Una realtà concreta, che con "The Plural Of The Choir" rischierà di far aumentare i già vasti consensi. Sono i Settlefish, band bolognese accasata alla Unhip Records, in Italia, e alla Deep Elm negli Stati Uniti. Un suono emotivamente convolgente, istintivo eppure intransigente nel colpire con sana immediatezza. Il giusto bilanciamento fra rumore e melodia, per una delle formazioni italiani con maggiore respiro internazionale. Siamo andati a conoscerli meglio, approfittando della disponibilità di Emilio (chitarra) e Jonathan (voce-chitarra).
Partiamo dal passato. Pur avendo apprezzato "Dance A While, Upset" , il nuovo album mi pare abbia un altro spessore. Non parlo tanto delle canzoni in se stesse, quanto della produzione e della registrazione. Come è stato lavorare con Brian Deck e che differenze concrete riscontrate rispetto all'altro lavoro?
Emilio: Le differenze sono enormi, devi sapere che "Dance A While, Upset" fu registrato nello studio di Bruno (l'altro chitarrista) e Danilo, ed è stato un lavoro completamente diy, eravamo produttori di noi stessi con tutti i vantaggi e gli svantaggi che la cosa può avere. "The Plural Of The Choir", invece, è stato realizzato in uno studio professionale, e con l'ausilio di Brian, che è stato molto bravo a tradurre il nostro suono su nastro. Volevamo un disco rock, ma che avesse anche una grossa componente acustica e ambientale e Deck ha colto egregiamente questo spunto. Quest'ultimo disco, inoltre, è stato composto in un lasso di tempo breve: in otto mesi era concluso tutto, ha una scrittura, insomma, molto più compatta. "Dance A While…", invece, raccoglieva pezzi che potevano avere anche 2 o 3 anni. "The Plural Of The Choir" è come un racconto breve, è un disco che va ascoltato in blocco, una piccola storia di perdita e speranza.
I brani sono quindici, spesso diversi fra loro, eppure c'è un amalgama di fondo che non viene mai meno. Un disco "globale", pur avendo al suo interno degli episodi che potrebbero benissimo avere una propria indipendenza. Siete d'accordo?
Emilio: In parte sono d'accordo con te, ci sono atmosfere molto diverse nel disco, ma sono tutte parte della stessa storia, ogni canzone è propedeutica a quella che segue, ed è per questo che volevamo che ogni brano desse la sensazione di accompagnare per mano il successivo, se ci fai caso anche il finale dell'ultima traccia riprende idealmente l'inizio del disco. E' come un cerchio che si chiude e ricomincia.
Alcuni hanno parlato di una maggiore attitudine indie nel suono. Io aggiungerei una superiore raffinatezza nelle atmosfere (seppur a modo vostro), e il connubio fra nevrosi e melodia ancora più evidente rispetto al passato. Cosa ne pensate?
Emilio: Ti ringrazio, in fondo credo che questo sia lo specchio del fatto che abbiamo molto compattato i ranghi in questi ultimi due anni, è da tempo che non abbiamo un cambio di formazione. Credo che la melodia e il rumore siano parti essenziali dei Settlefish, perché i nostri ascolti vanno dai Califone, agli Us Maple, passando per Fugazi e Pavement. Siamo amanti delle melodie, ma ci piace anche il fragore e il feedback prodotto dalle chitarre e credo che questo sia alla nostra base.
Rispetto ai vostri lavori precedenti si è modificato il vostro processo compositivo?
Emilio: Siamo più veloci e molto meno prolissi. Una volta ci venivano fuori anche pezzi di 12 minuti, ora le tracce più lunghe durano sei minuti. Credo che questo si debba a un maggiore affiatamento tra noi. Molti pezzi sono nati anche improvvisando! Ed è strano che, per esempio, "Barnacle Beach", che è una delle canzoni più poppy del disco, sia venuta fuori da una jam in pochi minuti. Quel giorno fu molto bello: scoprire che ora molte cose sono piuttosto naturali per noi.
Opinione personale: mi sembra abbiate lavorato molto su una sorta di bilanciamento fra melodia e schizofrenia, istanti trattenuti e altri più liberi. I contrasti sono importanti nella vostra musica?
Emilio: Lo sono senz'altro! Mi fa piacere che tu ti accorga di questa cosa. L'altro giorno ho sorriso leggendo in un forum, in cui qualcuno diceva che le nostre chitarre sembrano suonate male, ma che è proprio quello il nostro bello. In realtà, come ti accennavo, molti di noi sono fan di gruppi come Us Maple o Owls che hanno fatto della stortura chitarristica il loro vessillo. Certo, quest'elemento in noi è molto meno presente, e più votato all'armonia tra chitarre e basso, però ci piace molto quel tipo di approccio allo strumento, perché da molta incertezza all'ascoltatore, e questo disco doveva in qualche modo esprimere incertezze. Tornando ai chiari-scuri: così è la vita, fatta di alti e bassi, attimi felici e attimi più tristi, e così è anche questo disco, non univoco, in bilico tra gioia e malinconia.
Quanta importanza date ai testi e come nascono?
Jonathan: Ci sono alcuni testi che nascono prime delle canzoni e poi vengono rielaborati in sala quando componiamo assieme. Mi occupo io dei testi e per questo disco sono tutte cose nate in poco tempo, che hanno seguito la lavorazione del disco e il periodo che stavamo vivendo come gruppo. I testi vogliono essere una sorta di sintesi di come io vedo noi cinque nel gruppo, delle nostre relazioni. La mia storia fa da cardine o raggruppamento per le altre. I testi sono molto diversi rispetto al primo disco, nel quale erano maggiormente ermetici e meno legati. Qui mi sono focalizzato su un argomento e mi sono sforzato di essere il più diretto e crudo possibile, cercando di distanziarmi dai facili clichè che si trovano nelle canzoni che parlano di relazioni.
Post-punk, indie, emo… vi infastidiscono determinate catalogazioni oppure le ritenete inevitabili?
Emilio: Non amiamo le definizioni, però le troviamo inevitabili. Certo, ormai, per esempio, la parola "emo" viene usata per definire gruppi lontanissimi da noi, e che detestiamo enormemente (vedi Good Charlotte, Simple Plan e compagnia bella), però in passato etichettava band che noi amiamo alla follia, come Embrace, Rites Of Spring e Cap'n jazz.. Tutto è molto relativo, pensa se domani uscisse "Zen Arcade" degli Husker Du, sarebbe emo forse?
Alcune collaborazioni: oltre a Deck, anche Jukka Riverberi dei Giardini Di Mirò, Carlo Masu e Ferruccio Quercetti dei Cut. Nei brani in cui sono protagonisti, che tipo di ruolo hanno avuto?
Emilio: Carlo, Jukka e Ferruccio sono nostri amici, gente con cui ci si vede ai concerti e che conosciamo da anni. Passavano dallo studio e noi li abbiamo semplicemente obbligati a mettere qualcosa di loro nei pezzi! Eheheh... No scherzo, però non tanto, passavano di lì e allora li abbiamo coinvolti. Poi Jukka ha aggiunto una chitarra davvero splendida sul finale di "We Please The Night, Drama", ha davvero dato un'altra aura con quella coda.
In Italia con Unhip, negli States ancora con Deep Elm. Come descrivereste il rapporto con queste due etichette?
Emilio: Con entrambe le etichette il rapporto è ottimo, certo i ragazzi di Unhip abitano nella nostra città e collaboriamo insieme a un sacco di iniziative, è quindi naturale che il rapporto con loro sia molto più stretto. Però anche con la gente di Deep Elm ci sentiamo spesso via e-mail, e ci stanno dando una mano per il tour americano, che si svolgerà tra giugno e luglio. Tutto va bene con le nostre etichette!
Siete uno dei gruppi italiani che più suona fuori dal nostro paese. Ora, un tour europeo, poi uno in America, in compagnia dei Desert City Soundtrack. Dall'interno, che differenze avete riscontrato fra l'estero e l'Italia?
Emilio: Credo che all'estero ci sia in generale più cultura rock, e quindi andare a vedere un concerto è molto pù normale e meno penalizzante che in Italia. Per dirti, in Inghilterra tutto inizia alle 8 e alle 11.30 tutto finisce, così anche chi deve lavorare o va a scuola, può godersi lo spettacolo! In generale, però, i ragazzi sono sempre i ragazzi e si beve e scherza dopo il concerto da Napoli a Glasgow! Inoltre, queste date italiane sono andate molto bene e questo lo dobbiamo anche a Labile e soprattutto ad Angelo che ce le ha organizzate. E' stato un vero papà per noi!
E come realtà musicali? Siamo degli inguaribili esterofili, oppure qualche motivo concreto c'è?
Emilio: Devo dire che quando suono all'estero, trovo davvero poche band che mi piacciano. Anzi per ora solo in Inghilterra abbiamo suonato con un gruppo che davvero ci ha preso molto bene e che infatti abbiamo invitato ad aprire Il nostro release party qui in italia: gli Hot Club De Paris. In Italia ci sono parecchi ottimi gruppi, e molti, anche se di nicchia, vanno in tour. Non mi sembra che si debba rimpiangere nulla, se non una persistente ostilità delle etichette estere nei nostri confronti, ma piano piano anche questo sta cambiando.
Un altro vizio italiano è nutrire invidia per chi riesce in qualche modo a uscire... E' un atteggiamento che avete riscontrato anche voi?
Emilio: Sì, ma non ci importa, noi facciamo il nostro e guardiamo avanti. Noi siamo felici della nostra band e ci divertiamo molto, il resto sono chiacchiere, e non ce ne può fregare di meno!
Cosa ascoltano oggi i Settlefish e quali sono i dischi che più hanno influito sul vostro modo di creare musica?
Emilio: tantissime cose, posso dirti che in furgone ora ascoltiamo molto: Arcade Fire, l'ultimo Yuppie Flu, Yage, Pedro The Lion, Joy Division, Television...
Jonathan: già in furgone gira di tutto, The Walkmen, Futureheads, June Of '44 (questi sempre, da ormai cinque anni), Cure, The Shins, Iron & Wine...
Per finire, cosa chiedono i Settlefish al futuro?
Emilio: chiediamo di continuare a stare bene tra noi e divertirci come stiamo facendo ora.