A Cervia, abbiamo l'occasione di conoscere meglio i romani RanestRane. Il loro particolarissimo progetto del "cine-concerto" sta per partorire un quarto lavoro, "H.A.L.", che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare in anteprima assoluta la sera prima.
Maurizio Meo, Riccardo Romano, Massimo e Daniele Pomo interrompono il loro meritato relax per offrirci una lunga chiacchierata tra cinema, progressive, fantascienza e qualche considerazione linguistica.
Già in molti prima di voi hanno tentato progetti che prevedevano il musicare dei film, solitamente colonne sonore strumentali a supporto di film muti. La vostra formula si distingue abbastanza dal solito proponendo qualcosa di più strutturato, con vostri testi che si intervallano all’audio del film. Inizierei con il chiedervi come è nata l’idea del vostro particolare “cine-concerto”.
DP: E’ nata dalla necessità di creare una soglia di attenzione più elevata che andasse al di là del semplice amante della musica progressive o alternativa che sia. Penso che nel nostro paese sia solitamente difficile promuovere un genere musicale come quello in cui noi crediamo. Quindi, per attirare un ipotetico ascoltatore “medio” - inteso come non particolarmente attento al progressive - nei confronti di una band esordiente come la nostra, abbiamo pensato di legare la nostra musica a delle immagini.
Noi non avevamo le possibilità economiche di fare un percorso un po’ - perdona la blasfemia - alla “The Wall”, con un film che fosse nato dopo e su misura di un disco già esistente con un tema autonomo. Non potevamo permetterci l’Alan Parker della situazione, insomma, né avevamo amici che potessero aiutarci in questo. Abbiamo deciso così di prendere un film preesistente e costruirci noi un concept intorno. Chiaramente i film d’autore erano più indicati per un discorso di tempi e narrazione, molto più dilatata e meno schiava del ritmo rispetto ai comuni blockbuster.
L’idea di “Nosferatu” venne dalla mia passione per Herzog e dal pensiero che il personaggio di Dracula fosse potenzialmente interessante anche per chi non fosse particolarmente appassionato di cinema. Da lì tutto è partito, abbiamo visto che la risposta era buona così come la soglia di attenzione e quindi abbiamo girato il coltello nella piaga con un film ancor più noto, “Shining” di Stanley Kubrick.
In seguito ci fu una gestazione sul terzo episodio. L’idea di “2001: Odissea nello Spazio” fu una prosecuzione naturale dettata dalla nostra passione per Kubrick, ma in effetti all’inizio la cosa ci sembrava quasi dissacratoria, con una colonna sonora così importante e ingombrante, che sovrasta quasi del tutto i dialoghi del film. Però io sono dell’idea che se c’è rispetto per l’opera dell’artista in qualche modo se ne esce fuori. L’unico accorgimento rispetto al passato è stato quello di sganciarci ulteriormente, anzi completamente, dalla colonna sonora originale.
La cosa più lampante che ho notato ascoltando “A Space Odissey: parti I - ‘Monolith’” è che l’ho trovato molto più indipendente dal film rispetto ai vostri album passati. E’ davvero qualcosa che sta facilmente in piedi da solo, senza il sostegno delle immagini.
DP: Sì, stavolta la nostra missione di rendere la nostra musica indipendente dal film, rendendo quest’ultimo un mero “di più”, è stata perseguita con maggior perseveranza e pensiamo di aver fatto su questo dei progressi molto importanti rispetto al passato.
La conferma di ciò ci è arrivata durante il nostro tour europeo, quando abbiamo dovuto adattarci a situazioni che non permettevano la proiezione del film alle nostre spalle, come normalmente facciamo. Nonostante la nostra lingua fosse incomprensibile al 99% dei presenti, la risposta è stata comunque eccellente, quindi la musica si è rivelata evocativa al di là delle immagini o dei testi. Certo comunque che avere Kubrick a tuo supporto ti aiuta immensamente…
RR: Io penso che il nostro sia un progetto nuovo, e la cosa più eccitante di fare qualcosa che sia una novità è che non hai punti di riferimento. Chiaramente abbiamo i nostri riferimenti musicali, e sono davvero molti: Pat Metheny, Pink Floyd, Genesis per nominarne alcuni. Ma sui cine-concerti come li intendiamo noi, nulla.
Nel nostro percorso noi abbiamo affinato quindi una nostra tecnica personale, la quale non è stata probabilmente esente da errori durante la sua crescita. In “Monolith” crediamo di aver ulteriormente affinato le armi a nostra disposizione, capendo con il tempo quali cose avevano funzionato in passato e quali erano da rivedere. Ad esempio, crediamo che sia giusto sfruttare i dialoghi del film, perché si tratta di un aspetto fondamentale del nostro progetto. Questi dialoghi, però, vanno resi intriganti e interessanti, non possiamo semplicemente fermarci, spezzando il mood e farli banalmente accadere. Già in “Shining” la cosa iniziava a crescere, in “Monolith” è più a fuoco, ma il prossimo “H.A.L.” si rivelerà un vero e proprio salto di qualità in questo senso. Penso che in questo disco siamo riusciti a tenere sempre alta la tensione. “H.A.L.” non cade mai.
DP: Questo poi sarà ancor più estremizzato nel capitolo finale “Starchild”. Considera che il disco partirà dalla morte di HAL 9000 e come noto, da lì in poi non ci saranno più dialoghi fino alla fine del film. Forse lì raggiungeremo la somma di tutto questo. Immagina solo quella stupenda sezione psichedelica del viaggio finale. Che poi, diciamoci la verità, se i dialoghi nei nostri cine-concerti restano troppo isolati, non sono quindi amalgamati alla perfezione con la musica, il più delle volte dopo qualche ascolto inizi pure a skipparli.
Penso che uno dei momenti più alti di “Shining” sia proprio in occasione della scena de “il mattino ha l’oro in bocca”. Lì la suspence sale ed esplode nella famosa battuta “beh, che te ne pare!”, alla quale però non fate seguire nessun altro dialogo, in quanto sarebbe superfluo.
DP: Vero. “Shining” poi è un lavoro che abbiamo sentito molto personale, in quanto è nato in un periodo delle nostre vite molto intenso, caratterizzato sia da episodi provanti come la perdita di un genitore che altri opposti come una nascita. Tutte queste cose si sono mischiate insieme nel periodo di composizione dell’album che tra l’altro tratta proprio dei rapporti in una famiglia. Ne parlavo proprio con Riccardo Romano, venendo qua in macchina: è un cd che quando ascolto mi fa rivivere delle sensazioni strane. C’è tanto di noi lì dentro di cui ti dimentichi finché non risuoni quei pezzi. E’ un po’ come l’arte dello scrivere, tramite la quale esorcizzi negatività e amplificare energie positive.
MP: Anche perché parliamo di lavori che facilmente richiedono 12 mesi di lavoro, durante i quali puoi vivere ogni tipo di esperienza!
DP: Sì, considerando poi che è un doppio cd come tra l’altro “Nosferatu”. “Monolith” e “Hal” in questo senso sono stati prodotti singolarmente in minor tempo, anche se la trilogia in sé sarà alla fine il lavoro più impegnativo nella nostra carriera musicale.
Credo sia stata una buona idea quella di spezzare il concept di “2001: Odissea Nello Spazio” in tre capitoli. Vi permette di essere presenti con più costanza sul mercato e di proporre prodotti più fruibili, che mettano meno soggezione di un impegnativo disco doppio.
DP: Decisamente. Comunque il disco doppio, nel progressive, ha il suo fascino perché ti fa apparire subito come un gruppo che vuol proporre qualcosa di importante. Il fan del prog non cerca cose semplici, a mio modo di vedere, e vuole anche essere un po’ stupito. Alcuni gruppi però caricano un po’ troppo su questo fattore e finiscono per essere troppo barocchi…
Beh, questa è forse la piaga principale che infesta la musica progressive, soprattutto oggi. Essere così prevedibili e artificiosi nel voler perseguire a tutti i costi il colpo ad effetto!
DP: Esatto! Ad ogni modo la nostra scelta di iniziare subito con album doppio è stata una mossa che ci ha dato subito un certo tipo di visibilità. Una volta finito quell’imprinting iniziale era importante iniziare a valutare anche la fluidità che ti permette di avere un disco singolo. Infatti “Monolith” ha funzionato molto di più su questo aspetto, è un disco più organico. Sai, ti ascolti “Shining” e un po’ ti dispiace interrompere a metà l’ascolto, anche perché ha ben poco senso ascoltarsi un concept in maniera parziale.
A memoria mi sembra che in “Monolith” i minutaggi dei brani siano decisamente più lunghi rispetto ai due lavori precedenti, i quali erano più spezzettati in tante piccole “scene”.
DP: Già, e non so se ho ragione nel pensarlo, ma forse un po’ sbagliammo a dare a quei dischi quella forma, perché potevamo anche creare composizioni più estese e organiche piuttosto che favorire tanti piccoli passaggi.
RR: Beh, “Monolith” ha giovato di un ragionamento preventivo. Non parlo di esserci imposti dei paletti, però avevamo già delle idee chiare al riguardo, come il fare un disco singolo. Questo è un aspetto che ti sposta di molto la composizione. Pensa solo al finale di quel disco: non è la stessa cosa fare un finale per un album pensato come singolo piuttosto che per uno inteso come primo atto di un doppio.
Poi ci sono altri aspetti. Io personalmente per “Monolith” volevo creare una suite. In fondo, tutti i nostri album sono come delle grandi suite, ma qui volevo proprio il brano singolo con la tipica struttura della suite progressive, e così è nata “Semi”, forse il nostro lavoro più corale.
Comunque il passaggio da una struttura più frammentata, fatta di piccoli episodi, a una con pochi macro-atti penso sia stata favorita anche dall’analoga struttura che propone il film “2001: Odissea Nello Spazio”, con quelle scene così dilatate. Sbaglio?
RR: E’ giusto, ma è un po’ l’essenza del progetto del cine-concerto che portiamo avanti con le RanestRane. Che poi tra l’altro non è detto che perseguiremo questo stile ancora a lungo; un mio desiderio, per dire, è di creare un classico album di canzoni con questa band, che non sia legato a un concept, tantomeno a un film.
Mi leggi nel pensiero, sarebbe stata la prossima domanda!
RR: Non sarà ovviamente il prossimo disco e francamente dubito che possa accadere già una volta concluso il progetto di questa trilogia, ma in un futuro è una cosa che mi piacerebbe fare. Ovviamente sempre nel nostro stile, per come intendiamo noi la musica progressive. Magari pure pochi brani dalla struttura molto complessa, un’insieme di piccole opere.
Sì, siamo un po’ strani perché di solito si parte da dischi semplici e poi ogni tanto ci scappa il concept. Noi faremmo il contrario! (ride, ndr).
Ma, tornando quindi a come il film influisca sul vostro songwriting...
Noi vogliamo essere sì indipendenti, ma non ci sganciamo dal film completamente. A volte ci vincola e a volte ci aiuta nel processo di ispirazione, soprattutto dettandoci i tempi. Ad esempio, negli anni abbiamo perfezionato di molto la tecnica della sincronia. C’è un momento sul prossimo disco “H.A.L.” in cui suoniamo una melodia sincopata, sincronizzata su uno zoom effettuato a scatti verso l’occhio di HAL 9000, nel momento in cui inizia la sua follia omicida uccidendo Frank, il compagno di Dave.
DP: Avevamo iniziato a fare queste cose con le accettate tirate da Jack Nicholson in “Shining”, così come nell’ellissi dell’osso che diventa astronave in “Monolith”. Lì ovviamente il film ti aiuta e se dal vivo non hai la proiezione, o peggio ancora non riesci a stargli dietro, perdi del tutto questa caratteristica.
Fortunatamene c’è dell’altro che vogliamo offrire oltre a questi trucchi. Una cosa che ci accomuna ad alcune band che ammiriamo come Genesis o Marillion sta nella cura dell’aspetto melodico, cosa che queste due band hanno, a mio parere, saputo valorizzare anche più di altre band inglesi meravigliose del prog anni 70. Questo sembra confermato dalle date che abbiamo fatto all’estero senza il supporto del video. I nostri nuovi ammiratori - pur privi del video e a fronte di una lingua a loro sconosciuta - erano in gran parte colpiti proprio dall’aspetto melodico della nostra musica. La lingua italiana è di una bellezza indiscutibile, poi purtroppo vengono spesso proposti artisti che ce lo fanno un po’, per così dire, “dimenticare”. Mi riferisco, senza far nomi, a quelle soluzioni che cercano di imitare malamente successi stranieri, a scapito di chi magari riformula la musica italiana a soluzioni nate all’estero, senza snaturarla.
In effetti, una cosa che apprezzo di RanestRane è che pur avendo voi un suono prettamente classico non scimmiottate i cliché tipici delle grandi band del passato, una moda piuttosto diffusa tra le band emergenti italiane.
DP: Grazie! Capisco cosa intendi, tutte quelle manfrine sul fatto che devi suonare con i tempi dispari, devi usare questo o quell’effetto tra moog, mellotron e così via…
RR: La differenza sta nell’essere amanti della musica e fruitori della stessa. Io percepisco le due cose separatamente e per me la scrittura della musica è un processo estremamente personale, qualcosa che lasci traccia del mio passaggio su questo mondo. Per dire: dovessi scegliere tra le due, preferisco che qualcuno suoni le mie composizioni piuttosto di suonare io le composizioni di qualche altro artista. La prima è una festa, la seconda un lavoro. Devo anche ammettere che in “H.A.L.” c’è una vera e propria citazione, forse la prima che facciamo così apertamente, a un artista che adoriamo: Pat Metheny. Ma questo lo sentiamo come un omaggio, non con come un’imitazione. Del resto noi suoniamo progressive, ma abbiamo ciascuno radici che partono da altre parti: la canzone d’autore e il jazz per dirne due.
DP: tra l’altro i nostri periodi di influenza musicale sono stati sempre vissuti insieme, che sia stato il periodo di Metheny, di Fossati o di un qualche revival floydiano. Così come ci passiamo sistematicamente i nuovi artisti che scopriamo.
MP: un fattore determinante sta anche nel condividere le nostre vite. Siamo come quattro fratelli - oltre ai due “di sangue” che siamo io e Daniele - che condividono molto più delle prove che fanno insieme in studio. Le nostre vite sono strettamente correlate, al di là delle differenze caratteriali o della visibilità che ciascuno preferisce più o meno avere.
Immagino che voi, da professionisti quali siete, siete abbastanza attenti alla scena musicale attuale.
DP: Certo, non guardiamo solo alla musica anni 70: per noi un riferimento importante sono i Radiohead, forse l’ultimo gruppo che pensiamo abbia dato qualcosa di davvero decisivo alla musica mondiale, un po’ come facevano gli U2 prima di loro. Poi molte cose più recenti mi arrivano grazie al contatto che ho con i miei allievi di batteria.
Prima parlavamo dell’aspetto musicale tra "Nosferatu", "Shining" e "Monolith".
In tutta onestà avevo delle difficoltà con le linee vocali dei primi due album, così fortemente descrittive, con minor enfasi sulla musicalità delle stesse; con “Monolith” noto che cercate uno stile maggiormente metaforico e soprattutto più melodico, meglio amalgamato con la componente strumentale.
DP: Sai, ognuno di noi è una sorta di caleidoscopio di varie persone che si succedono, a seconda dei vari momenti della vita o della giornata. Nel mio, il batterista è predominante, è la mia parte maschile, il ruolo che ho deciso e che non sacrificherei per nessuna cosa. Amo fare il cantante e lo scrittore di testi ma non sono partito da lì. Ammiro ovviamente Phil Collins - da “collinsiano” convinto - per come ha saputo dominare entrambi i ruoli. Come cantante sono decisamente più giovane e inesperto rispetto al mio compito di batterista, anche se per mia fortuna il connubio tra le due attività mi risulta piuttosto naturale, nonostante il conflitto che c’è normalmente tra la parte vocale e quella ritmica. E’ molto difficile, ci sono momenti in cui tu devi dare il groove con la tua voce e magari contemporaneamente andare pure fuori tempo! Fossati mi ha aiutato moltissimo a imparare come dare importanza alla parola scritta. Io non mi piaccio mai quando canto, neanche oggi, ma penso che “Nosferatu” e “Shining” siano stati per me due dischi utili alla mia maturazione. In “Monolith” mi sento effettivamente più credibile.
Ammetto che il fatto di suonare la batteria mi da un po’ di sicurezza in più, paradossalmente. Posso sempre dire: “se non vi piace come canto… insomma, provateci un po’ voi a farlo suonando!” (ride, ndr).
Poi, ok, ho le mie furbate. Nei primi dischi ero più incosciente, mentre in “Monolith” ho imparato a non mettermi troppo in difficoltà, cercando le cose vocalmente più impegnative quando mi trovo a suonare cose più semplici. Tra l’altro una ritmica meglio legata alla voce aiuta molto l’ascoltatore straniero, che ovviamente non conosce la nostra lingua, ad apprezzare meglio l’ascolto.
E poi ho il sospetto che i vostri testi recenti abbiano un messaggio più sottile che in passato.
RR: Sì, pensiamo alla parola che descrive uno dei nostri ultimi brani: “Semi”. In essa c’è un significato forte che personalmente associo all’intero concetto che sta in “Odissea nello Spazio”, cioè che noi, la nostra intelligenza e consapevolezza, siamo stati di fatto seminati nella Terra da un’energia superiore che poi ha posto questi monoliti sparsi sulla Terra, Luna e Saturno (o Giove, come nell’interpretazione della pellicola). Questi monoliti dialogano tra loro e trasmettono conoscenza. Noi quindi siamo dei semi di conoscenza. Nel libro di Clark questo concetto è spiegato meglio rispetto al film.
DP: I monoliti sono delle porte, in particolare quello di Saturno. Nel film di Kubrick questo aspetto si è un po’ perso, forse perché l’autore era poco interessato al riguardo, ma nel libro non è altro che una porta attraverso la quale Dave entra e fa un vero e proprio viaggio verso una nuova situazione.
E’ anche bello secondo me quello che siamo riusciti a fare nella proiezione che hai potuto vedere ieri sera, durante l’esecuzione di “H.A.L.”, dove abbiamo rimaneggiato la scena in cui l’occhio del computer impazzisce. Lì creiamo una sorta di reverse di immagini che riattraversa a ritroso tutto il film fino alla scena della scimmia che impara a usare l’osso come arma. Con questa nostra personalizzazione cerchiamo di rafforzare il concetto del “seme”, ovvero di sviluppare una conoscenza autonoma così potenta da riuscire a creare addirittura un seme indipendente, la macchina HAL. Purtroppo un seme corrotto, perché alla fine va a distruggere la vita di chi lo ha creato.
Beh, in fondo l’atto criminale di HAL non è altro che un istinto di sopravvivenza, quindi di fatto un seme in tutto e per tutto compatibile con quello umano. Infatti ho decisamente apprezzato quel montaggio in reverse che avete realizzato perché va a dare una chiave di lettura che a me personalmente era sempre sfuggita: il parallelismo tra HAL che cerca di uccidere Frank e David e la scimmia “Guardalaluna” che aggredisce le tigri cacciatrici o le altre scimmie che vanno a minacciare la sua esistenza.
DP: E’ vero. HAL non è altro che un bambino, così come è un bambino lo Starchild che nascerà nel finale del film, ossia un ulteriore seme. E’ tutto un ciclo che si ripete e che comprende uomo, animale e macchina.
Poi comunque il segreto dei film di Kubrick - così com’è stato anche per “Shining” - è che l’autore non dimostra mai tutto, lasciando a te dei punti di domanda, aprendoti delle zone nelle quali eventualmente sei tu a poterti muovere dando loro un seguito; un po’ come fanno tutti i grandi registi.
La musica può essere uno dei motori attraverso il quale muoversi in queste zone e poter dire la nostra. Nessuno ci dirà se quel che diciamo noi su “2001: Odissea nello Spazio”, in particolare su questa successione di “semi” tra scimmia, uomo, macchina e poi di nuovo uomo sia giusta o meno. L’autore poi non c’è più... e poi, ammesso che ci fosse ancora stato, dubito sarebbe intervenuto al riguardo delle RanestRane! (ride, ndr)
Riguardo la decisione di cantare in italiano: quali sono state le motivazioni di una scelta che può essere definita coraggiosa, considerando il contesto in cui vi muovete, e quali sono state le resistenze che avete incontrato, compresi ascoltatori italiani?
DP: qui cogli nel vivo. Le resistenze ci sono state più da parte degli ascoltatori italiani che stranieri! Vedi, i fan del progressive vogliono essere stupiti, soprattutto quelli stranieri. Io ti assicuro che non c’è stata una sola volta in cui uno dei nostri nuovi fan all’estero, anche il più critico e oggettivo di essi, ci abbia fatto notare qualcosa come: “Sì… bello! Però, mannaggia, peccato che non cantate in inglese…”. Mai! Anzi, è capitato spesso che ci abbiano detto qualcosa tipo: “Non ci ho capito un bel niente, ma mi è piaciuto tanto!”. Loro la sentono in fondo come una lingua etnica, del resto Peter Gabriel è uno che ci ha giocato spesso sullo sfruttare lingue esotiche nella sua musica. I suoi fan non si sono certo mai lamentati di queste cose, ma erano anche predisposti ad ascoltare qualcosa del genere da lui.
RR: sai, c’è un aneddoto divertente. Una volta un fan danese, che ha un figlio, ci ha raccontato che ascolta i nostri dischi in macchina tutte le mattine andando a lavoro, accompagnando il figlio a scuola. Beh, in pratica, questo bambino è andato in fissa con il nostro gruppo. Sai, quando io avevo otto anni ed ero un grande fan degli Europe e mi ero imparato tutto il disco a memoria scimmiottando parole che ovviamente non conoscevo, imitando tutti i suoi suoni. Beh, questo piccolo danese ha fatto la stessa cosa con noi, imparandosi i nostri dischi in falso italiano. E’ una roba fuori di testa!
Che poi queste resistenze tendo a notarle soprattutto in alcuni generi musicali, come il progressive, il metal, l’hard-rock. Voglio dire, nel cantautorato chi si azzarderebbe a dire qualcosa come “peccato che sia cantato in italiano”?
DP: Vero! E poi, mi permetto anche di dire che se gente come Steve Hogarth e Steve Rothery dei Marillion hanno prestato la loro chitarra e la loro voce liberamente e gratuitamente per il nostro disco, tanto problematica la nostra lingua non sarà stata!
RR: Oltre ad esser stati noi la prima band non anglofona ad essere stata invitata a suonare al loro evento speciale, il Marillion Weekend. E chi ci dice di cantare in inglese? Gli italiani! (ride, ndr).
DP: che poi, diciamolo… se non hai un madrelingua o una persona con un inglese assolutamente eccellente, cantare in inglese è solo un rischio. Considera inoltre la proprietà di linguaggio che ciascuno di noi ha in quanto madrelingua, con le sue figure retoriche, le frasi idiomatiche… è praticamente impossibile per molti noi italiani scrivere qualcosa dello stesso livello in un’altra lingua. La nostra lingua deve essere il nostro tratto distintivo, l’unica cosa che ci può salvare dallo scimmiottare qualche grande band del passato. Poi beh... se Steve Hogarth si offrisse di cantare per noi un intero disco, col cavolo che rifiuteremmo! (ride, ndr).
Chiudiamo con quello che per voi è probabilmente stato un grande traguardo: la vostra partecipazione al Marillion Weekend 2015, tra l’altro nella serata più importante del festival.
DP: Sia per la nostra grande ammirazione per i Marillion, sia per il primato di essere stati i primi stranieri a suonare là, è stata forse la nostra più grande responsabilità. C’erano molti dei nostri fan europei e soprattutto c’erano molte persone che hanno sponsorizzato la nostra presenza su quel palco che non volevamo deludere. Quella è stata la volta in cui ero più emozionato, lo giuro, e faticavo a respirare per quanto mi batteva il cuore. Avendo un microfono fisso davanti alla mia bocca, dovevo stare attento a non ansimare troppo… una fatica bestiale! Tra l’altro davo per scontato che i Marillion non avrebbero ascoltato il nostro set, troppo impegnati a prepararsi per suonare dopo di noi. E invece li abbiamo trovati tutti nel backstage a fine spettacolo. Hogarth era raggiante, diceva che non aveva mai sentito una risposta simile da parte del loro pubblico per una band di spalla. Il ritorno alla realtà dopo tutto ciò non è stato semplice, per noi tutto ciò era un sogno quasi inconcepibile.