A ventitré anni, oppressa da una vicenda personale fatta di abusi sessuali da parte di madre, arresti per taccheggio, una gravidanza indesiderata, un disco d'esordio fulminante ma difficile da digerire, un matrimonio seguito dalla separazione, guai di ogni tipo con la casa discografica e i tabloid, sospettata perfino di sostenere l'Ira, Sinéad O'Connor si prende una pausa di riflessione. Trascorre l'estate in rigoroso isolamento. Mangia vegetariano, pratica lo yoga e studia la Cabala. Ne esce con un disco interamente autoprodotto, che diverrà oltre ogni aspettativa il primo bestseller degli anni 90: "I Do Not Want What I Haven't Got". Un disco estremo come il precedente, ma opposto: tanto "The Lion And The Cobra" era viscerale, irruento e discontinuo, tanto questo è spirituale, meditato e profondamente unitario. Non mancano le emozioni. Ma sono tutte interiorizzate, colte dalla prospettiva di chi, attraversata la stagione nera, sente di aver imparato qualcosa e può permettersi di aspirare alla redenzione. Dopo l'inferno, il purgatorio.
L'autoproduzione di Sinéad, oltre a manifestare l'intenzione di riprendere in mano la sua vita, ha anche il pregio di chiudere col caos di stili precedente, seguendo la strada del minimale assoluto: quasi tutte le canzoni si servono di due, massimo tre strumenti, stilizzandone e valorizzandone al massimo la carica espressiva.
Apre il disco "Feel So Different", un manifesto. Su un tappeto di archi, Sinéad innalza una preghiera al suo nuovo punto di riferimento, Dio. La voce calibra col contagocce le stonature che l'avevano resa celebre, ma non per questo la canzone si sottrae al crescendo che l'orecchio attende, con gli archi in rapido contrappunto e il canto che sale di un'ottava mimando un'ascensione mistica. Sembra Enya? Un po'. Ma il suono è nudo, schietto, senza riverberi inutili, e lo spirito è quello di una Maria Maddalena punk. "I Am Stretched On Your Grave" è il suo più riuscito tentativo di unire stile tradizionale e sound anni 90: su un ritmo hip-hop programmato personalmente, Sinéad intona un poema gaelico seguendo una scala araba. Nel finale, una sorpresa: entra un violino, e suona ostinatamente il motivo di una ballata irlandese. Un colpo di genio. Segue un altro brano per voce e archi, "Three Babies", che investe l'ascoltatore con la prima vagonata di dolore e romanticismo: difficile non arrendersi ai brividi che strappa la voce, urlando la storia dell'aborto, fino a spezzarsi nel punto giusto del ritornello.
A riannodare il filo col sound degli esordi ci pensa "The Emperor's New Clothes", un rock filante in 4/4 con set di chitarre, batteria e tutto il dovuto, in cui Sinéad lancia un'accusa all'ingerenza dei discografici e dei tabloid nella sua vita privata. Originale, e decisamente coraggiosa per un disco pop, la lunga coda strumentale, fatta di due soli accordi senza variazioni. Altra accusa, ma stavolta rivolta alla politica della Thatcher e all'odio razziale, è "Black Boys On Mopeds", una delicatissima ballata folk per chitarra e voce, che tradisce molti ascolti di Bob Dylan.
Il secondo lato è più debole del precedente: "You Cause As Much Sorrow", l'unico pezzo veramente mediocre del disco, si ostina a rimanere soft senza alcuna ragione. "Jump In The River" è più interessante: aperto da un colpo di pistola, sembra un punk-rock rallentato, con le chitarre elettriche e la batteria che risuonano in un ambiente ostile, disgregato, e la voce cupa, a rievocare fatti così personali da suonare imbarazzanti: "Ci sono stati giorni difficili/ Ma a me è sempre piaciuto tutto/ Come quando lo facevamo così forte/ che c'era sangue sul muro". Basterebbe "The Last Day Of Our Acquaintance" a rendere il disco meritevole d'acquisto: lasciata per quattro strofe alla purezza della voce-e-chitarra, due accordi e la storia del divorzio, esplode inaspettatamente nel finale più epico della carriera di Sinéad, con la voce che ha insieme l'energia scapestrata dell'esordio e la fermezza della maturità.
A chiudere il percorso ideale, dopo l'orgasmo, non può che esserci un brano senza strumenti, la title track: più che una bella canzone, una dichiarazione di fede, in cui la Cabala, lo yoga e le esperienze trascorse diventano materia di elaborazione di un paesaggio interiore in cui trovare la pace e la forza necessarie ad andare avanti.
Un discorso a parte merita "Nothing Compares 2 U". Il fatto che la più celebre canzone di Sinéad O'Connor, e, secondo i maliziosi, la sola per cui sarà ricordata, non sia stata scritta da lei, la rende la croce e la delizia del suo repertorio. L'obiezione è semplice: cosa rende una canzone tale? A volte la composizione. A volte l'esecuzione. In questo caso, la composizione, come tutti sanno, è un semplice prodotto di scarto dell'iperproduttività di Prince: appena quattro accordi. Ciò che ha fatto Sinéad, elaborando un arrangiamento di ammirevole semplicità, e soprattutto interpretando il testo e la melodia, è stato trasformare quel giro di accordi in un inno al romanticismo più disperato, alla forza del dolore, toccando vette di pathos che non hanno eguali nel pop. Se "Nothing Compares 2 U" è stata votata "migliore canzone d'amore degli anni 90", il merito non è certo del suo autore.
Esiste un bel dibattito su quale sia il capolavoro di Sinéad. Molti fan preferiscono "The Lion And The Cobra". Altri, come il sottoscritto, ritengono che Sinéad abbia toccato il suo vertice di ispirazione col fragile e violento "Universal Mother". I dischi più recenti lasciano perplessi. Ma "I Do Not Want What I Haven't got", oltre a essere il suo maggior successo e la miglior collezione di singoli da lei realizzata, ha certamente una qualità ammirevole, che spesso nella discografia e nella vita privata di Sinéad, e nei vari scontri fra l'una e l'altra, è venuta a mancare: l'equilibrio.
03/11/2006