento.

Perdendosi nella tua musica si ricava la sensazione che il riverbero trionfi sul battito che l’ha generato.
Il riverbero ha a che fare con lo spazio e crea per l’ascoltatore un ambiente sonoro spaziale che risuona, internamente. Sai, incorporare in un determinato modo il riverbero nei miei brani è sempre stata una parte importante del mio stile. Ricordo ancora quando uscì il processore di riverbero digitale Lexicon 224: io e Stephen Hill, fondatore dell’emittente radiofonica Hearts of Space, eravamo in uno studio di registrazione a Culver City, e siamo rimasti sbalorditi da ciò che poteva fare. Circa un anno dopo riuscii a procurarmene uno per il mio studi e iniziai subito a creare situazioni in cui quel tipo di suono la faceva da padrone.

Come diventare dei coinvolgenti interpreti della propria musica?
Il valore di un musicista sta nella capacità di risuonare nell’ascoltatore. Indipendentemente dal suo grado di preparazione tecnica, dalle sue competenze, egli risuona in alcuni, e in altri no.

Le tue esperienze giovanili nel pop-rock dei tardi Sixties, cosa ti hanno insegnato di quell’industria?
È un’industria, probabilmente come tutte le altre industrie, e dunque anche con le varie insidie del caso. L’attività di cui mi chiedi mi ha sostenuto finanziariamente nel periodo in cui stavo attraversando i cambiamenti necessari per “trovare me stesso”, personalmente e musicalmente. E mi ha consentito di venire a contatto anche con molte persone interessanti.

Ambizioni future?
Non ne ho e sarebbe difficile dire che ne ho avute in passato. Ci sono state certamente le scadenze imposte dai miei progetti commerciali, dagli album e cose del genere. Ma la vita sembra guidare meglio il mio lavoro quando non mi ci metto in mezzo, fissando degli obiettivi.

Una tua giornata tipica in New Mexico?
Vivo su un crinale che domina Santa Fe, a 2.200 metri di altezza. Dietro casa, la montagna s’inerpica fino a raggiungere i 4.010 metri. Nella zona ci sono altre case, ma anche molto spazio incolto dove abitano coyote, linci rosse, cervi, orsi e tante altre creature che visitano spesso il nostro cortile. È un ambiente stimolante in cui vivere ed essere creativi. A volte dedico del tempo allo studio di registrazione, altre volte scendo in città o sono in viaggio. Spesso mi perdo semplicemente nella natura. Di recente, il tempo in studio è stato dedicato soprattutto al missaggio di una serie di progetti, sia mix stereo per il download e lo streaming, sia mix in Atmos, per la distribuzione immersiva.

Questa è dello scrittore Jules Verne: “Per il fatto di aver inventato la Macchina, l’uomo è destinato a esserne divorato”.
Certo che sì. È evidente nei dispositivi della nostra quotidianità, dai pc ai telefoni cellulari. Musicalmente parlando, risalirei invece all’invenzione della tastiera del clavicembalo e, attraverso di essa, all’invenzione del sistema di accordatura conosciuto come temperamento equabile, che poi abbiamo esportato in tante altre culture del mondo, e che si è rivelato essere “l’orologio digitale” alla base della maggior parte della musica moderna.

Solo una domanda d’attualità: per buona parte della stampa internazionale Trump alla Casa Bianca è una minaccia su ogni fronte. E se fosse tra gli artefici dello stop alla guerra in Ucraina?
Negli ambiti del palcoscenico mondiale, del nostro paese e del nostro governo, lui potrebbe essere l’occasione per molte cose... il tempo ce lo dirà. Ciò che consideriamo positivo o negativo deriva sempre da un grande cambiamento come quello che lui, comunque, rappresenta.

Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
La cosa più bella e forse più difficile è la fiducia, l’atto di affidarsi. Ogni artista ha qualcosa di unico da portare avanti e condividere con il mondo, indipendentemente dalle opinioni degli altri. La manifestazione di ciò è il “luogo” dove nasce la bellezza. Ecco, avere fiducia nel dispiegamento di quella bellezza, di quell’unicità, a volte è per noi la più ardua delle sfide.

(12 gennaio 2025)

Discografia

Ancient Leaves (1977)
Sustaining Cylinders (1978)
Morning/Jewel (1979)
Planetary Unfolding (1981)
Lyra Sound Constellation (1983)
Lightplay (1983)
Chronos (1985)
Plunge (1986)
Floating Whispers (1987)
Encounter (1988)
Desert Solitaire (1989, con Kevin Braheny e Steve Roach)
Baraka (1993)
Sacred Site (1993)
Singing Stones (1994)
The Lost World (1995)
Kiva (1995, con Steve Roach e Ron Sunsinger)
Within (2000)
Spirits Of The Voyage (2000)
The Middle Of Time (2000)
Sorcerer (2000)
The Storm (2000)
Samsara (2012, con Lisa Gerrard e Marcello De Francisci)
The Soft Touch Of Morning Light (2015)
Music For The Dome (2016)
Beyond Earth & Sky (con Steve Roach, 2021)
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