Peter Gabriel

Peter Gabriel

Tra fiabe e Real World

Ha abbandonato i Genesis al culmine del successo, per intraprendere un'ambiziosa carriera solista, che lo ha visto promotore di un sofisticato rock elettronico e pioniere di una nuova integrazione tra tradizioni musicali del mondo e tecnologia occidentale. Storia, dischi e segreti dell'arcangelo Gabriel

di Claudio Fabretti

Se da leader dei Genesis aveva saputo creare una peculiare forma di art-rock progressivo dalle forti tinte teatrali, da solista Peter Gabriel non è stato da meno, sviluppando un'ambiziosa ricerca sull'integrazione tra rock, elettronica e world music, che lo ha portato a realizzare dischi innovativi e sperimentali, destinati a lasciare un solco profondo sulle generazioni successive. Artista impegnato in ambito sociale e politico oltre che musicale, autore di opere e spettacoli teatrali, Gabriel ha inoltre contribuito, attraverso la sua etichetta Real World, a far conoscere al pubblico le opere di musicisti "etnici" provenienti da ogni angolo del globo con una particolare attenzione al Terzo Mondo.

Abbandonati i Genesis proprio al culmine della loro fama, con Phil Collins pronto a subentragli alla voce e al timone, Gabriel intraprende la sua avventura solista a partire dall'omonimo album del 1977. Intitolato semplicemente Gabriel I ma anche "Car" – secondo una denominazione non ufficiale poi avallata dallo stesso Gabriel - il disco è prodotto da Bob Ezrin e impreziosito da musicisti stellari come sua maestà cremisi Robert Fripp e Tony Levin, importante collaboratore degli Yes e dei suddetti King Crimson. Nella splendida copertina (a cura dello Studio Hipgnosis) Gabriel è ritratto in macchina sotto la pioggia, immagine elegante e malinconica in linea con lo spirito del disco.
Musicalmente, restano alcune tracce dei Genesis, con passaggi sonori solenni e impetuosi, ma in generale il sound cambia, virando verso nuovi orizzonti elettronici e meno barocchi, con la bellissima voce tetra di Gabriel sempre in primo piano.
Alla vicenda dell'addio ai compagni di viaggio allude, indirettamente, la ballata folk di "Solsbury Hill", che racconta un'esperienza di meditazione spirituale vissuta da Gabriel sull'omonima collina del Somerset, dove Re Artù sconfisse i Sassoni. Un brano che, secondo le parole dello stesso musicista, riguarda il tema della perdita, della rinuncia a qualcosa. Più propriamente rock sono l'epica "Slowburn", con chitarre arroventate e cambi di tono ancora reminiscenti del prog, e l'aggressiva "Modern Love", con il canto di Gabriel che si fa più sporco e vibrante, nel raccontare di ombrelli telescopici, Lady Godiva e romanticismo. Vira invece verso il vero e proprio divertissement, "Excuse me", con echi dalla "Join The Gang" di David Bowie. E se "Waiting For The Big One" è un blues da bettola trasfigurato dalla sensibilità sofisticata di Gabriel, "Down The Dolce Vita" riassapora atmosfere prog, tra fanfare, rintocchi d'organo e un intermezzo scandito dagli orologi a cucù.
Ma la vera prodezza è in coda: "Here Comes The Flood", griffata dalla chitarra immortale di Fripp, è una ballata commovente, con una flebile base di organo a supportare la voce morbida di Gabriel, fino all'esplosione nel ritornello: “Lord, here comes the flood/ We'll say goodbye to flesh and blood". L'arrivo dell'alluvione e della morte si trasmuta così in un'ascensione, una liberazione dai corpi terreni, e il canto si fa contrito e struggente, ma anche gioioso al tempo stesso.

Il leader dei King Crimson è anche l'ispiratore del secondo disco, Gabriel II, detto anche "Scratch" (dalla copertina che raffigura Gabriel intento a graffiare con le unghie una sua immagine). Un lavoro più oscuro e sperimentale del precedente, che segna l'abbandono delle sonorità progressive a favore di un sound più scarno e urbano, con voci distorte e riff abrasivi. Nessuna traccia diventerà una hit, ma non mancano gli episodi interessanti, grazie anche all'uso del Fairlight, il synth-computer che caratterizza gran parte degli arrangiamenti. Domina una sensazione di desolazione e impotenza, che si sposa a una tensione interna ben esemplificata da "Exposure", con il corrosivo riff di chitarra di Fripp (arricchito dalle celebri Frippertronics) a farsi sempre più ossessivo e insostenibile.
Il lato più morbido e sentimentale di Gabriel si esalta nella fragile ballata "Mother Of Violence", che nasce come una canzone natalizia scritta assieme alla compagna Jill per le loro bambine e per la chiesa locale, e che si trasforma in un inno struggente contro ogni forma di violenza. Commovente anche la malinconia di "Indigo", dove Gabriel, accompagnandosi solo al piano, riflette sulle tentazioni di mollare, di abbandonare la vita, sopraffatti dalle delusioni e dalle frustrazioni ("Alright, I'm giving up the fight"). Un tema sul quale tornerà qualche anno dopo, nell'epico duetto di "Dont' Give Up" con Kate Bush.
Ma non mancano anche altre progressioni ritmiche, come "On The Air", "D.I.Y." (quasi ai limiti dell'hardcore) e "Animal Magic", mentre "A Wonderful Day In A One-Way World" ironizza sulla società dei consumi mescolando reggae e funk con bizzarri suoni di tastiera.
Il vertice del disco è però la complessa "White Shadow", che parte con un lungo preludio strumentale, sostenuta dal basso pulsante di Levin, tra tamburi e tastiere sommesse, culminando in un assolo di chitarra fulminante di Fripp. Curiosamente, nell'edizione in vinile, la canzone, posta alla fine del primo lato, proseguiva anche sui solchi a spirale che chiudevano il disco e sul cerchio terminale, costringendo l'ascoltatore ad alzare il braccio del giradischi dal solco.
A chiudere uno dei dischi più cupi di Gabriel è l'apologo orrorifico, per sax e piano, di "Home Sweet Home": è la storia di una coppia che spende tutti i soldi per un appartamento in un grattacielo, che si rivela però ben presto una triste prigione familiare, finché un giorno il protagonista torna dal lavoro per scoprire che sua moglie si è suicidata portando con sé il figlio; decide allora di sperperare i soldi dell'assicurazione al casinò, ma vince e può così permettersi una "casa dolce casa" nel paese.
Il secondo capitolo della saga solista dell'Arcangelo divide i fan. E' un "graffio" coraggioso a tutte le leggi non scritte del music business. C'è chi resta spiazzato, ma anche chi, per la vena sperimentale che lo pervade, arriva a considerarlo il lavoro più vicino ai lambiccati esperimenti sonori dei Genesis, in particolare quelli di "The Lamb Lies Down On Broadway".

Installato il suo quartier generale in una vecchia villa vicino a Bath, Gabriel avvia una nuova stagione di formidabile libertà creativa, sperimentando nuovi modi di produrre musica. Il primo frutto è uno dei suoi capolavori assoluti, Gabriel III (1980), noto anche come "Melt", per via della copertina, con il viso del musicista in dissoluzione. Per l'occasione, l'ex-leader dei Genesis ingaggia il chitarrista David Rhodes, destinato ad accompagnarlo a lungo, e chiama alla console il produttore Steve Lillywhite, nuovo astro nascente del Regno Unito, già al fianco di Ultravox e Xtc e prossimo alla collaborazione con gli U2. Ci sarà chi leggerà nella scelta anche un senso di continuità, visto che trattasi di un seguace di Brian Eno, il quale a sua volta aveva contribuito con alcuni effetti a "The Lamb Lies Down On Broadway".
Le melodie non mancano e le canzoni, stavolta, sono tutte a fuoco, ma l'accento è posto soprattutto sul ritmo. Oltre a una drum machine Paia, brillano due batteristi d'eccezione, come Jerry Marotta e l'ex-compare Phil Collins. Quest'ultimo utilizza un set di batteria e percussioni totalmente privo di piatti e, assieme al sound engineer Hugh Padgham, sviluppa un nuovo suono, duro, potente e compresso, ricorrendo per la prima volta (su "Intruder") anche al gated reverb, un caratteristico effetto sul riverbero della batteria, che avrebbe poi riproposto nella sua immortale hit "In The Air Tonight". A garantire un pizzico di imprevedibilità in più è anche il campionatore Fairlight, che consente a Gabriel di elaborare i suoi suoni e crearne di nuovi.
Il risultato è una collezione di canzoni elettroniche pervase da una concezione tetra e pessimista sul futuro dell'umanità, con il tema dell'alienazione e della malattia mentale a ricorrere trasversalmente. Apre le danze "Intruder", thriller a tinte fosche sulle emozioni di un ladro di appartamenti, scandito dal drumming ossessivo di Collins. Un'atmosfera tesa che si rinnova sulla successiva "No Self-Control" con il batterista dei Genesis ancora sugli scudi, assecondato da elementi di minimal music come lo xilofono. Sono ancora le percussioni, unite a chitarre distorte, sintetizzatore e Fairlight, a dominare "I Don't Remember", riflessione alienante sull'amnesia e sulla perdita di sé, mentre la splendida ballata "Family Snapshot" - basata sul racconto "An Assassin's Diary" di Arthur Bremmer, l'uomo che tentò di uccidere il politico segregazionista George Wallace - scava maniacalmente nella psiche e nell'infanzia tormentata del protagonista, tra rintocchi di piano elettrico (lo Yahama CP-70) e graffi di sax, confermando le doti magistrali di Gabriel nel saper costruire la tensione e affondare la lama nelle emozioni più intime.
Non meno emozionante è "Games Without Frontiers", filastrocca stralunata che ironizza sui comportamenti infantili dell'umanità e sulla "guerra senza lacrime" del celebre format televisivo "Giochi senza frontiere", tra suoni di synth filtrati e pattern ostinati di drum machine, con la ciliegina sulla torta dei vocalizzi stranianti e acutissimi di Kate Bush, alla sua prima collaborazione con l'amico Peter.
E se "Not One Of Us" e "Lead A Normal Life" sono altre due riflessioni amare sui temi della xenofobia e del disagio mentale, la chiusura non sarebbe potuta essere più epica: Gabriel, infatti, sale in cattedra per intonare la sua struggente ode a "Biko", martire della battaglia contro l'apartheid in Sudafrica, per un requiem da lacrime asciutte e cuore in gola, impreziosito da una strumentazione etnica quantomai variegata (tamburi marziali, coro africano, cornamuse scozzesi etc.). Un coro in lingua xhosa (la lingua dell'etnia di Biko) canta Yihla Moja ("vieni, spirito"), mentre Gabriel narra l'incubo del protagonista (“When I try to sleep at night I can only dream in red”), chiudendo il cerchio con il più semplice e toccante dei lamenti funebri: "The man is dead, the man is dead”. Una versione dal vivo del brano, registrata nel luglio del 1987, sarà impiegata nella colonna sonora del film "Grido di libertà" di Richard Attenborough, sulla vita di Stephen Biko, mentre in Sudafrica il brano sarà censurato fino alla fine del regime.
Il terzo atto di Gabriel è quello decisivo: con "Melt" arriva il grande successo internazionale e l'ex-cantante vestito da fiore si trasforma anche in una delle più potenti e credibili rockstar politiche della scena internazionale.

Il successivo IV - passato alla storia anche come Security - è invece il personale contributo di Gabriel alle lotte per l’identità, la libertà, l’uguaglianza portate avanti in mezzo mondo. E il brano-simbolo è “San Jacinto”, un luogo immaginario, una finzione artistica; proprio come lo è la world music secondo il musicista di Chobham. Un’alchimia di studio, in cui convergono siti e culture distanti, tradizioni secolari e gli ultimi, futuribili ritrovati della tecnologia musicale. Lo scopo non è ritrarre la realtà. Affermò Paul Klee: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Lo svelamento: ecco l’obiettivo di “San Jacinto” e delle altre geografie astratte di “IV”. La spiritualità olistica dei pellerossa, la vuotezza culturale dell’America delle steakhouse, l’angoscia della battaglia tra due eserciti invasori di una terra non loro: tutte queste immagini si fondono nelle ermetiche strofe di “San Jacinto”, e dicono tutto il dramma di una civiltà millenaria cancellata in un attimo, spazzata via come il bisonte dalle sue praterie. Così quell’"I hold the line" del ritornello, voce sofferta dell’Apache che sente i sensi venir meno dopo il morso di un serpente, diventa quella del soldato che si sa condannato ma resiste con ogni forza, e d’un tratto la voce dell’intera nazione indiana che disperatamente cerca di tener sé stessa viva.
“Wallflower”, che affronta il tema dei Desaparecidos sudamericani, si inserisce nel filone di “Biko” dell’album precedente ed è in sintonia con gli analoghi sforzi attivistici del Paul Simon di “Graceland”. Ma la sua coda va ben oltre la generale solidarietà politica; è un manifesto artistico, la commovente dichiarazione d’intenti di un musicista che non vuole arrendersi alla decimazione della ricchezza culturale del mondo per mano della società occidentale: “Though you may disappear, you're not forgotten here/ And I will say to you, I will do what I can do”. Era il 1982: due anni prima, Gabriel aveva dato vita al WOMAD (World of Music, Arts and Dance), festival indipendente per la promozione della diversità culturale tramite la musica. Nel 1989, fonderà la Real World Records, ancor oggi casa di una lunga serie di progetti che vedono artisti di tutto il mondo e di ogni estrazione musicale lavorare fianco a fianco. Salvare una tradizione, per Gabriel, non è chiuderla in una riserva dove possa conservarsi così com’era. Al contrario, è farla vivere nel presente, darle modo di confrontarsi con le altre. E perfino proiettarla nel futuro. Per questo i dischi Real World non saranno ricostruzioni più o meno filologiche di un perduto stile originario, ma coraggiose esplorazioni musicali che muovono da background tradizionali abbracciando i più recenti strumenti espressivi. E per lo stesso motivo proprio “IV” è in primissima linea nella sperimentazione sonora, sia come strumentazione che per le strutture compositive.
Tra i primi acquirenti del costosissimo computer/campionatore Fairlight CMI, Gabriel ne fa in “IV” un utilizzo pionieristico. Essenzialmente il primo sintetizzatore commerciale a sposare sintesi additiva, processori 8-bit e avanzate tecniche di calcolo numerico (trasformata di Fourier veloce), il Fairlight è protagonista assoluto del disco. Anziché impiegarlo come lussuoso “simulatore di orchestra” o come ennesimo tastierone galattico da aggiungere al proprio arsenale post-settantiano, tuttavia, Gabriel spinge lo strumento in territori musicali del tutto inesplorati. Il Fairlight diventa infatti una “macchina dei miracoli” capace di rendere musica ciò che musica non è mai stata: rumori, soffi, schianti, ogni genere di spiffero e tramestio. Un filmato dell’epoca mostra l’artista aggirarsi per una collinetta di rottami industriali armato di microfono ed entusiasmarsi a ricavarne i suoni più bizzarri, poi assemblati a formare il febbrile mantra di “The Rhythm Of The Heat”.
“IV” sviluppa inoltre innovazioni già introdotte nel precedente album. “I Have The Touch”, “The Family And The Fishing Net”, “Lay Your Hands On Me” perfezionano l’uso del gated drum messo a punto per “Intruder” (una combinazione di riverbero, compressione e noise gate che danno alla cassa un effetto particolarmente “scuro” e poderoso), mentre “Kiss Of Life” estende l’espediente ad altri filtri per ottenere suoni di batteria sempre più “su misura”. Il sound del disco è reso ulteriormente dinamico e proteiforme dall’impiego da parte del bassista Tony Levin del Chapman stick, strumento a dieci corde che è suonato in modo percussivo con la tecnica del tapping.
Le atmosfere di “IV” sono dunque lontanissime da quelle scintillante raffinatezza di altre band che all’epoca trafficavano con synth come il Fairlight. Al contrario, sono inquiete, magmatiche, ossessionanti. Accentuano il clima nervoso il ricorso a tempi dispari (“Kiss Of Life”, col ritornello in 10/4), disorientanti scale minori di derivazione mediorientale, incastri strettamente imparentati coi King Crimson di “Discipline” e il David Bowie di “Scary Monsters (and Super Creeps)”. Tutto sembra orientato a evocare tensione, sprigionare brividi lungo la spina dorsale dell’ascoltatore. Ciò che Peter Gabriel porta a galla in "IV" è un'anima profonda, uno spirito atavico che respira nella voce dell'artista, è il verso sintetico e cavernoso di sfondo a "The Family And The Fishing Net", si fa percepire nei controcanti di Peter Hammill in "Shock The Monkey" e "Lay Your Hands on Me". Ecco l'oggetto dello "svelamento": l'inconscio collettivo, l'"ombra" che secondo Carl Jung accomuna e accompagna ogni essere umano. L'iniziale "The Rhythm Of The Heat" prende spunto proprio da un'esperienza dello psicologo svizzero con percussionisti tribali; il suo titolo in fase di lavorazione era "Jung in Africa".
"IV" non è solo la celebrazione della ricchezza culturale dell'uomo, né soltanto lo smascheramento del complesso di superiorità occidentale: è il ritratto della nostra specie tramite le sue usanze e reazioni inconsce: un animale divorato dall'istinto in "Shock The Monkey", che brama la fiducia del branco e il contatto fisico in "I Have The Touch" e "Lay Your Hands On Me", si affida ciecamente a intricati rituali matrimoniali in "The Family And The Fishing Net", è posseduto dalla musica in "The Rhythm Of The Heat", colto dalla trance in "Kiss Of Life", condotto in paradiso dal dolore, le visioni naturali e i synth cristallini di "San Jacinto".

Il quarto album di Gabriel venderà milioni di copie, sfondando nel mercato americano - dove sarà stampato col titolo "Security" - grazie al singolo "Shock The Monkey", aprirà le porte al boom della world music ed eserciterà un'enorme influenza su molti altri territori musicali grazie al suo rivoluzionario uso della strumentazione. Ma la sua unicità sta altrove. Più dei testi, più ancora dei suoni e delle strutture è forse un'immagine a simboleggiarla nel modo più efficace: il volto del cantante dipinto con le fattezze di una scimmia, come in tutto il lungo tour che accompagnò l'uscita del disco. Una maschera bestiale che si contorce, geme, strilla, esulta alla vista dei suoi simili, in un groviglio di emozioni incontrollate che più di ogni altra cosa svela la natura - profonda, comune, immortale - delle nostre radici.

E' in questo periodo che Gabriel inizia anche a comporre colonne sonore per il cinema. Una delle più ambiziose è quella incisa per Birdy di Alan Parker (1985), insieme a Jon Hassell (uno dei padri della world-music), Larry Fast, David Rhodes e Tony Levin.

Nel 1986, invece, il ritorno in studio è un altro colpo spiazzante dell'ex-leader dei Genesis. Accreditato ormai come profeta del rock politico e della world music più incompromissoria, Gabriel si mette a flirtare con il pop mainstream, supportato in cabina di regia da Chris Hugues e Daniel Lanois. Ed è ancora - neanche a dirlo - una prodezza. So dimostra come la profondità e l'originalità di un artista non si misurino solo nel suo campo d'elezione, ma siano una dote preziosamente declinabile anche oltre le più imprevedibili frontiere. Alle prese con canzoni pop orecchiabili, melodiche, accattivanti, l'Arcangelo d'Inghilterra si conferma incapace di partorire prodotti banali e scontati. Ascoltare per credere l'iniziale "Red Rain", cupa profezia avvolta in dense coltri di elettronica, con la batteria tempestosa dell'ex-Police Stewart Copeland e un sound mai così complesso e stratificato, che infatti il suo autore faticherà a tradurre in versione live nei successivi tour (il testo, invece, è una nuova avventura-incubo di Mozo, lo straniero vagabondo, che era apparso nei primi due lavori solisti del cantante).
Facilotta la hit "Sledgehammer"? Forse sì, ma con quell'inflessione rhythm'n'blues che fa la differenza (ispirata dalla musica di Otis Redding, con il suo trombettista Wayne Jackson a suonare i corni), con quel flauto bamboo Shakuhachi a spiazzare e con un ritmo che è esso stesso un martello, per una fin troppo esplicita profferta sessuale (“I wanna be your sledgehammer... come on help me do"). E cosa distingue "Big Time" da una qualsiasi hit da classifica? Forse quella ritmica sincopata, che deraglia impazzita, con Levin a schiacciare le corde del basso fretless, mentre Marotta le colpisce con le bacchette della batteria; oppure quella voce straniante che incalza o ancora quelle soluzioni sonore pronte a spiazzarti dietro il più semplice dei refrain (alternando la tonalità di La minore nel ritornello a quella di La maggiore nelle strofe), quel testo che è un cinico e dissacrante apologo sul successo. Per tacere del comparto video, in cui Gabriel si mantiene saldamente all'avanguardia, partorendo clip bonsai velocizzate e stranianti, che ricorrono a tutti i più avanzati trucchi d'animazione dell'epoca, con le creazioni in plastilina di David Daniels.
Poi c'è sempre il Gabriel più contrito e intimista, quello che si siede al piano per intonare la desolata "Mercy Street" e quello che abbraccia Kate Bush nel duetto memorabile di "Don't Give Up" tra i pattern ritmici dei tamburi; i ruoli sono ben definiti: lui nella parte dell'uomo sconfitto e sfiduciato (“I am a man whose dreams have all deserted… no-one wants you when you lose”), lei a impersonare la donna forte, porto sicuro della consolazione e dell'incoraggiamento ("You worry too much/ It's going to be alright/ When times get rough/ You can fall back on us/ Don't give up/ Please don't give up"). Un confronto sentimentale dietro al quale si cela un sottotesto sociale: la critica alla premier Margaret Thatcher, colpevole di aver provocato un aumento della disoccupazione. Un'intensità al calor bianco che si rinnova tra i solchi di "In Your Eyes", ballata dove l'amore per la propria donna si mescola a quello per Dio - come da tradizione africana - per una gemma polifonica arricchita dai vocalizzi di Youssou N’Dour e Ustad Nusrat Fateh Ali Khan, contributi preziosi tanto quelli stralunati di Laurie Anderson nella paranoica "This Is The Picture".
Tecnologia elettronica, melodie pop e sapori etnici si intrecciano e fondono in un album che resterà un'istituzione pop del decennio, consacrando Gabriel anche in classifica (certificato cinque volte platino dalla Recording Industry Association of America e tre volte platino dalla British Phonographic Industry, con il singolo "Sledgehammer" salito fino al n.1 della Billboard Hot 100).

A suggello di una stagione magica, arriva un altro capolavoro, sotto forma di una nuova colonna sonora, Passion (1989), che raccoglie le musiche per il film di Martin Scorsese "L'ultima tentazione di Cristo". Un'opera sincretica e monumentale, in cui Gabriel veste i panni di un Brian Eno della world music, attingendo a un'infinità di suoni folk, originari soprattutto dell'Asia e dell'Africa, e rielaborandoli in studio. Collaborano alla realizzazione del disco musicisti provenienti da paesi lontani quali Pakistan, Turchia, India, Costa d'Avorio, Egitto, Bahrain, Nuova Guinea, Marocco, Senegal e Ghana. Spiccano, in particolare, il violino di Shankar, il flauto turco di Kudsi Erguner, le tabla di Hossam Ramzy, le percussioni di Fatala, il doudouk armeno di Vatche Housepian e Antranik Askarian, i vocalizzi di Nusrat Fateh Ali Khan, Youssou N'Dour e Baaba Mal.
Il risultato di tanta eterogeneità è una babele di suoni e (poli)ritmi di cui Gabriel è l'architetto. Molti brani sono semplicemente la rielaborazione di temi armeni, egiziani e kurdi con centinaia d'anni di storia. Ma non c'è niente di già ascoltato, anzi, l'impressione è quella di assistere a un gigantesco musical futurista: le pulsazioni elettroniche e i pannelli "ambientali", infatti, riescono a trasformare queste melodie eterne nella colonna sonora ideale per un viaggio nella world music che verrà.
Il disco è costruito in crescendo, in un'ascensione ideale dal tribalismo pagano più sfrenato fino al misticismo arabo e orientale, per approdare alla solennità della Passione cristiana. Nel film, Scorsese voleva mostrare la lotta tra il lato umano e divino in Cristo in modo duro e provocatorio. Le tracce di Passion raccontano questo conflitto in un alternarsi spettacolare di meditazioni mistiche e sinfonie marziali, tribalismi raga e torrenziali danze della giungla, litanie arabe e melodie dolenti alla Morricone.
Il disco parte, e subito… "The Feeling Begins", come rivela la traccia iniziale. Merito dei suoi misteriosi droni di synth in apertura, seguiti da un affastellarsi progressivo di strumenti: octabans, surdu, skins (tutti appannaggio di Manny Elias), ma anche tabla e cimbali, chitarra e doppio violino (nel quale si destreggia, ovviamente, il mostruoso Shankar); al doudouk, invece, è affidato il compito di interpretare una melodia tradizionale armena (ribattezzata in inglese "The Wind Subsides"). Più che l'inizio di un disco, sembra la partenza di una carovana di dervish per un viaggio nel deserto.
Il giardino di "Gethsemane" è il luogo della preghiera: un breve interludio di un minuto e 25 secondi di musica da camera, per muovere i primi passi di una lunga ascesi mistica; il virtuosismo di Gabriel consiste qui nel costruire un intero brano su sample di flauto elettronicamente modificati. E se la spettrale nenia araba di "Of These, Hope" vibra soprattutto della "talking drum" di Massambla Dlop, simulando una cavalcata nel deserto, la piece di "Lazarus Raised" celebra il miracolo della resurrezione sulle note celestiali d'una melodia tradizionale kurda per duduk e tenbur (dedicata all'amore infelice di una giovane donna per il leggendario guerriero Bave Seyro). Gabriel, per l'occasione, si cimenta col suggestivo piano Akai. Sembra quasi di vedere i Pink Floyd suonare in una moschea.
Il clima da estasi mistica viene presto interrotto dalla tempesta sonora di "A Different Drum" - forse la più "gabrieliana" delle tracce - con il baritono maestoso dell'ex-leader dei Genesis a intonare una sorta di canto della giungla, attorniato da droni di organo, fitte percussioni tribali e vocalizzi esotici (a cura di David Sancious). E' un classico esempio dell'ethno-dance di Gabriel: una contaminazione eccitante tra il moderno battito tecnologico dell'Occidente e i ritmi "primitivi" dell'Africa profonda. E' invece in un minimalismo raffinato, degno d'un Glass della world music, che va ricercato il fascino di "Zaar", tenera piece poggiata su un fondale pianistico, intessuta su un reticolo di tamburine, duf, tabla, cimbali e triangolo, e sottilmente innervata dalle corde irrequiete del violino di Shankar. Il techno-funk "tribale" di "Troubled" prelude all'inno mantra di "Open", una improvvisazione tra il violino di Shankar e il piano di Gabriel dal profumo psichedelico, anche grazie ai vocalizzi "stranianti" dello stesso Shankar. Siamo ormai nei paraggi della trance mistica, come conferma la successiva "Before Night Falls", dominata dal ney (il flauto "obliquo" turco) di Kudsi Erguner.
"With This Love" segna uno dei momenti più commoventi dell'album: una melodia struggente d'oboe, degna del miglior Morricone, prende magicamente vita, mentre i ricami del doppio violino di Shankar si intrecciano al piano e al Fairlight, il synth-computer di Gabriel che conferisce un timbro delicatamente elettronico agli arrangiamenti. Non siamo troppo distanti dalle piece più suggestive della musica barocca. Attraverso una tempesta di sabbia scandita dalle percussioni marocchine e dalle tabla ("Sandstorm") si approda a un'altra tappa della via crucis di "Passion": "Stigmata", in cui sono solo il kementche' di Mahmoud Tabrizi Zadeh e la voce di Gabriel a creare una suspense "cosmica".
Il disco ascende ormai verso il suo vertice mistico: la title track, che celebra la Passione di Cristo con la solennità di un requiem e il misticismo di un mantra indiano. Il canto da muezzin di Gabriel si unisce al soprano solenne di Nusrat Fateh e ai vocalizzi inconfondibili di N'Dour, mentre la tromba minacciosa di Hassell, la cadenza serrata delle percussioni brasiliane e l'intreccio cupo delle tastiere contribuiscono ad acuire il clima da liturgia universale. Il coro spettrale della reprise di "With This Love" può apparire, allora, la voce delle donne che piangono il Cristo morto, in attesa della resurrezione. Il flauto ney di Kudsi Erguner e i sintetizzatori di Gabriel tengono in vita il fragile bozzetto sonoro di "Wall Of Breath", che rasenta l'ambient music più rarefatta, prima del sussulto di "The Promise Of Shadows". L'accenno di ritmo di quest'ultima si fa assolo percussionistico nell'ossessiva "Disturbed", dove i tamburi africani e le tabla si sfidano a duello, relegando sullo sfondo il violino di Shankar.
Ma il tempo della mestizia è finito, la resurrezione arriverà, e a celebrarla con il massimo della solennità provvede la sinfonia di "It Is Accomplished", con cadenze quasi wagneriane e un trionfo di strumenti (dalle percussioni al tamburino, dall'arghul all'organo hammond, dal basso alle tastiere). L'opera si spegne lentamente sul fischio languido di "Bread And Wine", senza quasi che l'ascoltatore riesca ad accorgersi che il miracolo musicale di Peter Gabriel si è appena concluso.

Passion, che segna il debutto di Gabriel con la sua Real World, stregherà la critica di mezzo mondo, vincerà un Grammy come "miglior disco new age" dell'anno, e riuscirà perfino a entrare nelle classifiche di Usa e Gran Bretagna. I Momix, la compagnia di ballerini-illusionisti diretta dall'americano Moses Pendleton, ne faranno la colonna sonora di un suggestivo spettacolo teatrale. Da quest'opera prenderà l'abbrivio la rinascita della world music targata Gabriel, che si accompagnerà negli anni alla produzione di una moltitudine di dischi per musicisti del Terzo Mondo e a una serie di progetti internazionali, come il Womad, creato per dare visibilità in Occidente alle tradizioni dei luoghi meno conosciuti del mondo e trasformato in appuntamento annuale itinerante.

Il successivo Us (1992) è un album più intimista e personale, frutto amaro dei fallimenti sentimentali di Gabriel, con il divorzio dalla moglie Jill, seguito dalle burracose relazioni con Rosanna Arquette e Sinéad O'Connor. Il "Noi" è allora rivolto ai rapporti di coppia, ma anche a quelli universali, tra tutti gli esseri umani in ogni angolo del pianeta. Il suono, invece, mescola il pop-funk tecnologico di So e il sincretismo etnico di Passion, grazie al consolidato rapporto con Lanois in cabina di regia e a un cast stellare, con Tony Levin (basso), David Rhodes (chitarra) e Manu Katche (batteria) a formare l'architrave della band, e tantissimi ospiti ad alternarsi nei brani: Brian Eno, Shankar, Sinéad O'Connor, Peter Hamill, più una pletora di musicisti folk da Argentina, Egitto, Senegal, Russia, Kenya e Turchia.
"Come Talk To Me" apre il disco con la voce scintillante della O'Connor ad affiancare Gabriel in un'accorata implorazione diretta alla figlia Melanie, che non voleva più parlargli dopo il trauma del divorzio: un invito a liberare insieme la sofferenza e riappacificarsi. Ne nasce un brano di straordinaria potenza e intensità emotiva, appena speziato da uno strumento esotico come il doudouk. Ancora l'ugola pregiata di Sinéad si fonde a quella di Gabriel nella struggente ballata "Blood Of Eden", in cui la rievocazione del Giardino dove tutto nacque è funzionale a una riflessione sull'unione, inevitabile e indispensabile, tra uomo e donna (il brano comparirà anche, in una versione differente, nella straordinaria colonna sonora del film di Wim Wenders "Fino alla fine del mondo"). È un Gabriel sofferente, bisognoso d'amore ("Love To Be Loved", con Eno guest star), la cui voce si è fatta ancora più densa e solenne: puro pathos che filtra sottopelle, nella confessione a cuore aperto di "Washing Of The Water", lavacro catartico per piano-voce, in cui l'acqua incarna un'ansia di completa purificazione.
Non mancano, comunque, i consueti scatti ritmici, come la funkeggiante "Steam", figlia naturale di "Sledgehammer", con una carica energetica dirompente che si rinnova nel singolo "Digging In The Dirt", bruciante numero elettrico con Hammill ai cori, che prosegue l'opera di purificazione "scavando nello sporco", per spazzare via ogni residuo di male nascosto nelle nostre anime: “Like a dog digging deeper and deeper, layer after layer of dirt is removed until the only thing that remains is the devil in all of us”. Sempre in modalità uptempo, la filastrocca di "Kiss That Frog" - ispirata dal libro di psicologia infantile di Bruno Bettelheim "The Uses Of Enchantment" - sottolinea sottili parallelismi tra fiabe e sessualità, ribadendo la convinzione che tutto è possibile, se si è sorretti da una volontà di ferro, mentre la mini-sinfonia di "Secret World" chiude il disco con una sommessa riflessione sul passato, esortando all'ascolto in silenzio (il brano darà anche il titolo al successivo, fortunatissimo tour che toccherà anche l'Italia).
Fondendo gli eccellenti risultati pop raggiunti su So con un afflato etno-folk internazionale frutto di anni di incontri e contaminazioni nel mondo, Gabriel centra con Us un altro importante traguardo, consolidando il suo cantautorato elettro-rock unico al mondo per complessità e potenza. Forse lievemente sottovalutato all'epoca, diverrà col tempo uno dei classici indiscussi del decennio Novanta.

Negli anni successivi Gabriel si concentrata soprattutto sullo sviluppo del progetto Real World, fino al 2000 quando esce Ovo, pomposa opera rock con una variegata gamma di stili e di strumenti: dalle percussioni ai sintetizzatori, dai violini indiani ai ritmi techno, dalle melodie celtiche a sprazzi di musica industriale. È una favola futuribile, dove i protagonisti rispecchiano l'ambizione dell'essere umano di governare la natura a costo di distruggerla. Tre generazioni di una famiglia si muovono attraverso un tempo indeterminato, raffigurato attraverso tre stadi: preistorico, industriale e tecnologico. "Ovo" sarà l'ultimo rappresentante della famiglia, colui al quale verrà affidato il compito di raggiungere l'equilibrio tra il sapere tecnologico e quello morale. Una favola con intenti ambientalisti di facile presa, dove è la musica a dare profondità e prospettiva alla storia.
Accanto a Gabriel, voci e musicisti di valore come Richie Havens, indimenticabile performer di Woodstock, Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, Neneh Cherry e Paul Buchanan cantante dei Blue Nile, ma anche Jocelyn Pook autrice di alcune delle musiche della colonna sonora di "Eyes Wide Shut" di Stanley Kubrick e il maestro del flauto di Ney, l'egiziano Kudsi Erguner.

L'attesissimo Up (2002) delude in buona parte le aspettative di pubblico e critica. Il singolo "The Barry Williams Show" è un motivetto banale, quasi una copia sbiadita della gloriosa "Shock The Monkey". Ma anche le sperimentazioni sparse qua e la all'interno del disco non colgono nel segno. "Sky Blue", ad esempio, è tanto accattivante quanto scontata; "My Head Sound Like That" e "More Than This", pur curatissime nell'arrangiamento, non riescono ad emozionare.
Fanno meglio, semmai, l'iniziale "Darkness" che parte con una marcia alla King Crimson per poi lasciare spazio a una bella melodia per piano e voce, "Growing up", in cui il mellotron introduce una progressione ritmica contagiosa, le due ballate "No Way Out" e "I Grieve", intense e malinconiche nella miglior tradizione di Gabriel, e infine "Signal To Noise", apice "etnico" del disco, capace di sposare gli orientalismi di Passion (affascinante il cantato di Nusrat Fateh Ali Khan) con il sinfonismo più epico e teatrale. Ma resta l'impressione che Gabriel abbia tentato di sopperire con la cura certosina degli arrangiamenti una carenza compositiva già emersa con il precedente Ovo.

Nel 2008 esce a nome Peter Gabriel Big Blue Ball è il frutto di tre anni di jam, session e incontri avvenuti a inizio Nineties sotto la supervisione del compositore inglese. A passare per gli studi Real World, un campionario degli artisti accasati presso l'etichetta di Gabriel e un discreto numero di nomi di spicco in ambito world music e dintorni.
L'album era rimasto nel cassetto per il lungo lavoro di riordino e produzione. Il risultato di quindici anni di rimaneggiamenti è un disco artificioso quando non direttamente kitsch, che segue Ovo e "The Imagined Village" nell'elenco delle delusioni all-stars licenziate recentemente da casa Real World.
Molti pezzi scommettono tutto sul suono, trascurando l'aspetto compositivo. Tra i restanti, qualcosa si salva. Ecco allora "Habibe" (Natacha Atlas, Hossam Ramzy, Neil Sparke), arabesco suadente di fumi minori armonici, archi e pulsazioni chill-out. "Exit Through You" (Joseph Arthur, Peter Gabriel, Karl Wallinger), piacevole filastrocca funky più consueto stacco atmosferico/enfatico. Poi Sinéad O'Connor che canta "Everything Comes From You", una conta che evolve in morboso rimuginamento amoroso e si spegne su un gioco ossessionante di botta-e-risposta vocali. Poco possono, invece, Billy Cobham, Jah Wobble, Vernon Reid per risollevare i brani che li vedono coinvolti.

In attesa del nuovo album di inediti, a inizio 2010 arriva Scratch My Back. È un album di cover: dodici brani per altrettanti artisti che si impegneranno, a loro volta, a realizzare una versione di un pezzo di Gabriel. Alcune scelte non stupiscono: Paul Simon, David Bowie, Talking Heads, Elbow. Altre sono meno facili da indovinare, e denotano una certa attenzione di Gabriel verso il panorama attuale: Arcade Fire, Bon Iver, Radiohead, Regina Spektor.
Il disco è interamente orchestrale e dominato da un'atmosfera scura, perfino post-apocalittica. Le emozioni appaiono lontane, slavate; la rassegnazione pervade voce e note in un connubio impossibile di intensità e atarassia.
Come nella desolazione degli ultimi Talk Talk, anche qui filtra di tanto in tanto un po' di luce. Guizzi di calore, mulinelli che nascono come per incanto e in un attimo si dissolvono, lasciando nell'aria un vago sentore di magia.

Su New Blood (2011) Gabriel rielabora 14 opere autografe con l'ausilio di un'intera orchestra, badando bene a sottrarre dal gioco sia chitarre che batterie. Non c'è più rock, non c'è più sangue, o meglio, è un nuovo sangue quello che sgorga da queste tracce mistificate ad uso e consumo di quel settore d'attenzione degli esperti di marketing che rientra sotto l'antipatico nome di "adult contemporary". Non è musica per giovani, sono daddy's songs, canzoni per agiati e imborghesiti padri di famiglia (vedi "Wallflower").
Riascoltare le arrampicate vocali di "The Rhythm Of The Heat" è emozionante sempre come la prima volta, ma qui è un ritornare su campi noti, che nulla aggiungono alla grandezza dell'artista di Bath. E sorbirsi un disco intero di saliscendi di archi e fiati non è così gradevole per chi puntò tutto sugli schiaffoni di "The Knife", sull'infinita "Supper's Ready" o sull'imprescindibile ending di "The Musical Box": ah, benedetta gioventù!
In alcuni casi ci troviamo di fronte a partiture impegnative che vanno a costituire situazioni in grado di discostarsi notevolmente dagli originali, con in più il pathos di un'intera orchestra a disposizione. Ma "Intruder", privata del ritmicismo iniziale, perde tutta la sua straordinaria forza d'impatto, "In Your Eyes" resa in quel modo diventa una canzone terribilmente normale, "Mercy Street" fatichiamo a evitare di skipparla, durante l'ascolto di "Red Rain" e "Don't Give Up" ci vien quasi voglia di interrompere l'agonia, per non parlare dell'accoppiata "The Nest That Sailed The Sky"/"A Quiet Moment", che arriva a totalizzare circa nove minuti di quasi assoluta inutilità.
Magari viste dal vivo, nel tour di qualche mese fa, queste versioni sarebbero state anche vagamente coinvolgenti, ma sul disco non riescono a lasciare il segno. Uno degli ultimi colpi di coda di un artista che, ahimè, pare davvero non avere più nulla (di nuovo) da dire.

Dopo ventun anni di attesa, il 1° dicembre 2023, Peter Gabriel giunge finalmente a regalare ai propri fan il tanto agognato ritorno con un album di inediti nuovi di zecca. 
i/o è il titolo del nuovo progetto, partito, in alcune sue fasi di stesura, addirittura dagli anni '90.

Per la sua riapparizione artistica, l’istrionico musicista di Chobham ha utilizzato una modalità di approccio graduale, dilatata nel tempo, preferendo pubblicare i dodici brani - o meglio trentasei e in seguito sarà spiegato il perché - che compongono il suo decimo full length in studio, con tassativa cadenza mensile. Dopo aver avvisato nel novembre 2022 che tutto era apparecchiato per la distribuzione di una nuova raccolta di inediti, già dal lontano 6 gennaio 2023, con la pubblicazione del primo singolo intitolato “Panopticom”, ecco che il ritorno di Peter Gabriel iniziava ad assumere sembianze tangibili.
Non solo per dovere di cronaca, è però necessario fare un po' di chiarezza sul particolare metodo utilizzato dall’artista per realizzare e soprattutto diffondere questo ampio progetto.
Ogni brano è presentato con tre diversi missaggi, ognuno elaborato da differenti produttori e ingegneri: il “Bright-Side Mix” curato da Mark ‘Spike’ Stent, soprannominato “il pittore” per la sua spiccata capacità di dare vita ai suoni, quasi tramutandoli in immagini, il “Dark-Side Mix” prodotto da Tchad Blake, appellato “lo scultore”, grazie all’evidente predisposizione per la costruzione di viaggi sonori dall’alto gradiente di drammaticità. Ad essi si è aggiunto il mix ”In-Side” elaborato da Hans-Martin Buff, che si è occupato di donare tridimensionalità al materiale in oggetto e per questo scelto per la diffusione in Blu-ray.

Come accennato, la divulgazione dei vari brani è stata schedulata con cadenza mensile e qui viene il bello. Con preciso riferimento al puntuale sorgere della Luna piena, a partire dallo scorso gennaio, ecco giungere, uno per volta, tutti i dodici brani in scaletta. In aggiunta, e star dietro a tutto ciò non è affatto semplice, la scelta di accompagnare ogni brano con un’opera d’arte visiva scelta dallo stesso Gabriel, come già accaduto per i precedenti album “Us” e “Up”, creata da pittori, scultori e artisti contemporanei, quali Ai Weiwei, Olafur Eliasson, Tim Shaw, tra i molti altri.

Le tre versioni con le quali sono stati presentati i brani non posseggono considerevoli differenze tra loro, se si eccettua forse l’arrangiamento “In-Side”, nel quale Hans-Martin Buff ha aggiunto alcune sezioni strumentali, ove opportuno, ovviamente con la piena autorizzazione di Gabriel.
La track list si muove su diverse direzioni, che chi scrive ripartisce su quattro categorie.
Dalla sezione etichettabile come la più oscura ed eterogenea spuntano brani quali “Panopticom”, che tratta l’argomento della condivisione, “The Court”, levigata dalle amate percussioni arabeggianti convocate a condurre temi quali giustizia e potere conferito alle persone.
Dallo stesso casato provengono anche “Love Can Heal”, eterea e tenebrosa nel suo incedere, con il violino svolazzante a dipingere un quadro che ricorda la vicenda della parlamentare britannica Jo Cox, assassinata da un estremista a pochi giorni dal referendum sulla Brexit e “Live and Let Live”, con una buona coesione tra sonorità moderne e arrangiamenti classicheggianti (in questo, la miglior testimonianza all’interno del Lp) utilizzata per analizzare il tema del perdono quale medicina per curare il dolore.

Nel percorso s’incontrano passaggi più intimi, dove la riflessione concettuale va a braccetto con le sonorità previste dall’autore.
In brani quali “Playing For Time”, che affronta argomenti come mortalità, ricordi, lo scorrere del tempo e “So Much” che, quasi sulla stessa linea, analizza quanto sia seducente vivere il proprio presente al massimo, mantenendo però i piedi ben saldi per terra, sono arrangiamenti più cameristici (pianoforte e archi) a farla da padrone, con la peculiare vocalità di Gabriel pronta sia a graffiare che a regalare slanci di assoluta drammaticità.

Non mancano richiami al pop, per così dire, più commerciale, un settore dove lui è sempre riuscito a primeggiare serbando un altissimo grado di eleganza. A hit quali “Sledgehammer”, “Red Rain”, e prim’ancora “Shock The Monkey”, “Solsbury Hill” e “Games Without Frontiers”, per arrivare fino a “Steam”, ora si accodano, a onor del vero senza raggiungere quei livelli, brani trascinanti, dotati di un ritornello particolarmente azzeccato, come “Olive Tree”, che riflette su temi quali crescita, trasformazione e connessione con il prossimo e “Road To Joy”, che a discapito di un incalzante aplomb, tratta temi quali esperienze di pre-morte e situazioni nelle quali le persone non sono in grado di comunicare o muoversi naturalmente.

La summa di tutto ciò è testimoniata da quelle tracce che coinvolgono un po' tutte queste caratteristiche, che trovano nell’ampiezza armonica e nella varietà costitutiva la propria forza.
Ecco che all’interno di canzoni come la title track, “Four Kinds of Horses”, incentrata su alcune proprietà della dottrina buddista, “And Still”, rivolta ad affrontare perdita e il ricorso alle persone amate non più presenti (nello specifico, la mamma di Gabriel) e “This is Home”, sull’individuare ristoro e rifugio nell’amore, si scorgono in un unicum tutte le fragranze gustate via via tra le singole tracce, richiamando numerosi aspetti dell’artista provenienti da un po' tutte le sue storiche esperienze professionali e personali.

In conclusione, i/o segna l’agognato ritorno al pubblico di un esponente tra i più influenti degli ultimi cinquant’anni e già questo basta a catalogare tale notizia tra le più importanti di questo scorcio di 2023.
Il disco non aggiunge nulla di nuovo al suo repertorio, va detto, ma consolida con grande vigore la posizione di autentico fuoriclasse della materia. 

i/o è un album fresco, conflittuale, magnetico, denso di contenuti e di soluzioni stilistiche, che non risente granché delle manipolazioni e dei rimaneggiamenti perpetrati lungo i lunghissimi anni di gestazione.
C’è tanto bisogno di dischi come questo, soprattutto in un periodo storico dove la corsa al risultato, da raggiungere con ogni mezzo, sembra essere l’unico obiettivo, non solo in ambito musicale. Che se ne parli bene o male non è importante. Ciò che conta è che il vigoroso settantatreenne Peter Gabriel sia tornato e abbia dimostrato, per l’ennesima volta, di avere tante, tantissime cose da dire.

 

Contributi di Marco Sgrignoli ("IV", "Big Blue Ball", "Scratch My Back"), Claudio Lancia ("New Blood"), Cristiano Orlando ("i/o")

Peter Gabriel

Discografia

Peter Gabriel I (Atco, 1977)

7,5

Peter Gabriel II (Atco, 1978)

7

Peter Gabriel III (Geffen, 1980)

8

Peter Gabriel IV (Security) (Geffen, 1982)

8

Plays Live (Geffen, 1983)

7

Birdy (soundtrack, Geffen, 1985)

6,5

So (Geffen, 1986)

8

Passion (Geffen, 1989)

9

Shaking The Tree (anthology, Geffen, 1990)

Us (Geffen, 1992)

8

Revisited (anthology, Atlantic, 1992)

Secret World live (Geffen, 1994)

7

Ovo (Real World, 2000)

5

Up (Geffen, 2002)

6,5

Big Blue Ball (Real World, 2008)

4

Scratch My Back (Virgin, 2010)

7,5

New Blood (Real World, 2011)

4

i/o (Real World, 2023)

7,5

Pietra miliare
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