Bon Iver

Bon Iver

L'oracolo del folk dei Duemila

L'incredibile metamorfosi da "anima perduta" a cantautore più celebrato dell'ultimo decennio: nell'accelerazione della scena musicale odierna, è bastato un anno o poco più a Justin Vernon per raggiungere lo status di araldo del folk revival. E altrettanto velocemente se ne è sbarazzato, a suon di collaborazioni e nuove imprese musicali - ma quell'inverno nel Wisconsin continua a essere un'eredità molto pesante

di Lorenzo Righetto e Andrea D'Addato

"I dettagli biografici dietro alla creazione di un disco non dovrebbero importare, quando si tratta dell'apprezzamento dell'ascoltatore, ma 'For Emma, Forever Ago', il debutto di Justin Vernon come 'Bon Iver', trasuda un tale senso di solitudine e lontananza che potresti riuscire a intuire una qualche tragedia, sotto di esso"
(Stephen M. Deusner, Pitchfork, 04/10/2007)

"La storia di Justin Vernon e di come il suo disco è nato è quasi troppo perfetta per essere vera, e ciononostante, dopo qualche ascolto di 'For Emma, Forever Ago', diventa presto ovvio, nonostante gli sforzi, che non si è davanti a qualcuno che finge".

"Mi scuso davvero se il background di questo disco è stato in qualche modo enfatizzato ma, senza di esso, 'For Emma, Forever Ago' non sarebbe mai esistito, ed è probabilmente onesto dire che gran parte di esso non avrebbe senso senza una spiegazione. Un resoconto esauriente degli eventi che circondano il disco non potrebbe essere definito esasperato".
(Dom Gourlay, Drowned In Sound, 12/05/2008)

Questi sono gli attimi della creazione di un mito, il congelamento di un preciso intervallo di tempo e di un luogo, un iper-cubo spazio-temporale che ha per lati le pareti di una baita fuori da Eau Claire, nel Wisconsin e i mesi dell'inverno del 2006-07. Come accesa da una scintilla primordiale, la mente collettiva americana - e poi mondiale - ha celebrato la comparsa di un nuovo tassello nel proprio pantheon, aggiungendovi un pezzo bizzarro per la sua apparenza insignificante: una capanna di legno.
C'è bisogno di conoscere le vicende Walden-iane di Justin Vernon, per apprezzare For Emma, Forever Ago? Naturalmente no. Ma è altrettanto naturale che, nella storia della gestazione del disco - non del tutto legata a quel "buon i(n)verno" - si condensino in modo esplicito e tangibile tanti cliché artistici, facendo dell'isolamento l'habitat preferito dell'ispirazione umana - cosa probabilmente vera, peraltro, ma qui evidente e perfettamente riproducibile. Allo stesso tempo, si culla forse l'illusione che bastino una chitarra e qualcosa di più o meno doloroso da raccontare per fare un'opera d’arte: il troppo spesso abusato equivoco della musica cantautorale degli ultimi anni.

Più della confessione, dell'espressione in un altro linguaggio di sette anni di vita di Justin Vernon, il fatto importante di For Emma, Forever Ago, anche per lo stesso cantautore, è la ricerca di un modo proprio di scrivere musica, la propria via all'arte. Vernon non si ritira nella baita dei genitori per mettere ordine nelle sue relazioni sentimentali, per fuggire dal mondo degli affetti. Quello lo ha già abbandonato lasciando Durham, l'Eldorado della musica alternativa, e i DeYarmond Edison, la band con cui aveva cercato fortuna abbandonando la poco fertile Eau Claire. È questa rottura che lo addolora, non certo quello con Christy Smith, la sua ragazza al tempo (niente più che uno "Skinny Love"), e men che meno il ricordo della ex Sara Emma Jensen, quella che compare nel titolo.
Il momento di svolta nell'esistenza di puro ascetismo di Justin Vernon non è quello in cui riesce finalmente a comprendere un comportamento, o una situazione passati: è quello in cui scarica il rimorchio dell'auto che contiene gli apparecchi di registrazione e missaggio che si era portato dietro dal North Carolina, per registrare uno dei cori del disco. È forse difficile ammettere che la vita e l'arte abbiano spesso traiettorie diverse, e che la prima sia solo un pretesto per la seconda. L'impulso alla creazione di qualcosa di bello, di significativo per gli altri spesso trascende e mette in secondo piano gli accidenti - i fatti, le persone - che lo rendono attuabile, tangibile. Non che questo diminuisca l'impatto prettamente emotivo, lo spirito di emozioni tracimanti - quello sì indistruttibile - di For Emma, Forever Ago: ne accresce invece la portata, slegandolo un po' dall'immagine costretta e stereotipata del disco "confessionale", dal contenitore sciattamente arrangiato delle breakup song di ogni tempo.

boniver_xFor Emma, Forever Ago è infatti ben più della somma delle sue parti. Il falsetto, il modo innaturale di Vernon di scimmiottare i miti della black music e di imitare le voci bianche del Vienna Boys' Choir, tanto da registrare quasi sempre almeno due linee vocali; la chitarra, pare di vederla: la cassa scheggiata fino al legno vivo dai movimenti di plettro, una corda mancante, gli spigoli sbreccati dopo innumerevoli cadute, registrata a pochi centimetri, così da parere uno strumento auto-costruito o un attrezzo di falegnameria, un Frankestein siderurgico che bisogna percuotere perché funzioni; infine i remoti rumori degli assiti che scricchiolano, delle stoviglie che rintoccano, dell'entropia che lentamente si fa più grande.
Intuizioni casuali: il falsetto è un modo estremo e disperato di abbandonare il registro cupamente cantautorale utilizzato coi DeYarmond Edison, per tentare una via del tutto personale; la chitarra registrata in quattro tracce deriva dall'obiettivo di mettere insieme dei demo da spedire alle etichette, e non certo di pubblicare tali registrazioni (saranno i primi a cui le farà ascoltare, amici musicisti di Durham, a convincerlo che quello era effettivamente il suo disco, fatto e finito).

"Guardo di nuovo all'altro disco, e mi piace parecchio 'Re: Stacks', naturalmente, ma è più una canzone che spiega e ogni volta in cui la suono mi sento come se stessi spiegando la stessa cosa di nuovo, e ancora e ancora. Non che sia così male - penso che quella canzone significhi molto per molte persone, ma la canzone di quel disco alla quale rispondo ancora è 'Flume'. 'Flume' è stata la catalizzatrice per l'intera cosa, e la sento ancora come tale. Posso davvero ancora abbracciare quella canzone, e ciò che è: è la prima cosa che questa band abbia fatto e sembra davvero che possa nutrirsi per sempre. Perché, qualsiasi cosa stia accadendo in quella canzone, ha senso per me, e si sta ancora rivelando".
(Justin Vernon)

È un po' qui la magia di For Emma, Forever Ago: la sua instancabile poesia, un costante richiamo per l’anima. Quella religiosità naturalistica e primitiva ("I am my mother's only one/It's enough"; "Sky is womb and she's the moon"), che nell'iniziale "Flume" prende forma in un rituale magico, in cui la realtà è gioco di ombre, riflesse dal fuoco sulla parete di una caverna. Si esprime qui più compiutamente anche lo stile lirico di Vernon, derivato da un processo di composizione che fa leva sul subconscio - prima costruiva la melodia canticchiando in più versioni sillabe che ben si incastrassero nel procedere della canzone, poi riassemblava il tutto con parole e frasi di senso compiuto - e col quale il cantautore di Eau Claire vorrebbe distinguersi dall'ombra imponente di Springsteen, Dylan e Young, chiamando in causa invece Richard Buckner (uno dei pochi paragoni che non gli sono stati affibbiati). Ne derivano così immagini immote e innaturali, quasi visioni alla Dalì di mondi lunari e specchi d'acqua deformi: "Only love is all maroon/Lapping lakes like leary loons/Leaving rope burns - reddish ruse". Ma non è forse l'arte "migliore", la più aderente a sé e alla propria esperienza, quella che "vede ma non comprende", perlomeno non del tutto?
Ma For Emma, Forever Ago non tradisce neanche nel creare immagini corpose, esperienze nude, sensazioni anche tattili: per questo non bisogna conoscere la storia della sua composizione, per apprezzarne il luogo dove si svolge. Il gelo del Wisconsin morde attraverso il vibrare metallico delle corde di chitarra; minuscoli arpeggi formicolanti sembrano evocare la vita impercettibile e insignificante che unica sembra resistere all'inverno; l'aria frizzante delle notti di luna piena è il mezzo evidente che trasporta i cori di Vernon; ciò che non fanno i suoni, poi, lo fa il silenzio.
Oltre a questo, sono le immagini delle canzoni a farsi improvvisamente plastiche, come in "Blindsided", grido d'aiuto (fatalmente toccante il refrain "Would you really rush out/ for me now?") di uno spirito che si trascina nella neve; "Re: Stacks" sembra il graduale, lento disvelarsi di una catartica ed epifanica riflessione di un mattino in cui ci si trova bloccati in casa da una bufera invernale.
E non c'è, in tutto questo, una vera tensione alla rottura col passato: "Skinny Love", per quanto ormai una delle hit dei Duemila, potrebbe essere la registrazione di un lontano bardo appalachiano, con quello stomp appena accennato e l'interpretazione straziante, da brividi, di Vernon. Infine il grande pop di "For Emma" - una delle poche canzoni a cui vennero aggiunte parti di fiati dopo il ritorno di Justin alla società - e di "Lump Sum".

For Emma, Forever Ago, nel momento in cui Vernon lo mette in streaming sul proprio sito, si anima di vita propria, fertilizzando i blog e arrivando a causare una tempesta virtuale (all'interno della quale si conta anche una Top 30 su Stereogum) che porta Bon Iver a firmare per la Jagjaguwar in ottobre, a pochi mesi dalla pubblicazione in proprio del disco. La pubblicazione successiva, del febbraio 2008 e l'ulteriore ristampa marcata 4AD a maggio porteranno alla creazione, forse, dell'unica figura cantautorale veramente "popolare" di questo nuovo terzo millennio, in questa strana compenetrazione tra mainstream e musica indipendente che rappresenta, evidentemente, uno stato transitorio.
Ben meno "transitorio" sarà, però, lo spaventoso effetto del disco sugli artisti, ma forse anche sugli ascoltatori, e quindi sul mondo della musica. For Emma, Forever Ago diventa l'album che tutti vorrebbero aver scritto: i suoi suoni, la sua carica emotiva e spirituale al tempo stesso, la sua capacità di rappresentare stati dell'anima e paesaggi fisici con la medesima intensità. E Vernon rivestirà, con una certa soddisfazione, la figura di nuovo "oracolo"...

Una metamorfosi graduale: da "eminenza grigia" dei cantautori a iridescente pop-star


boniver_ixConsacrato dal capolavoro For Emma, Forever Ago come l'artista di punta di quel folk revival che ha pervaso il rock indipendente di fine decennio di scarne ballate acustiche, immaginario boschivo e barbe, il Bon Iver del 2009 è però già un cantautore desideroso di guardare oltre e intento a contaminare la formula vincente dell'esordio con nuove soluzioni. Conscio del proprio talento e affascinato dalla moltitudine di sfumature che lo studio di registrazione può conferire alla sua scrittura, l'uomo chiamato Justin Vernon si prepara così ad affrontare un biennio di transizione (disgelo?) ampiamente documentato da pubblicazioni che, nel loro fungere da preziose testimonianze di una nuova ricerca musicale, spesso rivelano picchi d'ispirazione da lasciare a bocca aperta.
È questo il caso della title track posta in apertura dell'Ep Blood Bank, inevitabilmente figlia di "For Emma", ma anche di una nuova volontà di mettere maggiormente in risalto un talento melodico in grado di sbocciare senza snaturarsi anche quando adagiato su strutture più immediate. Sempre spoglio nei suoi arrangiamenti per voce e chitarra, Bon Iver si concede qui una linea vocale da far impallidire il Chris Martin di "Parachutes" e schiude il proprio guscio di tormentato folksinger su una breve coda ambientale che sembra sciogliere lentamente la neve evocata dal testo e dalla copertina. "Blood Bank è diversa da tutti gli altri pezzi di Bon Iver", commenta il suo autore. "È uscita fuori per caso, stavo guardando un episodio di Northern Exposure incentrato sulla donazione del sangue e ho scoperto che gli indiani dell'Alaska sono in grado di stabilire l'identità di una persona in base al colore del suo sangue. L'idea mi ha affascinato e subito dopo ho scritto 'Blood Bank', ma forse ha più senso dire che si è scritta da sola".
Il resto dell'Ep prosegue senza intoppi né fiammate, con una "Beach Baby" che congeda degnamente il balladeer acustico del 2008 con un abbraccio di pedal steel per grazia ricevuta da Gram Parsons, mentre "Babys" gioca sapientemente fra una stasi invernale disegnata da ossessivi rintocchi di piano e un etereo falsetto a invocare l'arrivo dell'estate. Non più che un curioso esercizio di stile appare invece la conclusiva "Woods", costruita solamente su intrecci vocali beachboysiani e sperimentazioni al vocoder che mettono in luce il Nostro più come eccellente mestierante che come ispirato compositore.
Quasi in concomitanza con l'uscita di Blood Bank, il nome di Bon Iver riappare fra l'élite di artisti selezionati per contribuire con ben trentuno inediti alla compilation a scopo benefico "Dark Was The Night", edita dalla 4AD e curata dai fratelli Dessner. Le due performance del cantautore del Wisconsin sono nella fattispecie una collaborazione, a dire il vero trascurabile, con Aaron Dessner dal titolo "Big Red Machine" e un sorprendente gioiello composto dal solo Bon Iver, "Brackett, WI".
È qui che gli aridi paesaggi acustici un tempo marchio di fabbrica dell'arte di Vernon iniziano definitivamente a mutare, inglobando con naturalezza sacrali tappeti di tastiere, sospensioni ai limiti dell'ambient e paludosi giri di chitarra e basso che, nella loro ossessività, riescono sempre a richiamare l'ordine anche quando il pezzo sembra sul punto di esplodere.

È comunque evidente che ciò che sta rendendo davvero grande il progetto artistico di Bon Iver è soprattutto il suono di una delle voci più riconoscibili del decennio, un falsetto dotato di una fragilità straordinariamente umana e, nello stesso tempo, capace di rivestire le sue composizioni di un'aura quasi trascendentale. La straordinaria efficacia melodica della voce di Vernon è anche il motivo per cui il suo nome inizia a circolare al fianco di un numero sconfinato di artisti, anche di ambiti musicali apparentemente distanti dalle sue coordinate usuali, tra cui gli amici Collections Of Colonies Of Bees (per il progetto Volcano Choir), i National, la nuova stella nascente dell'indie-pop St.Vincent (con cui duetta nella spettrale ballata "Roslyn", inserita nella colonna sonora di "Twilight") e addirittura la glitterata pop-star Kanye West.

Da queste esperienze si evince come il Bon Iver che si accinge a pubblicare il secondo attesissimo full-length, nel 2011, sia ormai sul punto di abbandonare il ruolo di cantautore lo-fi in solitaria per immergersi in una nuova inafferrabile formula ricca di contaminazioni. Il titolo dell'album, Bon Iver, Bon Iver, è prima di tutto un invito a rivalutare quello stesso moniker, ora evidentemente identificabile come una vera e propria band, per non dire un'orchestra, data la quantità di strumenti coinvolti.
Il primordiale folk degli esordi di certo non è scomparso, ma appare destinato ad aprirsi su un'avvincente babele di suoni che, tra fiati che profumano di soul, cinematici arrangiamenti d'archi, tappeti di tastiere radiofonicamente eighties e malinconici sguardi alla California del Brian Wilson più sperimentale, si impossessa degli spazi sconfinati dell'estetica americana e li riosserva attraverso la lente di un ambient-pop curato nei minimi dettagli. E se il connubio fra arrangiamenti policromi e melodie istantanee sembra pagare un sentito tributo all'arte di Peter Gabriel, il minimalismo degli interventi strumentali e l'arte di onorare i silenzi rimandano dritti ai mai troppo lodati Talk Talk.

boniver_iIl risultato è una pluralità di voci che provoca un rassicurante smarrirsi fra paesaggi indefiniti e che, nei molteplici riferimenti a luoghi ora esistenti ora fittizi, traccia un itinerario le cui coordinate geografiche si tramutano in stati di coscienza. "Some way baby, it's part of me, apart from me", recita il primo verso dell'ipnotica "Holocene", come a voler rimarcare la presenza/assenza di spazi che popolano il mondo dei ricordi e che la musica di Bon Iver, Bon Iver tenta di riportare in vita con una collezione di istantanee evanescenti.
"Michicant" è forse la più preziosa, nel suo cullare memorie d'infanzia su una melodia vocale non meno che memorabile, ma certo non sfigurano una sontuosa country-song post-moderna per anime romantiche a nome "Towers" e il primo singolo "Calgary", magistralmente sospeso tra un esoscheletro synth-pop e un cuore di folksinger da spazi sconfinati che non ha mai cessato di battere.
Purtroppo, però, quest'ultimo brano risulta essere anche l'unico vero picco in una seconda metà di disco in cui lo sforzo compositivo lascia spazio a un mero trionfo formale: "Hinnon, TX" e "Wash", che pur ben si amalgamano nell'insieme, scorrono tanto diligentemente arrangiate quanto impalpabili nella scrittura, mentre la conclusiva "Beth/Rest", tra auto-tune e frammenti di chitarre in assolo, tenta di aggiungere altra carne al fuoco, ma alla fine lascia più disorientati che paghi.

Comunque, se è vero che alla fine dell'ascolto di Bon Iver, Bon Iver rimane un senso d'irrisolutezza per il capolavoro che sarebbe potuto essere e che sfortunatamente non è, sarebbe ingrato non sottolinearne i meriti: con questo album, Justin Vernon non solo ha aperto una nuova, seducente strada al suo percorso musicale, ma ha anche dato vita a una formula straordinariamente peculiare, elegante e accessibile al tempo stesso, ricompensata con ottimi risultati di vendite e una popolarità in costante crescita.
Inaspettato suggello di questo periodo di successi sarà una doppia vittoria ai Grammy 2012: "Best Alternative Music Album" e addirittura "Best New (?) Artist", magari non il massimo dell'aspirazione per un artista "di sani principi" com'è il Nostro, ma sicuramente un chiaro indicatore di come il nome di Bon Iver stia acquisendo notevole rilevanza nel mondo del music business. "Sto seguendo un percorso, e non è ancora completamente definito, ma mi sta portando verso qualcosa", ha di recente analizzato Vernon con estrema lucidità.

Se guardiamo alla produzione di Justin Vernon come a un ciclo di vita, vediamo chiaramente come l’inverno dell’anima si sia man mano calato nella postmodernità: si è intriso e ha trattenuto molte tracce delle influenze incontrate sulla sua via, accettando il rischio di compromettere la purezza che lo caratterizzava alla nascita; ciò nonostante, l’espressione “estranea” dell’artista del Wisconsin è riuscita a mescolarsi nella realtà caotica e liquefatta del nostro tempo senza perdere la sua singolarità, che altrimenti oggi ci risulterebbe irriconoscibile.

boniver201622, A Million arriva così, a distanza di cinque anni dal proprio predecessore, come sublimazione e al contempo esasperazione di una volontà di rappresentare uno stato identitario/esistenziale aleatorio. Per quel che concerne il paesaggio sonoro, si riparte dalle note di congedo di Bon Iver, Bon Iver, ovvero quella “Beth/Rest” in cui il territorio artistico del nostro appariva adombrato dalle tentazioni di amicizie ingombranti. E si ritorna, più in generale, all’idea di un sound policromo, che fagocita più universi dello ieri e dell’oggi del pop americano per restituirli in una complessa geografia dell’anima.

Mentre però l’album del 2011 sapeva levigare la propria eterogeneità in spazi rassicuranti, riscaldati da melodie cristalline e morbide anche nei momenti più dirompenti, l’io narrante di 22, A Million si muove smarrito in una Terra Desolata, la cui cifra espressiva va riconosciuta, non tanto nel songwriting, quanto nell’atto di giustapposizione di detriti sonori. Pattern ritmici, appoggi di pianoforte, controcanti e linee di sax si susseguono in frammenti, come rigurgitati in un linguaggio digitalizzato che intacca ogni cosa, dalla produzione volutamente “glitchata” ai codici alfanumerici indecifrabili della tracklist.
Certo, una volta gettata la maschera para-avanguardista, la sostanza di queste canzoni appare piuttosto lontana da quella dei due lavori precedenti. Si ha più che altro la sensazione di una lucida fenomenologia di soluzioni avant-pop di tendenza, presentate a regola d’arte, dando l’illusione di mischiare le carte, tanto che l’attenzione tende a spostarsi lontano dalla reale natura di questi brani, fatti esplodere prima ancora che potessero definirsi compiuti.

Così, 22, A Million funziona più come gioco di confezioni, come specchio di un oggi musicale che sembra esaurirsi nella gelida radiografia delle proprie componenti. Ogni strumento si identifica con il momento in cui interviene, sorprende nel suo mero esserci, ma lo sforzo di farne veicolo per melodie memorabili non sembra aver preoccupato particolarmente l’autore di Eau Claire. Il percorso proposto dal Bon Iver del 2016 risulta pertanto eccessivamente in bilico tra mirabile espressione dello zeitgeist e sospetto che l’eventuale riduzione di questi brani al grado zero compositivo, possa lasciare l’ascoltatore con in mano poco più che delle cugine minori delle tracce di Bon Iver, Bon Iver (“666 ʇ”, “8 (circle)”), quando non un pugno di mosche (“10 d E A T h b R E a s T ⊠ ⊠”).
Assodato che la personalità vocale e compositiva di Justin Vernon basta e avanza per non oscurarne il ruolo di nobilissimo artigiano del pop contemporaneo, resta il forte dubbio che, per quest’album, l’impatto sulla contemporaneità coincida più che altro con i sensazionalismi da social network, mentre la chiara assenza di una “Re: Stacks”, una “Skinny Love” o una “Calgary” potrebbe portare il qui presente lavoro a dissolversi al minimo cambio di vento.

Dopo aver stimolato le più ancestrali sinapsi, collaborando con Gayngs, Volcano Choir, Kanye West, St Vincent e così via, Vernon si è tuffato nel progetto “Big Red Machine” con la complicità di alcuni membri dei National, mettendo a punto un altro tassello della moderna astrazione pop.
Nonostante questa continua sinergia artistica con altre forme musicali, con il progetto Bon Iver ha tenuto salda la prua, coinvolgendo un numero sempre maggiore di amici e musicisti nel proprio meccanismo compositivo. I, I (2019) resta fedele alle interconnessioni tra elettronica e soul del precedente album, tentando di capitalizzarne le migliori suggestioni con un flusso pop lievemente più definito. Questo si traduce in un disco ancora una volta bifronte, diviso tra intuizioni di scrittura e d’arrangiamento di rara bellezza e qualche appunto distratto, vestito con sonorità ambiziose, che alfine rappresentano con dovizia la vacuità dei tempi correnti.
Il surreale pop di “iMi”, oltre a beneficiare della presenza di James Blake, ostenta anche le sonorità più ardite del progetto. Un’epifania creativa che si rinnova con ancor più vigore nella geniale intuizione pop di “Hey, Ma”, con Vernon che afferra tutto il potere lirico e strumentale del brano. Alla solennità del precedente album si è ricongiunta la forza melodica dell’esordi: brani come “Faith”, “Naeem” fondono antico, moderno e contemporaneo, rinnovando le possibilità di un’evoluzione della musica pop come linguaggio universale, la stessa dottrina che spinge l'artista ad avvalersi della collaborazione di un'icona del pop come Bruce Hornsby in “U (Man Like)”.
Messi a nudo gli elementi base della musica pop americana (folk, soul ed elettronica), il musicista americano li scompone e li ricompone con una saggezza che è affine sia alle prerogative della musica sperimentale (“Yi”, “We”) sia al perfezionismo degli Steely Dan, sparpagliando cacofonie vocali/strumentali (“Holyfields”) e minimalismi austeri (“Jelmore”) all’interno di una rappresentazione allegorica di una realtà dove gli opposti non vanno necessariamente in conflitto, con la voce di Vernon a far da collante espressivo.
Le reminiscenze acustiche e dimesse di “Marion”, le giocose geometrie elettro-soul rimpolpate dal suono dei fiati di “Salem”, l’apparente futilità di “Sh’Diah” e le citazioni neoclassiche dell’incantevole chiosa di “RABi” sono parte di un esaltante insieme di arte concettuale e musica popolare, che concretizza fino in fondo lo sforzo creativo di Vernon di evolvere gli iniziali input da solista in un progetto musicale collettivo (lo stesso moniker Bon Iver oggi corrisponde a una formazione di 5 elementi), consacrando I, I come il suo album più completo.

Lorenzo Righetto: "For Emma, Forever Ago"
Andrea D'Addato: "Blood Bank", "Bon Iver, Bon Iver", "22, A Million"
(contributi di Gianfranco Marmoro, "I, I")

Bon Iver

Discografia

For Emma, Forever Ago (self-released, 2007; Jagjaguwar, 4AD, 2008)

9

Blood Bank (Ep, Jagjaguwar, 2009)

6,5

Bon Iver, Bon Iver (Jagjaguwar, 4AD, 2011)

7

22, A Million (Jagjaguwar, 2016)5,5
I, I (Jagjaguwar, 2019)7,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Flume (radio session, da "For Emma, Forever Ago", 2007)

Skinny Love (live da Jools Holland, da "For Emma, Forever Ago", 2007)

For Emma (Blogothéque, da "For Emma, Forever Ago", 2007)

Blue Tulip (cover da "The Stand-Ins" degli Okkervil River,  2008)

Calgary (da "Bon Iver, Bon Iver", 2011)

Michicant (da "Bon Iver, Bon Iver", 2011)

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