Enya non è solo il diminutivo di Eithne Patricia Ní Bhraonáin (in gaelico, "figlia di Brennan"), cantante-prodigio cresciuta insieme ai tre fratelli in una "band di famiglia" leggendaria di nome Clannad. Enya è un approccio alla musica, alla vocalità, alle tecniche di registrazione. Un'esperienza sensoriale e al contempo “astratta”, che pare scaturire da una dimensione insondabile, fuori dal tempo, dove il fascino ancestrale del folk celtico e la solennità della musica sacra si sposano a un sound elettronico moderno. In poche parole “Enya” è un genere musicale a sé, una di quelle geniali invenzioni destinate a rimanere un unicum. Non solo nessuno riuscirà mai a riprodurla, ma perfino lei stessa si esimerà dall’offrirne una ricostruzione, inevitabilmente approssimativa, in sede live.
Enya è dunque l’arcana incantatrice che strega l’ultimo scorcio degli 80’s. L’estetica edonista e neoromantica del decennio, la sua patina plasticata e sintetica, stanno ormai sbiadendosi, in prossimità di una nuova decade che le rinnegherà del tutto, in nome di un ritrovato culto dell’autenticità che troverà nelle chitarre grunge i suoi nuovi feticci. Enya è così l’ultimo paradiso artificiale prima del risveglio. Un trip onirico e celestiale, eppure sensuale come un rito primitivo, racchiuso in una scintillante scorza hi-tech.
Quando nel 1988 esce “Watermark”, Enya non è una pivellina. Ha già 27 anni, e oltre all’onorata militanza nei Clannad, ha al suo attivo un’importante colonna sonora commissionatale dalla Bbc per un documentario a puntate sui Celti e tradotta poi nel suo disco d’esordio (“The Celts”, un bestseller in patria). Il progetto ha già messo in mostra il suo talento eclettico di polistrumentista e la purezza cristallina del suo canto. Ma nessuno sospetta che possa diventare una star mondiale. Nemmeno Rob Dickins della Warner che racconterà: “A volte la casa discografica è lì per fare soldi, a volte è lì per fare musica. Per Enya si è trattato del secondo caso. Sarei stato un genio se avessi saputo che avrebbe venduto milioni di dischi. Volevo solo essere coinvolto in quella musica”. Fatto sta che quando il singolo di lancio, “Orinoco Flow” viene immesso sul mercato, accade l’imponderabile. Quell’inaudita miscela di melodie celtiche e tastiere usate a mo’ di percussioni africane, lanciate al galoppo al grido di “sail away”, fa collassare le chart britanniche, issandosi per tre settimane consecutive al n.1. E non finisce qui, perché “Orinoco Flow” dilaga, proprio come l’omonimo fiume venezuelano, contagiando mezzo mondo, anche grazie al bucolico videoclip a tinte pastello.
Ma la filastrocca di “Orinoco Flow” è solo la punta di diamante commerciale di uno scrigno di tesori, che si schiude traccia dopo traccia, svelando tutto il suo incanto. A cominciare dall’incipit della title track: un breve strumentale pianistico d’ascendenza classica e d'infinita tenerezza che Enya bisserà nel successivo album “Shepherd Moons” con quell’altro carillon spezzacuore di nome “Lothlorien”. Sempre preziosi, seppur meno emozionanti, anche gli altri due interludi strumentali per piano e tastiere: l’austera “Miss Clare Remembers” e la più incalzante “River”.
L’afflato spirituale del disco traspare in quella sorta di salmo religioso che è "On Your Shore", con un organo minimale ad assecondare il canto, ma si sublima anche nella cantilena al ralenti di "Longships", dove l'intreccio tra i gorgheggi paradisiaci di Enya, i cori e il pad strumentale rasenta gli onirismi più esaltanti dei Cocteau Twins, e nella marcia trionfale di "Storms in Africa", con i tamburi africani di Chris Hughes a evocare tribalismi à-la Peter Gabriel, punteggiando un’altra sublime progressione melodica.
Domina un'atmosfera di quiete estatica, che si insinua tra i refoli di flauto (magico) di “Exile” e si fa più ombrosa nell’adagio di "Evening Falls", grazie a una singolare commistione di sintetizzatori "ambient" e frasi di organo da chiesa. Ancor più oscura, la stupenda litania medievale di "Cursum Perficio" si snoda via via più fremente in un crescendo sinistro di cori catacombali e maestosi synth, mentre la conclusiva "Na Laetha Geal M'Oige" - con l'intervento del folksinger irlandese Davy Spillane alle uillean pipes su un canovaccio sintetico - sintetizza alla perfezione quel connubio tra antico e moderno che fa di “Watermark” un classico senza tempo.
Il talento visionario di Enya sublima secoli di folk celtico, ballate medievali e madrigali rinascimentali, con una sensibilità dreamy e un’attitudine world music. Il risultato, però, non è mai pretenzioso, al contrario: le melodie sono tanto magiche quanto umili e semplici, come si confà alla miglior tradizione della musica pop.
Ma a infondere un'anima a questi bozzetti astratti è soprattutto il contralto angelico della fata irlandese, genialmente corroborato in studio dal produttore Nick Ryan attraverso un ampio ricorso alla tecnica di "multivocals": per un solo brano, infatti, Enya registra e sovrappone fino a cento voci, e il risultato è un coro polifonico degno dei più imponenti canti gregoriani, che funge alternativamente da soffice background o da tappeto armonico centrale dei brani.
La stessa Enya si occupa anche di tutti gli strumenti, in particolar modo piano, tastiere e sintetizzatori. I testi invece – in gaelico, latino o inglese – sono a cura della moglie di Nick, la poetessa Roma Ryan: una raccolta suggestiva di fiabe incantate, ma anche odi sentimentali e visioni da mondi leggendari e spaventosi.
“Watermark” venderà più di 11 milioni di copie nel mondo, regalando a Enya la più inattesa stardom del decennio. Dopo il magnifico bis di “Shepherd Moons” del 1991, però, il suo suono resterà come imprigionato in una sfera di cristallo, facendosi sempre più ripetitivo e manierista e smarrendo gran parte del suo fascino. Resta però il merito di aver coniato un genere inimitabile, rivitalizzando suoni persi nelle nebbie del tempo e suggellando un traguardo tra i più ammalianti della popular music.
04/08/2013