Enya

Enya

Un incantesimo celtico

Le sue composizioni sono sospese tra i miti dei Celti e la musica sacra, tra Medioevo e new age. Il suo sound, etereo e visionario, trasporta dritto nell'Eden del pop, in un sogno senza fine. Un lungo viaggio iniziato quasi per caso, con una colonna sonora per la Bbc. Storia di una piccola fata d'Irlanda e del suo incantesimo

di Claudio Fabretti

Enya non è solo il diminutivo di Eithne Patricia Ní Bhraonáin (in gaelico, "figlia di Brennan"), cantante-prodigio cresciuta insieme ai tre fratelli in una "band di famiglia" leggendaria di nome Clannad. Enya è un approccio alla musica, alla vocalità, alle tecniche di registrazione. Un'esperienza sensoriale e al contempo “astratta”, che pare scaturire da una dimensione insondabile, fuori dal tempo, dove il fascino ancestrale del folk celtico e la solennità della musica sacra si sposano a un sound elettronico moderno. In poche parole “Enya” è un genere musicale a sé, una di quelle geniali invenzioni destinate a rimanere un unicum. Non solo nessuno riuscirà mai a riprodurla, ma perfino lei stessa si esimerà dall’offrirne una ricostruzione, inevitabilmente approssimativa, in sede live.
Enya è dunque l’arcana incantatrice che strega l’ultimo scorcio degli 80’s. L’estetica edonista e neoromantica del decennio, la sua patina plasticata e sintetica, stanno ormai sbiadendosi, in prossimità di una nuova decade che le rinnegherà del tutto, in nome di un ritrovato culto dell’autenticità che troverà nelle chitarre grunge i suoi nuovi feticci. Enya è così l’ultimo paradiso artificiale prima del risveglio. Un trip onirico e celestiale, eppure sensuale come un rito primitivo, racchiuso in una scintillante scorza hi-tech.
Le sue partiture oniriche e rarefatte combinano l'austerità della Classica con il melodismo immediato del pop, le suggestioni della musica sacra e medievale con stratificazioni sonore degne dei grandi pionieri dell'elettronica. Ma a infondere un'anima a questi bozzetti astratti è soprattutto il suo contralto angelico, sapientemente corroborato in studio dal produttore Nick Ryan attraverso un ampio ricorso alla tecnica di "multivocals" (per una sola canzone, infatti, Enya registra e sovrappone fino a cento voci, e il risultato è un coro polifonico degno dei più solenni canti gregoriani). I testi, invece, sono quasi sempre affidati alla moglie di Nick, la poetessa Roma Ryan.

Il gaelico è la prima lingua di questa formidabile compositrice, nata a Gweedore, Donegal, nel cuore d'Irlanda, in una famiglia di musicisti. La sua era una missione difficile: esportare la cultura della sua isola, il mistero dei celti, la magia di una cultura popolare fatta di miti arcaici e sacralità. Enya ci è riuscita, a partire da quando, ancora diciottenne, ha iniziato a cantare insieme ai tre fratelli nella "band di famiglia", i Clannad, una delle istituzioni del folk irlandese con Chieftains e Pogues. Alla metà degli anni Ottanta, quando la Bbc le chiede di scrivere un brano per un documentario a puntate sui Celti, lei ha già lasciato il gruppo. Alla tv inglese manda una breve composizione. La chiamano e le affidano tutti i 70 minuti della serie. "The Celts era in realtà la mia seconda esperienza con una colonna sonora - racconta - Avevo già scritto le musiche per 'The frog prince', un film prodotto da David Putnam. Ma quella fu la conferma di quanto la mia immaginazione visiva andasse di pari passo con la composizione musicale".

Dei 70 minuti di musica della colonna sonora per la Bbc, 41 (opportunamente rielaborati e riarrangiati) vengono ripresi su Enya, il disco d'esordio (poi ristampato come The Celts), che scala subito le classifiche irlandesi arrivando anche al numero 1. L'artista irlandese rivela tutto il suo talento poliedrico, suonando tutti gli strumenti e mettendo in mostra la purezza cristallina del suo canto. La title track, epica e immediata al contempo con i suoi tamburi marziali e il suo delicato refrain, è il singolo trainante di un disco composto prevalentemente di brevi piece, incentrate quasi interamente sulle storie e sulle leggende celtiche. Uno dei capisaldi dell'album è il ricorso a fiabe infantili, seppur stravolte e trasfigurate in una serie di pannelli astratti: "Boadicea", ad esempio, si snoda su un incedere lento, quasi liturgico, con il sussurro di Enya avvolto in cupi strati di synth; "Fairytale", sublimazione del mito di Midir, re delle Fate, e della sua passione per la principessa Etain, è uno strumentale di grande impatto melodico, in cui i gorgheggi della cantante sono immersi in un magma di tastiere, sibili e bisbigli lontani.
E' invece dedicata al regista Ridley Scott, "Aldebaran" (dall'arabo Al-dabaran: colui che segue) prende il nome della stella alfa della costellazione Taurus: è un viaggio mistico, costruito attorno agli arpeggi fatati delle chitarre e alla sovrapposizione delle voci (in gaelico), che creano un senso di siderea quiete. Altre volte è il ritmo a prendere il sopravvento, come nella "March of the Celts", dove l'enfasi sulle percussioni si sposa a un ricco arrangiamento per pianoforte, campane, archi e sintetizzatori. Quando però Enya rallenta ulteriormente il suo carillon, si approda su lande magiche e misteriose, come quelle di "The Sun In The Stream" (con pianoforte e flauti in evidenza), "Deireadh an Tuath" (breve interludio, con un canto dal sapore arcaico, in gaelico puro) e "Portrait" (malinconica aria per pianoforte, archi e synth). A elevare il clima di austera solennità del disco provvedono "I Want Tomorrow", con un canto (stavolta in inglese) assecondato dagli archi e da un assolo straniante di chitarra, e il madrigale rinascimentale di "To Go Beyond" (ripreso anche nell'ultima traccia), con tenui melodie di piano e, in seguito, di sintetizzatori e cori/echi a far da contrappunto al canto.

La mia base è sempre la musica celtica nella quale ogni tanto si insinuano la classica e il pop. Parto sempre dalla melodia e mi lascio trasportare alla ricerca del modo migliore per esprimerla. Ma in studio ho solo una tela bianca sulla quale dipingere. Può venire fuori di tutto.
(Enya)

L'importante collaborazione con la connazionale Sinead O'Connor, nell'album "The Lion and the Cobra" (in cui legge in irlandese un passo della Bibbia nella canzone "Never Get Old"), è il preludio alla definitiva consacrazione di Enya, che arriva nel 1988 con il suo grande capolavoro, Watermark.
A trainarlo, lo strepitoso singolo "Orinoco Flow": quell’inaudita miscela di melodie celtiche e tastiere usate a mo’ di percussioni africane, lanciate al galoppo al grido di “sail away”, fa collassare le chart britanniche, issandosi per tre settimane consecutive al n.1. E non finisce qui, perché “Orinoco Flow” dilaga, proprio come l’omonimo fiume venezuelano, contagiando mezzo mondo, anche grazie al bucolico videoclip a tinte pastello.
Ma la filastrocca di “Orinoco Flow” è solo la punta di diamante commerciale di uno scrigno di tesori, che si schiude traccia dopo traccia, svelando tutto il suo incanto. A cominciare dall’incipit della title track: un breve strumentale pianistico d’ascendenza classica e d'infinita tenerezza. Sempre preziosi, seppur meno emozionanti, anche gli altri due interludi strumentali per piano e tastiere: l’austera “Miss Clare Remembers” e la più incalzante “River”.
L’afflato spirituale del disco traspare in quella sorta di salmo religioso che è "On Your Shore", con un organo minimale ad assecondare il canto, ma si sublima anche nella cantilena al ralenti di "Longships", dove l'intreccio tra i gorgheggi paradisiaci di Enya, i cori e il pad strumentale rasenta gli onirismi più esaltanti dei Cocteau Twins, e nella marcia trionfale di "Storms in Africa", con i tamburi africani di Chris Hughes a evocare tribalismi à-la Peter Gabriel, punteggiando un’altra sublime progressione melodica.
Domina un'atmosfera di quiete estatica, che si insinua tra i refoli di flauto (magico) di “Exile” e si fa più ombrosa nell’adagio di "Evening Falls", grazie a una singolare commistione di sintetizzatori "ambient" e frasi di organo da chiesa. Ancor più oscura, la stupenda litania medievale di "Cursum Perficio" si snoda via via più fremente in un crescendo sinistro di cori catacombali e maestosi synth, mentre la conclusiva "Na Laetha Geal M'Oige" - con l'intervento del folksinger irlandese Davy Spillane alle uillean pipes su un canovaccio sintetico - sintetizza alla perfezione quel connubio tra antico e moderno che fa di Watermark un classico senza tempo. Venderà più di 11 milioni di copie nel mondo, regalando alla cantante irlandese la più inattesa stardom del decennio.

Nel 1991 esce Shepherd Moons, altra opera elegante e suggestiva, che conferma Enya nei panni della regina del filone celtico-new age. A introdurlo, ancora una volta un breve tema strumentale, la dolce title track. I pezzi forti del disco, però, sono soprattutto il valzer trasognato del singolo "Caribbean Blue" (che aggiorna gli esperimenti sul ritmo di "Orinoco Flow"), l'austera elegia di "Marble Halls" (rivisitazione di un traditional irlandese), l'epica marcia di "Ebudae" e la commovente aria per pianoforte di "Lothlorien". Ma a brillare sono anche episodi "minori", come la piece medievaleggiante di "After Ventus", un altro forbito saggio del suo peculiarissimo canto, e la limpida melodia di "Book Of Days", che si dipana su un tessuto elettronico d'alta classe. La strumentazione è sempre molto ricca e alterna sapientemente la freddezza del synth alla magia di strumenti tipicamente folk, come arpa e violoncello.
L'album conferma tutta la classe di Enya, anche se rispetto a Watermark, appare forse meno dirompente sul piano melodico.

Il successivo Memory of Trees, lanciato dal singolo "Anywhere is", viene persino premiato con un Grammy Award nel 1996. Complessivamente, però, si rivela un disco minore nella produzione di Enya, fatte salve alcune rimarchevoli eccezioni (il requiem scandito da tamburi ossessivi di "Pax Deorum", l'eterea "China Roses", impreziosita da un arrangiamento neoclassico per clavicembalo e violini).
Cullandosi in qualche barocchismo di troppo e abusando un po' delle tecniche di produzione, Enya compie qualche passo indietro rispetto al fulminante avvio di carriera.

"La mia base è sempre la musica celtica - spiega Enya - nella quale ogni tanto si insinuano la classica e il pop. Parto sempre dalla melodia e mi lascio trasportare alla ricerca del modo migliore per esprimerla. Questo ha portato allo sviluppo delle mie sonorità, anche se in realtà non ho delle idee preconfezionate quando sono in studio. Ho solo una tela bianca sulla quale dipingere. Può venire fuori di tutto". Molte delle canzoni di Enya sono in gaelico, la lingua di famiglia. "Oggi in Irlanda, a scuola si impara solo l'inglese - racconta -. Vent'anni fa ci fu un abbandono di massa del gaelico, che veniva visto come qualcosa che ci separava dal mondo. Così sono rimaste poche comunità a parlarlo ancora. Ma quando torno a casa mia lo parlo abitualmente. E oggi c'è una ritrovata fierezza di essere irlandesi. Il mondo parla della nostra musica, dell'arte, della letteratura. E gli irlandesi si sentono considerati. Sono molto felice di questa attenzione, anche se credo che sia in parte frutto di una moda".

A Day Without Rain (2000) esce a distanza di cinque anni dal suo precedente lavoro in studio, The Memory Of Trees, cui ha fatto seguito anche la sua prima antologia Paint The Sky With Stars. Ed è un ritorno alle sue melodie trasognate, costruite su atmosfere mistiche e pulsazioni elettroniche con l'escamotage del coro costruito con la sovrapposizione multipla della sua voce. "Curare tutte le voci e le armonie richiede un considerevole periodo di tempo - racconta Enya -. Tutto quello che si ascolta nell'album è suonato da me, per questo il processo di produzione si allunga. Abbiamo uno studio a Killiney, a due passi da casa mia a Dublino, dove facciamo ricerca e sviluppo. Rispetto ad altri artisti, spendiamo molto più tempo in studio". Ed è anche questa la ragione per cui Enya non ha mai cantato dal vivo, salvo una fugace apparizione in Vaticano nel '95 durante il Concerto di Natale: "Dovrei portarmi sul palco una schiera troppo numerosa di musicisti. Costruire uno spettacolo richiederebbe moltissimo impegno e non ho voglia di sacrificare la mia vita privata. Potrebbe essere più facile montare uno show per una pay-tv americana, tipo Hbo, in cui potrei avere il controllo su tutto e potrebbe essere una sorta di prova per un eventuale tour".

Il "giorno senza pioggia" di Enya è "un diario emotivo e sentimentale". Il titolo - spiega - fa riferimento all'umore che aleggia in un giorno sereno senza pioggia. In Irlanda piove molto in tutte le stagioni. Abbiamo avuto tanti giorni in cui non ha fatto altro che piovere. Ma un giorno finalmente il sole è uscito fuori. Ed è stato allora che ho scritto la canzone che dà il titolo all'album; come altro avrei potuto chiamarlo?". Una musica visionaria, che fa di una ripetitività al limite del minimalismo il suo fascino, ma, a volte, anche il suo limite. Le dodici tracce sono frutto di due anni di lavoro e vedono Enya cimentarsi con tutti gli strumenti. Si parte dall'ouvertrure strumentale della title-track per avventurarsi su impennate ritmiche ("Wild Child"), eteree ninnananne (il singolo "Only Time), melodie tristemente gotiche ("Tempus Vernum"), fino all'invocazione accorata di "Fallen Embers", in cui il disco tocca il suo vertice mistico. Il contralto di Enya spicca, tra pulsazioni elettroniche e romanze pianistiche, con la sua solita classe. Eppure la formula magica di questa piccola fata d'Irlanda comincia a denotare qua e là qualche segno di stanchezza.

Polistrumentista e ormai abile esperta in tecniche di produzione, Enya ha però ancora un debole per il suo strumento prediletto, il pianoforte: "Lo studiavo fin da bambina - racconta - per anni ho avuto come insegnante un vecchio sacerdote del Donegal. E la chiesa è stata la mia prima scuola. Per molto tempo ho cantato nel coro, assorbendo la musica sacra. E oggi mi piace tornare in quella chiesa, specie quando non c'è nessuno. E' tutto così sereno e tranquillo… è molto 'terapeutico'". La tranquillità, per Enya, è un vero stile di vita: niente mondanità, nessun flirt da tabloid, pochissime le interviste e le apparizioni in tv. Curiosamente, dice di non ascoltare molta musica ("mi spaventa scoprire che forse ho sbagliato tutto se è quello il genere di musica che il pubblico vuole") e di preferire la compagnia maschile a quella femminile, perché "i discorsi tra donne finiscono quasi sempre con pettegolezzi e diventano incredibilmente noiosi". Ama i gatti, i film in bianco e nero e i viaggi, anche quelli con la fantasia, come dimostrano i titoli esotici di alcune sue canzoni ("Orinoco Flow", "Storms in Africa", "Caribbean Blue", "China Roses"). E confessa di preferire un bicchiere di champagne a un boccale di irlandesissima Guinness. C'è da scommettere che questa piccola fata d'Irlanda avrà ancora da brindare: una media di dieci milioni di copie vendute ad album è un lusso da far impallidire rockstar ben più chiacchierate, come Madonna e Michael Jackson.

Gli ultimi capitoli della sua avventura sono stati però deludenti. Una parabola discendente culminata in Amarantine (Reprise, 2005), disco del tutto insulso e scipito, che ripropone in modo stucchevole suoni e atmosfere sfruttate con ben altra intensità nei dischi precedenti. Le sonorità ovattate di "Drifting" e i colori intensi della title track offrono forse gli unici motivi di interesse musicale.
La curiosità, semmai, viene dalla presenza di una lingua completamente inventata, il "loxian", frutto della fantasia di Roma Ryan, l'autrice dei suoi testi. Un'idea nata dopo che la stessa Enya aveva cantato in elfico per la colonna sonora de "Il signore degli anelli".

Enya non è certo nuova a rievocazioni più o meno fatate di stagioni, ricorrenze, ritualità annuali e festività assortite. La sua, più che la discografia di un’artista pop, sembra in prospettiva un atto confessionale sui metodi più aggraziati per rendere sovrumane emozioni altrimenti private, se non spicciole. E dunque anche And Winter Came… (2008) acquista una parte di logica. Di certo Eithne Ni Bhraonain non era mai stata tanto scontata, nemmeno nel mediocre predecessore. Rispetto a quell’album, qui l’artista abbandona anche il suo ultimo brevetto, il “loxian”, per darsi alle consuete sensazioni che precedono l’arrivo d’inverno e Natale.
Ecco dunque “Journey Of The Angels” (una scipita caricatura della Madonna di "Ray Of Light"), “Last Time By Moonlight” (l’ennesima autoimitazione di “Caribbean Blue”), “One Toy Soldier” (con cui cerca di rivestire il ruolo della cantante pop spogliata dei sovratoni folk) e le salmodie di “Stars And Midnight Blue”, “O Come, O Come, Emmanuel” (uno degli ovvi traditional natalizi), fino ad arrivare alla parodia della Celine Dion di “My Heart Will Go On” di “Dreams Are More Precious”. Indistinte nel mucchio, ma pur sempre vaghe reminiscenze della purezza artistica che ebbe a dimostrare in passato, ci sono l’introduzione strumentale elegiaca della title track e il sing-along di “White Is In The Winter Night” (secondo singolo estratto).
Inesistente sul piano della poesia tradizionalista, la collezione vale poco anche sul piano del sottofondo puro. Le pose liriche della cantante cadono a pezzi. “Oíche Chiúin” è la versione gaelica del corale principe del Santo Natale, “Silent Night”, per mano dell’austriaco Franz Gruber (1787-1863), già comparso in svariate pubblicazioni del suo passato.

Lungamente atteso da fan vecchi e nuovi, l'ottavo Dark Sky Island (2015) resetta ai livelli più elementari le prodigiose tecniche della fata celtica. Ne esce qua e là il meglio in più di quindici anni d'attività, quantomeno nell'autocitazione: su tutti l'armonia dello strumentale "Forge Of The Angels", la marcetta sostenuta di "Even In The Shadows" e classici motivetti di marzapane come "Echoes In Rain". In ogni caso, tra ballad antiquate ("I Could Never Say Goodbye") e un nuovo fatuo recupero dell'idioma fantastico coniato con Ryan Roma ("The Loxian Gate"), ciò che davvero grava sull'album è proprio la sua personalità artistica, roboticamente riciclata a mo' di immagine irreale, o estinta creatura sotto formalina.

Enya ha coniato una formula musicale di grande intensità visionaria. Una formula che tuttavia ha subito un progressivo inaridimento e appare ormai in pieno stallo. Per il momento, però, ci possono bastare i grandi dischi che hanno segnato l'avvio della sua carriera solista, Watermark e Shepherd Moons su tutti.

Contributi di Michele Saran ("And Winter Came...", "Dark Sky Island")

Enya

Discografia

The Celts (Reprise, 1987)

7

Watermark (Wea/Warner, 1988)

9

Shepherd Moons (Wea/Warner, 1991)

8

The Memory Of Trees (Reprise, 1995)

6

Paint The Sky With Stars (antologia, 1996)

A Day Without Rain (Reprise, 2000)

5

Amarantine (Reprise, 2005)

4

And Winter Came… (Warner, 2008)

4

Dark Sky Island(Warner, 2015)

5,5

Pietra miliare
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