"I nostri fan ci mandano centinaia di cassette da tutt'Italia. Ci teniamo in contatto, discutiamo, e alla fine scegliamo con loro i pezzi migliori". L'entusiasmo con cui lo racconta non lascia dubbi: crede ancora allo "stile-Nomadi" Beppe Carletti, fondatore e unico superstite del nucleo originario della storica band emiliana, trentacinque anni di canzoni e successi in comunione totale con il pubblico. Una formula inossidabile, malgrado i continui stravolgimenti nell'organico della band, "grande famiglia" aperta a tutti. "Ogni nuovo membro - spiega Carletti - sa che dovrà condividere il nostro credo; ci sono i concerti, ci sono i tanti fan club sparsi per l'Italia. C'è che l'ha trovato pesante, e infatti se n'è andato.".
Chi è rimasto, invece, ha ancora tanta passione da trasformare in musica. Come conferma anche il più recente album del gruppo, "Una storia da raccontare". Un disco che parla di pena di morte, ma anche di amicizie, amori, leggende popolari, sogni. Temi ricorrenti nella produzione nomade. "Siamo sempre stati etichettati come un gruppo 'politico' - dice Carletti -. Non rinneghiamo il nostro passato, ma le nostre canzoni sono sempre state soprattutto 'sociali'; con "Auschwitz", ad esempio, volevamo cantare un momento della storia, non fare della ideologia. Purtroppo, poi, di Auschwitz ce ne sono state tante altre. Le nostre storie sono spesso drammatiche, ma alla fine lasciano sempre spazio alla speranza. Non vogliamo deprimere la gente, ma solo farla riflettere".
E' questa la filosofia del gruppo fin dall'esordio. Il primo embrione di quelli che poi sarebbero stati i Nomadi nasce in una calda giornata del 1961, in piena era del "dopo-boom". Un gruppo di ragazzi, capeggiati da Beppe e la sua fisarmonica, comincia a esibirsi nei paesi della campagna modenese. Inizialmente si chiamano I Monelli. Ma ben presto si accorgono che quel nome è un limite. Non sarebbero potuti essere eternamente "monelli". Si sentono però "vagabondi", nella musica come nella vita. E' il 1962 quando un giovanotto di sedici anni si unisce al resto della banda: Augusto Daolio, il filosofo, colui che avrebbe portato nel gruppo un tocco di poesia e di magia.
Nascono così i Nomadi, l'unico gruppo italiano che ha attraversato trentacinque anni di storia. E' cresciuto e cambiato in un'Italia in continuo mutamento, mantenendo sempre una sua personalità. La morte di Augusto, nel 1992, a soli 45 anni, è stata una brutta batosta, forse il segno se non di una fine, di un passaggio importante. "E' stato l'unico momento in tutti questi anni in cui ho pensato veramente di mollare - racconta Carletti -. Il pensiero di salire sul palco senza di lui sembrava inconcepibile. Ma in quell'anno è morto, in un incidente stradale, anche un altro componente del gruppo, il bassista Dante Pergreffi. Allora mi sono ribellato, ho pensato che solo andando avanti potevo tenere vivo il ricordo dei miei amici. Ed è stato così, la tomba di Augusto, nel cimitero di Novellara, non è un luogo triste; è pieno di vita, c'è una chitarra appesa, una maglietta, tanti ricordi. E i giovani che vengono ai nostri concerti mi chiedono tutti di Augusto".
Un disco-tributo da parte di diversi artisti italiani (con una struggente versione di "Noi non ci saremo", ad opera dei Csi) ha voluto ricordare la sua figura nel 1995. Ma chi era veramente Augusto Daolio? Carletti lo ricorda con l'emozione di un amico, più che un collega "Era un artista completo: cantante, pittore, scrittore, poeta. Ci siamo conosciuti a 16 anni; venivamo tutti e due da un paese di campagna, stessa storia: quinta elementare e poi via, a lavorare, ad aiutare i genitori. Ma poi lui ha fatto tutto da solo, ha cominciato a leggere libri, a scrivere, e poco tempo dopo era già una spanna sopra di noi". Il carisma di Augusto era visibile sul palco, dove dava sempre il massimo. "Eppure era un introverso, sembrava quasi scostante, ma in realtà nascondeva la sua timidezza. Sul palco, però, spariva tutto: era bellissimo sentirlo dialogare con il pubblico".
Insieme, Carletti e Daolio hanno condiviso la gioia dei trionfi, ma anche la rabbia per tante battaglie perse. Come la sfortunata partecipazione al "Disco per l'estate" con quello che sarebbe poi diventato il loro inno, "Io vagabondo" (in testa nella prima serata, vengono poi retrocessi all'ultimo posto solo perché "qualcuno si era lamentato"). O come la sfida impossibile alla censura della Rai contro "Dio è morto". "La consideravano una canzone di sinistra, materialista. orse la pensava così anche qualcuno che frequentava i nostri concerti. Invece era piena di spiritualità e di speranza". Se ne accorse la Radio Vaticana, che la mandò in onda prima della Rai.
Gli anni Sessanta segnano l'affermazione dei Nomadi. La loro musica, la loro voglia di libertà conquista i giovani. Hanno rabbia dentro e grande senso artistico, voglia di emergere, ma anche di mantenere una propria integrità. Volano i loro pensieri, in un'immensa e immaginaria musica che trasforma la loro filosofia in versi. Negli anni Sessanta due membri del gruppo vanno via, e il bassista che subentra si chiama Umberto Maggi, "una faccia pulita, da vero milanese trapiantato a Modena", secondo la definizione di Carletti. e loro canzoni conquistano i giovani, sono esplosive e drammaticamente attuali. Nasce anche il sodalizio con Francesco Guccini, un affetto che va oltre la musica, tanto che i Nomadi pubblicano un disco di cover delle sue canzoni, I Nomadi interpretano Guccini. E' il 1974.
Gli anni passano e il mondo della musica sembra voltare le spalle al piccolo gruppo di filosofi vagabondi.
In una trasmissione radiofonica della Rai di Bologna, in cui sono ospiti, il conduttore li inviata addirittura ad abbandonare le scene, perché, dal suo punto di vista, non hanno più niente da dire". I Nomadi, invece, continuano, indifferenti alle critiche, senza però riuscire a spiegarsi l'improvviso cambio di tendenza del pubblico: "La gente a volte può anche non capirti, ma bisogna sempre seguire i propri ideali; se sei in pace con te stesso, il tempo ti darà ragione".
Tempi duri, insomma. "Tirammo la cinghia, anni con poco lavoro, ma con tanta voglia di spaccare il mondo". Per incanalare la rabbia, i Nomadi fondano persino una squadra di calcio. L'album che in qualche modo segna la loro riscossa è "Noi ci saremo". E' il 1976, e da questo momento in poi si crea un pubblico fedelissimo, che ama e segue, nel bene e nel male, la famiglia Nomadi.
Il 15 settembre 1983, alla festa dell'Unità di Reggio Emilia, si celebrano vent'anni di Nomadi: è un trionfo, con i cinque protagonisti che giungono a bordo di una fiammante spider rossa, tra due ali di folla. Gli anni a seguire, invece, sono caratterizzati da alti e bassi. Sembra che i giovani si siano annoiati della loro musica. A seguirli rimangono i fedelissimi.
Gli anni Novanta, invece, cominciano alla grande per il gruppo emiliano: riconoscimenti, perfino rare apparizioni in tv, contatti. Sembra per un attimo tornato l'antico splendore. Fino alla malattia di Augusto Daolio e alla sua morte, che lacera e brucia il cuore dei Nomadi. "L'idea di continuare agli stessi livelli sembrava impossibile, c'era il rischio di riproporsi come un pugile suonato sul ring". Ma il miracolo riesce ancora. Sempre grazie al formidabile connubio con il pubblico. "n fondo, è un altro nomade, si sente partecipe fino in fondo di quello che facciamo. E' cambiato, si è ringiovanito, molti sono i figli di quelli che ci seguivano, altri sono ragazzi nuovi, che magari coinvolgono i loro genitori".
"Sempre Nomadi" è il grido di battaglia dei loro concerti. E lo spirito da vagabondo ha portato Carletti e soci a girare il mondo, in cerca di nuove esperienze, non solo musicali. Hanno suonato con artisti cubani, palestinesi, bretoni, indiani. E sono riusciti a farsi ricevere da personalità internazionali come Arafat, Fidel Castro e il Dalai Lama. Quest'ultimo ha lasciato sul gruppo un segno profondo. "E' incredibile la carica spirituale che ti trasmette. Ci ha ringraziato per le nostre iniziative per i bambini del Tibet. Parlava in inglese: io lo capisco pochissimo, eppure comprendevo ogni parola".
Spirito nomade, insomma, ma anche tanto spirito emiliano nelle radici della band. "Essere emiliani, in fondo, vuol dire essere dei testoni, essere tosti e non mollare mai. Ma Emilia significa anche culto delle balere, voglia di divertirsi. Nel mio piccolo paese, di quattromila abitanti, c'era una balera all'aperto. Avevo dodici anni e mi mettevo lì ad ascoltare i musicisti per ore. Se non ci fosse stata, forse, non avrei scelto questo mestiere".