One Dimensional Man

Schegge post-hardcore nell'indie italiano

intervista di Claudio Lancia

A distanza di sette anni da “A Better Man”, a sua volta distante un lustro dall’ultimo dei quattro capitoli storici della band, Pierpaolo Capovilla rimette in pista la sua idea post-hardcore, One Dimensional Man, mantenendo intatta la rabbia di gioventù. Capovilla è riuscito ad emergere dalla nicchia d’origine, oggi le sue parole hanno un’eco ancor più grande, grazie alla visibilità garantitagli dal successo ottenuto con Il Teatro degli Orrori (dove si esprime in italiano) e altri progetti a cavallo fra letteratura alta e derive noise. La pubblicazione di “You Don’t Exist” ci fornisce l’occasione per incontrarlo e approfondire i temi legati al nuovo disco: la fine del sogno americano, la disgregazione del sistema democratico occidentale, la nostalgia per i vecchi tempi che si trasforma in vendetta. I ricordi di un protagonista della scena italiana degli anni 90, che da grande, ci confessa, desidera diventare uno scrittore…

Ritorni e linguaggi

Ciao Pierpaolo, bentornato, come ti senti di tanto in tanto a indossare i panni dei One Dimensional Man?
Mi sembra di ritornare trentenne.

Un breve excursus giusto per riscaldarsi un po’: One Dimensional Man e Uzeda furono due band che negli anni 90 riuscirono a portare in Italia un certo modo di far musica, quell’attitudine noise/post-hardcore così Dischord / Touch & Go che poi ha fatto proseliti anche dalle nostre parti. All’epoca fu una scelta difficile da affrontare? Oppure il pubblico degli anni 90 era più recettivo di oggi verso una proposta del genere?
Non c’è il minimo dubbio come negli anni Novanta ci fosse, in Italia, un pubblico non solo molto ricettivo nei confronti di un suono ostico e radicale come quello che tu citi, ma volitivamente desiderante proprio quel suono. Cantare in inglese era, per me e per la stragrande maggioranza degli artisti, una cosa ovvia. Per altro tutti desideravamo uscire dall’ambito nazionale, per poterci rivolgere a una platea internazionale. Gli Uzeda e pochi altri vi riuscirono.

Però a un certo punto arrivò l’esigenza di doverti esprimere in italiano…
Fu una scelta sofferta, ma vincente. Io stesso rimasi profondamente colpito dal nostro pubblico: finalmente le parole delle canzoni arrivavano dritte al cuore di chi le ascoltava, e questo fece la differenza. L’affetto e l’amorevolezza che emersero nei confronti delle nostre canzoni fu esattamente ciò che spinse il progetto verso un certo successo.

Esistono due correnti di pensiero in Italia: c’è chi sceglie di cantare in italiano, perché sente di avere cose importanti da dire e vuol farsi comprendere, e chi invece predilige l’inglese perché suona meglio o perché intende puntare al mercato internazionale. C’è poi una terza via, più rara, la tua: optare per entrambe le soluzioni, magari con due progetti distinti. Quale pensi sia la scelta più appropriata oggi per un artista rock italiano?
Io prediligo l’idioma italiano. Ma sono anche convinto che l’importante siano i contenuti, che anche cantando in inglese non devono mancare.

Sta di fatto che molte band (Afterhours e Zen Circus sono le prime due che mi vengono in mente) riescono a raggiungere una certa notorietà soltanto nel momento in cui optano per il cantato in italiano…
Esattamente. A ben pensarci, rock o non rock, siamo italiani e viviamo in questo fazzoletto di pianeta che chiamiamo Italia.

Ma a conti fatti, la scelta dell’inglese a voi ha dato qualche chance oltre confine?
Direi di no. Speriamo nel futuro.

Avete in progetto di fare delle date all’estero per promuovere “You Don’t Exist”?
Abbiamo registrato e pubblicato il disco proprio perché vogliamo suonare oltre confine. Abbiamo una voglia imperiosa di viaggiare, di confrontarci, di conoscere, di imparare. Non cerchiamo il successo, cerchiamo l’avventura.

You don't exist

Veniamo al nuovo album: quali sono i principali temi che hai deciso di trattare e approfondire questa volta?

La guerra e la disgregazione del sistema democratico occidentale. Discioltasi l’Unione Sovietica, il capitalismo ha gettato alle ortiche ogni remora, e si manifesta per quello che è ed è sempre stato, un sistema inarrestabile di colonialismo finanziario e insediativo, come ben dimostrano il debito irrisolvibile dei paesi meno sviluppati e le guerre in Medio Oriente.

“You Don’t Exist”: perché questo titolo?
Perché nessuno di noi esiste veramente. Ognuno di noi è inerme di fronte all’enormità delle contraddizioni storiche e dei processi sociali in corso. E se non possiamo più indirizzare verso un qualche obiettivo la nostra esistenza, allora vuol dire che non esistiamo, e se esistiamo, esistiamo per subire. Non siamo più protagonisti del nostro avvenire, ma vittime del presente.

Musicalmente è un disco più “cattivo” del precedente, segna il ritorno verso una dimensione sonora più intransigente, quella dei primi One Dimensional Man. L’iniziale “Free Speech” dà subito una bella scarica di adrenalina, e verso il finale il trittico “We Don’t Need Freedom” / “Don’t Leave Me Alone” / “Alcohol” è energia allo stato puro! Mantieni intatta la rabbia dei vecchi tempi…
La rabbia che ho dentro è molto, ma molto più grande di prima. La nostalgia per i vecchi tempi si è fatta vendetta. Non ne posso più di mangiare plastica. Voglio del cibo vero, sano e nutriente.

“Don’t Leave Me Alone” sembra quasi una richiesta d’aiuto, un urlo lanciato verso il mondo. Ma anche “We Don’t Need Freedom” rappresenta un proclama. Un artista impegnato come te non sceglie parole e titoli a caso…
“We Don’t Need Freedom” è in realtà una cover. È una canzone del 1981, tratta da “Pagan Icons” dei Saccharine Trust, SST Records. Sembra scritta ieri. È proprio ciò che chiamiamo impegno che mi spinge a riscoprire quella musica, quei dischi e quelle canzoni che hanno segnato non solo il mio percorso musicale, ma anche la mia visione del mondo. Parlo per me, ma sono certo di parlare anche per la band nel suo insieme, e se vogliamo anche per i discografici che ci hanno supportato, per coloro che ci organizzano i concerti, e per una parte non minoritaria del nostro pubblico.

Non manca una traccia più “atmosferica”: “A Crying Shame”, con dei bei controcanti femminili, è posta non a caso a metà scaletta. Hai voluto in qualche modo assegnare a questa canzone un ruolo di centralità in un disco tanto teso, a tratti violento?
Abbiamo pensato forse perfetta a metà scaletta, sia dal punto di vista musicale, che da quello narrativo. La canzone racconta il qualunquismo e l’indifferenza dei nostri giorni, parla di un ragazzo (ma potrebbe anche essere un adulto) che si rinchiude in casa, nei dispositivi, negli psicofarmaci, in se stesso; non crede più in niente, non legge più libri, non ha più fiducia nel suo prossimo. Esattamente come ci vuole il sistema di cose in cui viviamo. La canzone si chiude con un’esortazione alla lotta di classe.

Trovo che “You Don’t Exist” sia un ottimo compromesso fra l’esigenza di non apparire troppo estremi e la volontà di non deludere i fan della prima ora. Ti ritrovi in questa sensazione?
Direi di no. “You Don’t Exist” è un disco senza compromessi, in ogni suo aspetto. Non abbiamo cercato di piacere o dispiacere. Abbiamo voluto essere noi stessi, fino in fondo.

“A Better Man” era un disco corale, con dentro molti ospiti. Questa volta avete fatto quasi tutto in tre. Da cosa deriva il diverso tipo di approccio? Sin dall’inizio è stata una scelta voluta e cercata quella di far tutto da soli?
Si, lo è stato. Siamo una band perfettamente sufficiente a se stessa. Gli ospiti avrebbero anche potuto esserci, ma questa volta non li abbiamo cercati.

In line up non troviamo più il drumming di Luca Bottigliero, sostituito da Franz Valente del Teatro degli Orrori. Trovi delle differenze stilistiche fra i due?
Luca non è stato invitato: sono anni che neanche ci rivolgiamo la parola. Va bene così. Non mi va di avventurarmi in una disamina sulla differenza fra lo stile dell’uno e dell’altro. Penso che Franz sia il miglior batterista rock che abbia mai conosciuto. Franz è una garanzia, non solo dal punto di vista artistico e professionale, ma anche da quello umano e amicale. È un compagno d’avventura, un correligionario, un amico, un fratello.

Alla chitarra invece troviamo Carlo Veneziano, musicista che ha già collaborato con te in passato nei One Dimensional Man. La scrittura dei brani di solito nasce da qualcuno in particolare o sgorga da un lavoro d’equipe?
Carlo ricompare dopo un’assenza molto lunga: suonò nel gruppo soltanto in occasione di “Take Me Away”, e di tempo ne è passato. In realtà l’idea di rimetterci in attività è stata sua e di Franz. I due sono molto amici. Quando mi hanno chiesto se avevo voglia di rimettermi in discussione con One Dimensional Man, non ci ho pensato neanche per un minuto, e ho risposto di si. Li voglio ringraziare, perché questa rimpatriata mi fa sentire bene, e mi suggerisce che niente di ciò che hai fatto in passato è stato inutile, anzi, tutto ha una sua continuità, in un modo o nell’altro.

Nella traccia finale reciti l’elenco dei Presidenti degli Stati Uniti d’America: è un modo per dire che gli uomini e i valori di una volta (salvo rare eccezioni) non esistono più? E’ dura passare nel giro di pochi minuti dal citare un Washington, un Lincoln o un Roosevelt a Nixon e ai due Bush…
E Non dimentichiamo Kennedy. E non dimentichiamo che il Presidente più belligerante nella storia degli USA è stato il Nobel per la pace Barak Obama: anche se gran parte delle guerre le ha ereditate dalle precedenti amministrazioni, non ha fatto un bel niente per condurle alla loro conclusione, anzi. E per favore ragazzi, non dimentichiamo ciò che è stato fatto alla Libia e al suo popolo, né l’osceno doppio gioco perpetrato dagli USA, dal Regno Unito, dalla Francia e da Israele in tutto il Medio Oriente, attraverso il così detto Stato Islamico. Il sogno americano non esiste più, e se esiste è diventato un incubo, un incubo non solo americano. Gli USA non sono una democrazia, sono un impero, e ci stanno trascinando tutti nel precipizio di un capitalismo morente, destinato a finire, ma che non lascerà questo mondo senza prima averlo distrutto.

Ti accendi soprattutto quando si affrontano temi politici: a questo punto mi pare inevitabile invitarti a spendere due parole su Donald Trump…
Quando è stato eletto, ho tirato un sospiro di sollievo. Perché ho letto il carteggio fra la Clinton e Podesta, e lì si parla in modo neanche troppo velato di guerra termonucleare. Trump è un pupazzo in mano al complesso militar-industriale statunitense, come lo era lo stesso Obama.

E sull’affare Brexit che mi dici? Moltissimi musicisti di area britannica sono arrivati a proclamare la propria vergogna di essere inglesi…
Non capisco di cosa dovrebbero vergognarsi. Per come la vedo io il problema non è più Europa o meno Europa, quanto piuttosto più democrazia o meno democrazia. Nel Regno Unito c’è ancora una classe operaia degna di questo nome, c’è una gioventù cosciente e consapevole dello stato di cose in cui versa il loro paese e il mondo, e c’è persino un leader politico, Jeremy Corbyn, che dice cose chiare, giuste e ragionevoli, che parla di pace e di cooperazione fra i popoli.

In Italia siamo in zona elezioni: impressioni sull’attuale situazione politica interna?
Il nostro ceto politico ha fatto tutto ciò che ha potuto per portare la situazione generale al suo disfacimento. Ciò che abbiamo di fronte ai nostri occhi è un verminaio. Il Partito Democratico, erede del Pci di Berlinguer, è diventato un partito di destra neoliberista. C’è di che farsi cadere le braccia.

La scena

Come sono i tuoi rapporti con gli altri grandi protagonisti del decennio d’oro del rock alternativo italiano? Manuel Agnelli, Cristiano Godono, Emidio Clementi, Paolo Benvegnù, Ferretti, ti senti periodicamente con qualcuno di loro? Se vi incontrate in qualche occasione sono grandi abbracci, oppure regna l’indifferenza? Con chi sei rimasto maggiormente legato? Ti senti di dover rimproverare le scelte fatte da qualcuno di loro?
Conosco poco Manuel, e non ci vediamo spesso, ma lo considero un vero artista. Cristiano è un amico, Emidio un fratello d’armi, Paolo l’ho incrociato molte volte, ed è un personaggio di rara simpatia, Ferretti  non lo conosco affatto, ma dal punto di vista politico è una cocente delusione, non solo per me.

C’era davvero un forte legame “collaborazionista” all’epoca (penso all’esperienza del C.P.I. o al Tora! Tora!), oppure era tutta apparenza, e chi si faceva promotore alla fine lo faceva soltanto per un tornaconto personale?
“Collaborazionista” è una parola strana. Normalmente la si usa per indicare coloro che collaborano con il nemico. Preferirei usare la parola “cooperazione”. Ho un ricordo bellissimo del Tora!Tora!; erano altri tempi, sentivamo di essere parte di una scena e di condividerne gli obiettivi, che potevano anche non coincidere sempre tutti, ma sull’intenzione di fare buona musica e di credere in essa eravamo tutti d’accordo. Questo clima è scomparso, ma rinascerà, se non oggi, domani.

Ascolti ancora con affetto e curiosità i nuovi dischi di quelle band? Quali ti sembra siano sopravvissute meglio al tempo?
Non ho mai fatto mistero di amare i Massimo Volume. Le cose che fanno mi piacciono ancora, forse più di prima. L’ultimo album degli Afterhours, “Folfiri o Folfox”, è forse il loro migliore di sempre.

Un’altra band che ti farebbe piacere citare?
Visto che ci sono, vorrei citare gli Ardecore, che sono il mio gruppo preferito.

Gli altri progetti

Continui a considerare One Dimensional Man il tuo progetto prediletto, oppure qualcosa è mutato nelle tue gerarchie?
Cerco di dare il meglio di me stesso in tutto ciò che faccio. Forse non ci riesco, ma per lo meno ci provo.

Due anni fa ci fu la bella sorpresa del progetto Bunuel, condiviso con Xabier Iriondo, Franz Valente e Eugene Robinson. Trenta minuti infernali, che sembravano registrati in un girone dantesco. Lì ricoprivi il ruolo di bassista: per te abituato ad essere al centro della scena è stato un interessante cambio di prospettiva. Che effetto fa suonare in una band post-hardcore stando sul palco due passi più indietro rispetto al cantante?
Per me è semplicemente elettrizzante. Suonare il basso senza dover cantare è una liberazione. Con Franz alla batteria poi, è semplicemente un piacere. Non essere al centro della scena è un sollievo. E cooperare con un chitarrista tanto innovativo e un cantante così carismatico è un onore e un privilegio.

L’energia scaturita da quelle registrazioni e dai conseguenti concerti, potrebbe avere in qualche modo influenzato la scrittura dei brani presenti in “You Don’t Exist?”
Per certi versi si. Ma in realtà non si tratta che della stessa attitudine declinata in modo diverso.

Il progetto Bunuel potrebbe avere un seguito oppure si è trattato di un’esperienza estemporanea?
Certo che avrà un seguito! Posso annunciarti che usciremo a breve con un nuovo album, sempre per La Tempesta International e Goodfellas. Sono mesi che lo ascolto; è un purgatorio di violenza inaudita.

Com’è andata invece l’esperienza del tuo disco solista, “Obtorto collo”? Erano canzoni che avevi nel cassetto da anni, per le quali stavi attendendo l’occasione giusta, oppure si è trattato di materiale scritto in quelle settimane?
Obtorto collo” è il frutto della collaborazione con il Maestro Paki Zennaro. Zennaro ha scritto quasi tutte le musiche del disco, e su quelle non scritte da lui ha contribuito in modo significativo alla loro realizzazione. Il disco è comunque il frutto di un lungo lavoro di elaborazione, anche perché vede la presenza di venti musicisti diversi, i quali tutti, ma proprio tutti, hanno suonato con convinzione, amore e affetto. Il disco comunque è andato male, così come il tour. Ricordo con un certo dispiacere di aver dovuto annullare un po’ di date… Zero prevendite.

Ti senti più a tuo agio in veste di solista o come parte di una band?
Non saprei. Non ci vedo grandi differenze. L’importante è scrivere canzoni che siano belle da ascoltare e che abbiano un contenuto narrativo degno d’essere espresso.

Il progetto che ti ha dato la maggior visibilità resta comunque Il Teatro degli Orrori, ma tanto per farci un’idea di quanto difficile sia fare il musicista oggi nel nostro paese, sai dieci quante copie riesce a vendere un disco del Teatro? I numeri sono diventati davvero troppo piccoli…
Non ne ho un’idea precisa. Credo fra le dieci e le ventimila copie.

A Londra puoi trovare le ultime uscite discografiche a 9 pounds, in Italia i dischi nuovi arrivano a costare fino a 22/23 euro (il nuovo Fedez in Feltrinelli), anche presso la grande distribuzione, che magari potrebbe garantire prezzi più bassi. A parte il discorso dell’IVA al 22 % mi pare evidente che qualcosa non va. I musicisti più importanti non hanno leve azionabili per fare qualcosa? Probabilmente se i dischi fossero meno cari si venderebbero di più. Così invece ognuno compra soltanto quelli a cui tiene di più, quasi sempre nomi di spicco, danneggiando le proposte di nicchia e gli emergenti. E’ pur vero che una serata in discoteca costa comunque più di un Cd, quindi, se l’oggetto disco fosse percepibile come un’opera d’arte dovrebbe costare di più. Argomento intricatissimo. Qual è la tua posizione?
Fedez ha pubblicato un nuovo disco? E chissenefrega. Non sono ferrato su questo argomento. Per come la vedo io il mercato discografico è un mercato come qualsiasi altro. Domanda e offerta. Offerta e domanda.

Vanno sempre più di moda i mega festival dove è possibile per tre giorni immergersi in una moltitudine di concerti. Perché nei grandi festival internazionali gli artisti italiani non riescono a trovare spazio? Oltre allo scarso appeal delle nostre band, non potrebbe essere un problema legato anche all’incapacità dei nostri addetti ai lavori di promozionare le proposte italiane all’estero? Perché posso trovare facilmente ovunque un gruppo norvegese o islandese e non One Dimensional Man, In Zaire o Calibro 35?
Non credo sia una questione di incapacità degli addetti ai lavori. Credo piuttosto si tratti di un problema legato alla qualità della musica che suoniamo.

E perché in Italia non si riesce a organizzare un Festival di grande richiamo internazionale, come un Glastonbury o un Reading? Insomma, in Spagna ci sono riusciti, in Ungheria ci sono riusciti (lo Sziget), oramai ci sono ottime rassegne anche in Portogallo e Croazia. Qui ci provarono con l’Heineken ma durò lo spazio di pochissimi anni…
Guarda, ti racconto un piccolo aneddoto. L’ultimo grande festival in cui mi è capitato di suonare era l’Home, a Treviso. C’erano polizia, carabinieri e finanza dappertutto, per le strade limitrofe, agli accessi, fra il pubblico, nel backstage. Entravano anche nei camerini. Un vero schifo. Ecco quello che succede da noi.

Dopo il tour promozionale di “You Don’t Exist” e il nuovo album dei Bunuel, che ci hai appena annunciato, hai già in mente quelli che saranno i prossimi step del tuo percorso artistico? Continuerai a dividerti equamente fra reading, teatro, One Dimensional Man e carriera solista? Oppure hai anche altri progetti in cantiere?
Ho in mente grandi cose, ma parlarne ora è prematuro. Quello che è certo è che il 2018 lo dedicherò essenzialmente a One Dimensional Man.

Dopo tanti anni trascorsi su un palco, hai ancora dei sogni nel cassetto che ti piacerebbe realizzare? Una collaborazione artistica, scrivere canzoni per un nome a cui tieni in particolare, dirigere un film, dipingere, intraprendere la carriera politica, condurre un programma televisivo, non so, cosa potrebbe riservarci il Pierpaolo Capovilla del futuro?
Da grande voglio diventare uno scrittore.

E c’era da aspettarselo, è il più ovvio step successivo che potremmo attenderci da Pierpaolo Capovilla.

(05/03/2018)

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INTERVISTA DI MARCO LO GIUDICE (2011)

Al telefono con Pierpaolo Capovilla, sui palchi di tutta Italia con il tour di "A Better Man", degli One Dimensional Man


"Mi richiami dopo? Sono in treno, e non mi sembrerebbe carino disturbare gli altri passeggeri". Ladies and gentlemen, dall'altra parte della cornetta l'uomo più crudo, sanguigno e discusso dell'indie italiana: Pierpaolo Capovilla.

L'insospettabile pacatezza e cortesia del leader di One Dimensional Man e Teatro degli Orrori stimola una lunga chiacchierata sul recente album dell'uomo a una dimensione ("A Better Man") e sulla musica italiana in genere. A partire da quale sia, oggi, il vero progetto parallelo di Pierpaolo.
È un po' che mi sforzo di sottolineare come One Dimensional Man sia stato soltanto messo in pausa dal lavoro con Il Teatro degli Orrori, il vero progetto parallelo. La priorità al Teatro è stata data forzatamente, dopo il boom degli album e soprattutto dei live. Ma One Dimensional Man è una mia creatura, il mio primogenito, a cui ovviamente tengo tantissimo. Contestualmente, il disco nasce dalla collaborazione con Luca Bottigliero, un grande, grandissimo batterista. Composto in una ventina di giorni, l'abbiamo registrato in un mese circa.

 

Il disco è pieno zeppo di ospitate: da James Campbell, pittore e poeta australiano, autore di tutti i testi, a Eugene Robinson degli Oxbow, Justin Trosper degli Unwound, e ai guest italiani: Sir Bob Cornelius Rifo e Jacopo Battaglia del fenomeno dance Bloody Beetroots, Rodrigo D'Erasmo degli Afterhours, Enrico Gabrielli dei Calibro 35, Gionata Mirai de Il Teatro degli Orrori, Francesco D'Abbraccio degli Aucan, e Richard Tiso, visto più volte con Il Teatro e nel reading di Majakovskji.

Tutto questo grazie a Giulio! L'ospitata di Justin è stata incredibile, non prendeva in mano una chitarra da dieci anni! Disponibilissimo anche Eugene, Bob (Rifo, ndr) è una mente, una vera testa pensante. Un disco corale, di cui sono soddisfatto oltre le aspettative. Un disco anche molto moderno, che guarda al futuro, nei suoni e nella scrittura. Gli One Dimensional Man sono davvero un progetto in crescita, di respiro internazionale, per questo "A Better Man" ci piacerebbe portarlo fuori, e cantando in inglese dovrebbe essere un minimo più semplice.

 

Il disco, multiforme e per questo differente da quanto fatto dai monodimensionali nel passato, risente delle tre teste che ci hanno lavorato.
Pesa innanzitutto la semplicità del mio modo di comporre, alla quale si è aggiunta la vena di Luca, autore con me di quasi tutto il disco. Giulio entra in campo in un secondo momento da vero produttore artistico: ormai in quel campo è espertissimo, il suo tocco diventa determinante. Tra di noi c'è una fiducia totale e reciproca, costruita negli anni. Ognuno lascia fare e disfare liberamente agli altri, ma davvero non è solo amicizia, è pura fiducia professionale, se così si può chiamare. Uno stile creativo caotico, in cui diverse esperienze confliggono e si condizionano a vicenda.

 

E deve esserci anche tanto Teatro degli Orrori in un disco che, pur passando sotto il marchio One Dimensional Man, ha alle spalle due dischi e due tour che - stando alla critica - hanno cambiato la musica indie italiana.
Due dischi, due tour e - aggiungo io - dei casini allucinanti. È stata un'esperienza fondamentale per la mia e nostra formazione artistica e professionale. È vero: One Dimensional Man e Teatro Degli Orrori sono la stessa famiglia, ma con "A Better Man" abbiamo voluto continuare il percorso lasciato sospeso con "Take Me Away": un legame strettissimo, a doppio filo, con il rock anni Novanta, con quella scena di Chicago di Jesus Lizard & co. che tanto abbiamo adorato. One Dimensional Man è dichiaratamente figlio di quel modo di fare e concepire la musica, mentre Il Teatro Degli Orrori è per scelta fuori da qualsiasi cliché, e in questo senso più europeo.

 

Tutto questo, la musica. Ma il concetto, l'idea? L'uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, che si nasconde dietro il nome della band, ha ancora valore oggi?
ancora più di prima! A fine anni Sessanta c'erano speranze vivide, concrete, si pensava di poter cambiare il mondo. Invece il decorso storico ha portato a un capitalismo ancora più radicato, e - in particolare in Italia - ad avere ancora più one dimensional men di prima, costretti e affezionati al consumo: vent'anni di edonismo berlusconiano si sentono eccome!

 

Nonostante questo, qualcosa si muove. Gli ultimi mesi raccontano di vittorie politiche e rivolte sociali che nel Belpaese non si vedevano da un po'.

E infatti nutro grande, grandissima speranza. Quello che vorrei è che la gente che sta al governo e chi li manovra se ne vada una volta per tutte, il Paese deve tornare in mano alla società civile, perché la società politica ha dimostrato tutta la sua squallida inadeguatezza e insufficienza. Dall'alto dei miei 43 anni, io ho il ricordo di veri politici, quelli di oggi sono solo mascalzoni. Ma la parabola berlusconiana è alla fine, gli ultimi segnali (Pisapia a Milano, il referendum) sono di grande vitalità.

 

Un segnale di cambiamento che, per certi versi, si vede anche nella musica. Mille calcoli e ragionamenti dentro le sale d'ufficio dei colletti bianchi delle major, alla ricerca disperata dell'alchimia da singolo fortunato, e dall'altra parte un gruppo come il Teatro degli Orrori che - senza promozione radio e tv, senza un singolo in classifica - riempie capannoni e locali con veri e propri sold out.

Perché alla fine siamo delle schegge impazzite. Alla mia età ci vuole coraggio a fare ancora il pagliaccio sul palco, ma sono profondamente orgoglioso del risultato ottenuto: il mio lavoro è molto politico, e ho fatto un buon lavoro proprio perché ho colpito nel cuore dell'immaginario collettivo. La scelta dell'italiano è stata proprio per dare l'importanza giusta ai contenuti, che oggi sono fondamentali. Nel Teatro c'è tutta la mia vena poetica e lirica, che cerca di riabbracciare quella splendida produzione cantautorale italiana, da De André a Dalla fino al primo Pino Daniele, autori utilissimi per capire come - per noi italiani - la narrazione sia tutto.

 

L'hype creatosi attorno al Teatro degli Orrori, raggiunto grazie anche alla poetica diretta e fortemente politica di Pierpaolo, ha sottoposto il leader veneziano alle furie volubili tipiche del web e dell'opinione pubblica da bar. Recente l'attacco subito per il cambio di formazione del Teatro Degli Orrori.

Attenzione però a non confondere la massa con gli haters, esempio lampante di come l'imbarbarimento dell'Italia si rifletta - è inevitabile - nella rete. Ma non mi preoccupo assolutamente del gossip, dei rumours, io vado drittissimo per la mia strada, sapendo che posso certamente anche fare degli errori. Sono un uomo ambizioso, e gli uomini ambiziosi guardano al futuro.

 

Che sarà, non c'è dubbio, sempre sul palco. A saltare, urlare, provocare.

Il palco è tutto per me, è la straordinaria messinscena della vita, con il rischio sempre dietro l'angolo che diventi più reale della vita stessa! Una vita passata da molti in ufficio a far di conto, in fabbrica a spaccarsi le ossa, in casa anestetizzati dalla tv... e te lo dice uno che ha lavorato fino a nove mesi fa!

 

Giulio e Luca, dall'altra parte del telefono, reclamano Pierpaolo per le prove del tour, che ha già riscosso successo in numerosi festival estivi in giro per l'Italia.

Oggi l'uomo a una dimensione, domani il teatro degli orrori: i protagonisti, le menti sono le stesse, e la ricetta molto simile. Dopo anni di gavetta, di sudore e passione spesi su palchi di qualsiasi misura e caratura, oggi sono loro a guidare la cordata indie italiana.

Con tutti i meriti.

Discografia

One Dimensional Man (Wide, 1997)
1000 Doses Of Love (Wide, 2000)
You Kill Me (Gamma Pop, 2001)
Take Me Away (Ghost / Midfinger, 2004)
The Box (box, La Tempesta, 2010)
A Better Man (La Tempesta, 2011)
You Don't Exist (La Tempesta International, 2018)
Pietra miliare
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