"Doremi Fasol Latido" è il capolavoro degli Hawkwind (un gradino sopra a "In Search Of Space" del 1971), ed è anche il disco in cui viene portata a compimento la loro epocale intuizione: combinare la violenza dell'hard-rock con la visionarietà della psichedelia. Lo chiamarono "space-rock" e sarebbe diventato uno dei generi più prolifici della musica rock. Ma, sia ben chiaro: non era la prima volta che i musicisti rock (sulla scia dei più illuminati musicisti jazz e d'avanguardia) alzavano gli occhi al cielo, puntando dritto verso l'infinità del cosmo. Era già successo, infatti, un po' con tutta la cultura psichedelica, che, a un certo punto, creando sottilissime corrispondenze tra inconscio e cosmo (quasi in una rilettura moderna di certi ideali romantici) si era persa negli spazi siderali, così lontani e misteriosi da far scaturire negli animi più sensibili (o sarebbe meglio dire "sballati"?) sensazioni e immagini di una spaventosa forza rivoluzionaria, con conseguenze immani sugli sviluppi della musica rock.
Si pensi, per un attimo, all'impatto che ebbe, ad esempio, la "Astronomy Domine" dei Pink Floyd su tutto l'underground inglese (e non solo) del tempo. Ma sarebbe stato possibile tutto questo senza l'aiuto di qualche francobollo a base di Lsd? Forse. Ma chi può esserne certo? L'unica certezza è che una volta svanita la stagione dei fiori, l'eroina iniziò a farla da padrona. L'epoca del riflusso portava con sé le visioni maledette di una droga non più capace di predisporre alla generazione di utopie, ma, al massimo, condurre alla sconsolata accettazione del declino dell'idea stessa di utopia.
Così, lo space-rock degli Hawkwind finì per assumere connotati "negativi", ossessivi, traducendosi in strutture musicali mastodontiche, statiche, rovinosamente confinate in un eternità senza sbocchi. Alle dilatazioni oniriche della psichedelia "sixties" subentravano partiture semplificate e ripetitive. La ripetizione si faceva simbolo di una nuova condizione esistenziale. Noia ed eroina: due facce della stessa medaglia. Per questa strada, lo space-rock sarebbe arrivato in California, la terra che diede i natali a una delle band più terroriste e creative del genere: i Chrome. Ma, intanto, all'inizio dei 70, la strada da percorrere era ancora lunga. Hawkwind, dunque. Ovvero, nella formazione che registrò il disco in questione: Dave Brock (voce, chitarra, armonica e tastiere), Del Dettmar (synth, tastiere), Dik Mik (synth, suoni elettronici), Ian "Lemmy" Kilmister - sì, proprio lui- (basso, chitarra, voce), Simon King (batteria) e Nik Turner (sax, flauto e voce).
L'esordio era stato omonimo, nel 1970. Idee rivoluzionarie, ma songwriting ed equilibrio tra le parti ancora da registrare. All'isola di Wight, comunque, in quello che fu il canto del cigno dell'utopia hippie, i nostri, ospiti indesiderati, riuscirono a mandare in paranoia la platea. Una nuova epoca stava maturando. Il secondogenito "In Search Of Space" aveva messo le cose a posto, con brani eccellenti, quali "You Shouldn't Do That", "You Know You're Only Dreaming" e "We Took The Wrong Step Years Ago" (tra i loro vertici assoluti).
Ma è con questo lavoro del 1972 che la ricetta assume i crismi del capolavoro. Intendiamoci, gli Hawkwind ripetono in sostanza la stessa formula dei due dischi precedenti, ma qui lo fanno con maggiore convinzione e con una creatività, a tratti, dirompente. Il riff di chitarra che introduce "Brainstorm" proviene direttamente da qualche disco di hard-rock. Ma bastano pochi secondi per rendersi conto che le cose non quadrano. Gli Hawkwind vogliono coinvolgerci in un trip allucinogeno; o, meglio, vogliono ricrearlo attraverso un uso spericolato dell'elettronica, un battito ritmico mai domo, degli avvolgenti uragani galattici. E, allora, tra progressioni incendiarie e stasi astrali, gli oscillatori, il sax e le chitarre mostrano scorciatoie per il cuore di buchi neri, pronti a risucchiare il suono e a trafiggerne le membra, disintegrandone i contorni in un imponente olocausto sonoro (i Bardo Pond, e non solo, prenderanno nota). Il batterismo di King si muove indeciso tra tentazioni primitiviste (una Maureen Tucker sintetizzata in laboratorio e avviata a una metamorfosi robotica) e passaggi esplosivi, anche se, tutto sommato, contenuti. Col tempo, questo sarebbe rimasto uno dei loro brani-simbolo, nonché uno dei loro massimi capolavori.
Mentre la musica rovista le sue budella, la 12 corde di Brock espone scintillanti acquerelli acustici, in mezzo a una brezza carica di polline elettronico. E' il preludio alla magnifica "Space Is Deep", scaraventata tra tempeste di asteroidi e impreziosita dall'innodia serpeggiante e celestiale del synth. Alla mini-sonata per piano elettrico di "One Change" segue la cavalcata abrasiva di "Lord Of Light", con una poderosa linea di basso di Lemmy: una trance esasperata, una linea di congiunzione tracciata tra galassie lontanissime, e un furore lisergico-elettronico senza sosta (togliete tutto l'armamentario psichedelico e avrete i Motorhead!).
E' un bel sentire, nella seconda parte, le chitarre prendere letteralmente fuoco, inventando, di sana pianta, una generazione intera di chitarristi "spaziali", da Helios Creed ai fratelli Gibbons. Ancora 12 corde acustica immersa in un vento siderale in apertura di "Down Through The Night", ballata eroinomane per astronauti alla deriva. Un poderoso groove blueseggiante, invece, scandisce il lievitare indolente di "Time We Left This World Today", con le chitarre martoriate a suon di wah-wah e un senso della "trance" pericolosamente solipsista. La musica finisce per diventare un vero e proprio ego-trip, senza altra possibilità che quella di scavarsi dentro, nella vana speranza di trovare una via d'uscita da quest'incubo. Questo "autismo del suono" giunge al punto di non ritorno nella ballata "nera" di "The Watcher". Lemmy canta a fatica, incespicando nelle parole, mentre l'arpeggio di chitarra, infestato da scie deformi di synth, risuona "vuoto", ormai esausto. Il fondale cosmico è del tutto annullato.
Insomma, è come se, alla fine di questo viaggio, la mimesi intrapresa dagli Hawkwind ricadesse in una spaventosa impotenza dinanzi alla profondità immane del cosmo. E, infatti, dopo il potentissimo "Space Ritual" (uno dei live-album più grandi di tutti i tempi), Brock e soci non sarebbero più riusciti a catturarne l'essenza.
30/10/2006