Chi è davvero St. Vincent? Un po' rocker, un po' chanteuse jazz da cabaret notturno, un po' strega postmoderna, un po' popstar in latex; sempre glamour e misteriosa, in ogni sua apparizione. Cosa si nasconde dietro le tante incarnazioni e l’identità sfuggente della cantautrice che più di ogni altra ha saputo abbattere i residui steccati tra avant-pop e mainstream, svolazzando con la sua voce da mezzosoprano e il suo chitarrismo virtuoso su partiture acrobatiche e spesso altrettanto indecifrabili? Per alcuni si tratta di una nuova figura di sofisticata entertainer d’avanguardia - sulla falsariga delle sempiterne Laurie Anderson, Kate Bush e Bjork; per altri - i più maligni - di un’audace revivalista, pronta a farsi finanche cosplayer in nome di una spregiudicata retromania da fumo negli occhi.
Benché abbia varcato la soglia dei 40 anni, Anne Clark preferisce lasciare ancora ampi margini di ambiguità al suo percorso, che l’ha vista stagliarsi come una delle figure femminili di riferimento del Duemila. Con quel suo spirito irriducibilmente irriverente e scanzonato alla Peter Pan, che si sposa alla malizia da consumata chanteuse glamour, in un ibrido fertile in grado di spiazzare sempre un po’ tutti, detrattori inclusi. Può comunque portarsi a casa con soddisfazione gli innumerevoli attestati di stima della critica nonché di illustri star musicali: da David Byrne, con il quale ebbe addirittura l’onore di collaborare in un disco a due, fino a quella Taylor Swift che insospettabilmente la volle con sé per firmare insieme la hit “Cruel Summer”.
Più che dissipare il mistero che tuttora circonda St. Vincent, allora, cercheremo di ricostruirne le diverse facce, lasciando a voi la possibile soluzione di un enigma musicale che l’urlo primordiale dell'ultimo disco ha in parte contribuito a disvelare, mostrando se non altro che sotto i costumi e gli artifici pulsa un cuore che non ha paura di presentarsi in tutta la sua complicata umanità.
Last trip to Tulsa
Anne Erin Clark nasce a Tulsa, Oklahoma, il 28 settembre 1982. Inizia già a 12 anni a suonare la chitarra, vendutale da un tal Tony Hyatt, che definirà per questo un “guitar hero”. Durante l'adolescenza, lavora come tour manager nella band degli zii Tuck & Patti. Cresce a Dallas, in Texas, dove frequenta la Lake Highlands High School, diplomandosi nel 2001. Quindi, si iscrive al Berklee College of Music, ma lascia gli studi dopo appena tre anni. A tal proposito Anne in seguito dichiarerà: “Credo che in una scuola di musica, così come in una scuola d'arte, o comunque una scuola di un qualsiasi genere, debba esserci un qualche sistema per assegnare voti o conferire giudizi. Le cose che possono insegnarti lì sono quantificabili. Penso che tutto questo sia un bene e che abbia un perché, ma a un certo punto devi imparare tutto ciò che puoi, per poi dimenticarlo se vuoi davvero iniziare a fare musica”.
Mentre ancora frequenta la Berklee, nel 2003, pubblica un Ep per i suoi compagni di corso intitolato “Ratsliveonnoevilstar”, dal titolo palindromo. Quindi, torna a casa in Texas, dove getta le basi per la sua futura carriera di musicista.
Dapprima entra nei Polyphonic Spree, quindi, nel 2004, entra alla corte di un guru dell’avanguardia come
Glenn Branca, prendendo parte alla performance “100 guitar orchestra” del compositore americano, in onore dei Queen. Chiusa l’esperienza con i Polyphonic Spree, nel 2006 finisce sotto l’ala protettiva di
Sufjan Stevens, con il quale comincia a collaborare dal vivo.
Ma Anne ha deciso: vuole farcela da sola. E la prima mossa è la scelta dello pseudonimo: St. Vincent, ispirato al Saint Vincent's Catholic Medical Center, dove il poeta gallese Dylan Thomas morì nel 1953. “È un luogo dove la poesia viene a morire”, spiegherà in seguito Annie, che racconterà anche di avere preso il nome St. Vincent da un verso della canzone “There She Goes My Beautiful World” di
Nick Cave (dall'album “
Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus”), in cui si fa riferimento al poeta gallese.
È la Beggars Banquet a metterla sotto contratto, consentendole di registrare l’album d’esordio,
Marry Me (2007), che prende il nome da una battuta dello show televisivo “Arrested Development - Ti presento i miei”. Ad affiancarla, tre ospiti di lusso: il tastierista di
David Bowie Mike Garson, il batterista Brian Teasley (Man or Astro-man?) e il polistrumentista Luois Schawadron. Ma la mattatrice indiscussa è lei, Anne Clark, che mette subito a frutto le sue conoscenze arricchendo il tutto con un estro compositivo di tono superiore e dando vita a un disco fresco, originale, sorprendente.
Molte composizioni nascono dall'amore per il jazz e per un concetto di orchestra aperta che guida tutte le innumerevoli idee sonore, che sorprendono e affascinano a ogni ascolto. È una straordinaria geometria ad animare "Your Lips Are Red", dove il free-jazz incontra l'elettronica e la musica tribale, dove il piano lotta con i ritmi fino alla apoteosi melodica guidata dal violino e dal cantato minimale di Annie, ma ogni brano riesce in qualche modo a sorprendere.
Gia l'iniziale "Now, Now" mostra toni originali: quasi un raga infantile, con incisive chitarre acustiche e cori di bambini, che esplode in un finale brusco che sembra provenire dal nulla e portare il brano altrove. La
title track "Marry Me" è una più rassicurante
ballad alla Feist, che tra
loop orchestrali e
handclap ipnotizza l'ascoltatore con malizia e ingenuità.
Le infinite costruzioni melodiche, a volte atonali, sono evidenti e innumerevoli nella stralunata "Jesus Saves, I Spend", che su un madrigale inserisce elementi jazz e blues, nonché strane voci, con una perfezione sonora incantevole.
Tracce a prima vista più semplici sono comunque caratterizzate da idee brillanti, come la conclusiva "What Me Worry",
jazz-ballad molto raffinata, con piacevoli contrappunti di flauto e sax, o la notturna "Paris Is Burning" un film tra “Cabaret” e Fellini, con citazioni di Shakespeare. Il romanticismo più puro alberga tra le trame oblique del disco, basti ascoltare la languida "All My Stars Aligned", con piano liquido e cori angelici, perfetta per il "
White Album" dei
Beatles.
Citazioni d'avanguardia per la bella "The Apocalypse Song", con una splendida sezione d'archi,
break ritmici polifonici e suoni
noise. Bossa nova e orchestra nella ironica "Human Racing", ricca di sfumature acustiche dal finale poco rassicurante, con la voce splendida di Annie che si libra nell'aria dopo aver scavato nella tradizione folk americana con l'intrigante e sensuale "Landmines". Anche l'unico strumentale, "We Put A Pearl In The Ground", si rivela eccellente, a conferma di un disco praticamente impeccabile, in cui la presenza di Garson aggiunge spessore a trame già complesse e affascinanti.
Molte recensioni individueranno in
Bjork un possibile punto di riferimento, ma chi non si ferma all'effetto immediato scoprirà in Annie capacità creative e musicali più affini a
Kate Bush, dalla quale sembra ereditare il gusto dell'imprevisto, nonché l'effervescente capacità di assemblare elementi dissonanti in qualcosa di unico e ammaliante.
Annie goes to Hollywood
Il successo del debutto spinge Annie Clark a partire in tour. Due anni di concerti che la mettono a dura prova. Così trascorre giorni e giorni sul suo divano a guardare i film, specialmente i cartoni della Disney, in cerca della ispirazione su come dovessero suonare i pezzi del nuovo album. E ridicolizza la paura del
difficult second album con un volo senza rete nel cielo dei panorami sonori della musica per cinema e dei costrutti sinfonici applicati al suo pop barocco un po' lillipuziano.
In
Actor (2009) c'è un po' di tutto questo: ambizioni da musical psichedelico, atmosfere
elfmaniane/
disneyane, fastosi arrangiamenti per fiati e archi che omaggiano Stravinsky, solide basi elettroniche e un filo conduttore nei testi che sembra rimandare a una sorta di
concept simbolico e impressionista sulle frustrazioni della donna americana, qualcosa d'incerto fra Sylvia Plath e la "Desperate Housewife". E le ambizioni trovano un immediato riscontro sul piano della scrittura: tutto è non solo arioso, maestoso, luminoso, ma anche agile, spiazzante, orecchiabile, testimone di un fragile equilibrio, sintomo di uno stato di grazia che rilancia il suo potere ipnotico ogni volta che sei sul punto di ridestarti.
"The Strangers" apre su corali incantate e prosegue con una trama orchestrale e sintetica sostenuta dal ritmo della cassa, su cui si libra la voce eterea e riverberata fino al
bridge distorsivo che dà sul finale. "Save Me From What I Want" ammalia a passo di marcia, sospinta da bassi convessi e voluminosi, fra
response da
girl group e intarsi psichedelici di chitarra. "The Neighbors" è l'aria
broadwayana perfetta che cala su un andamento
downtempo, fra scatti
indie-rock, accompagnamenti corali e un'avvolgente armonia di moog. "Actor Out Of Work" è il primo singolo: una miniatura di synth-pop barocco. "Black Rainbow" è una gioiosa follia tutta costruita su un ritmo synth in levare, coi bellissimi rimandi fra i fiati e gli archi, fino all'ascensione sinfonica conclusiva in cui entrano la batteria, a colpi di cassa, e le linee di chitarra quasi
glam.
Ma il vero capolavoro è "Marrow": solita
ouverture corale/orchestrale e poi... una serie di bordate elettro-funky con
break sincopati, di nuovo archi e corali, quasi gotiche stavolta, in sottofondo,
Edward "Mani di Forbice" che recita nello stesso film con
Bjork e
Madonna. "The Bed" rinnova l'ascendenza
elfmaniana col suo arpeggio orientale, le riprese operistiche da Sol Levante e le citazioni
morriconiane del finale. La cantata per
pattern di piano/basso e batteria metronomica "The Party" si produce in un ritornello ululato da brivido, poi ripreso in coro nella chiusa bandistica, mentre il balletto onirico-psichedelico di "Just The Same But Brand New" suggella degnamente un'opera da applausi prima che il neoclassicismo di matrice folk di "The Sequel" cali il sipario.
Actor incorona la cantautrice di Tulsa con un successo di critica e pubblico di dimensioni ragguardevoli (ne fa fede anche il novantesimo posto a Billboard), considerata l'estrazione
indie e l'estrema ricercatezza della sua proposta musicale.
Dopo aver ribadito tutte le potenzialità e gli enormi margini espressivi del debutto
Marry Me con il successivo
Actor, St. Vincent completa un’ideale trilogia con
Strange Mercy (2011), opera che risente fortemente dell'impronta del suo predecessore, ma sottolinea ancora di più il contrasto tra l'architettura pop barocca e
broadwayana e il substrato
arty e post-punk, sia nella scrittura che negli arrangiamenti. Accompagnata da musicisti di grande levatura come Bobby Sparks (moog, clavinet, wurlitzer), il batterista dei
Midlake Mackenzie Smith, il violinista Daniel Hart, il tastierista Brian LeBarton (già alla corte di
Beck), la Clark pone l'accento sui valori di produzione (i suoni più elaborati, sintetici, stratificati, la voce spesso rarefatta e schermata), sempre affidata a John Congleton, e sull'incidenza delle chitarre, in un tripudio di effetti e distorsioni che non scade mai nel gratuito, e dei contrappunti elettronici (
groove,
beat,
drum machine).
L'originalità dei brani e la qualità degli spunti di melodici, d'altronde, sembrano ancora una volta perfettamente in grado di reggere l'ambizioso lavoro sulla sovrastruttura. Come chiarisce subito l'
opener "Chloe In The Afternoon", a tratti
bjorkiana nel giocare sulle dissonanze fra il cantato acuto, le chitarre spigolose, i
pattern di synth e i battiti irregolari. Sui
groove elettronici puntano forte anche "Cruel", con un giro quasi
disco-wave su cui la Clark cesella flautata e solenne nel ritornello, e "Historical Strenght" nel suo palpitante barocchismo sintetico. Viceversa, l'uso sperimentale delle chitarre la fa da padrone in "Northern Lights" (scabre e asperse di ruggine prima del crescendo finale) e nella bellissima "Surgeon", coi melismi della prima parte, ariosa e melodica, che si fa via via più febbricitante fino a incendiarsi nella coda stordente e allucinata, quasi
krauta.
E se "Cheerleader" alterna l'amarezza impalpabile della strofa con gli staccati falcianti del ritornello, "Neutered Fruit" si distende su un
mood simil-
lounge/downtempo, vivacizzato da fantasmagorie vocali e strie corali. Sul versante più classicheggiante fanno bella mostra di sé brani come la
title track crepuscolare e sussurrata (a parte gli equilibrismi del
chorus), la chitarra liquida e notturna, la
drum machine che punteggia, il romanticismo elegiaco di "Champagne Year", attraversata da cortine di moog e rivoli di
bleep elettronici, "Dilettante" che comincia come un'aria alla Andrew Lloyd Webber e viene poi straniata e perturbata dalla ritmica minimale e dalle chitarre sature, la teatralità orientale e le evanescenze orchestrali di "Year Of The Tiger".
Con
Strange Mercy, St. Vincent conferma lo spessore della sua ricerca musicale e una costante maturazione dal punto di vista della composizione, anche se, pur in un quadro complessivo di grande apprezzamento, col passare del tempo (e degli ascolti) emerge un po' di nostalgia per la freschezza obliqua e un po' naif degli esordi. In ogni caso, l’opera terza diventa anche il maggiore successo della cantautrice americana, proiettandola al 19° posto della classifica Billboard 200 negli Stati Uniti.
Amore per il Gigante
Forte di questo rinnovato successo, Annie Clark intraprende una collaborazione con con
Andrew Bird nel suo album solista “
Break It Yourself”, cantando in “Lusitania”. Ma il vero colpo grosso arriva qualche mese dopo, quando sua maestà
David Byrne la invita addirittura a realizzare un album in coppia. L’ex-leader dei
Talking Heads non è un vecchio matusalemme, perso nella riproduzione goffa di un passato glorioso. Artista empatico, genio nevrotico, uomo curioso, canuto e tonico sessantenne, piuttosto che riciclare e restaurare i fasti della
new wave - nello specifico di quel seducente
white funk degli anni che furono - studia, si guarda intorno, gira in bici, cerca nuovi sodali e sperimenta diverse combinazioni. Affascinato dalla world music, dispensatore di buoni consigli dal suo stuzzicante
canale radio, nelle cui
playlist è facile imbattersi in una giostra internazionale, che zigzaga tra
Caetano Veloso,
Bjork e L’orchestra di Piazza Vittorio, non si fa problemi a collaborare con le nuove e meno nuove, lucenti leve. Così dopo
Fatboy Slim, intravede la partner ideale proprio in Annie Clark, bella, colta e intraprendente stellina pop conosciuta tre anni fa a New York, in occasione di un concerto benefico. La ragazza – già, a sua insaputa, notata in alcuni
live - è rapita dal magnetismo
byrneiano, patinata e competente, scanzonata e motivata quel che basta per fare da contraltare e rinfrescare il nuovo esperimento.
Il 14 giugno 2012 esce così “Who”, primo singolo che anticipa la collaborazione sulla lunga distanza e che, sin dai fiati d’apertura, denuncia lo spirito ludicamente funk dell’operazione. Incontro fortuito su una strada della provincia newyorkese – come nel divertente video promozionale, corredato da
byrneiane ed esilaranti danze – il brano è, liricamente, un interrogarsi sulla possibile empatia di un incontro fortuito, in un riavvolgersi del nastro alle “Little Creatures” di oltre venticinque anni prima.
Love This Giant (2012) viene pubblicato l'11 settembre seguente. “The threat of natural disaster promises an emotional epiphany; urban apocalypse gives way to a garden party”, recano le note stampa, confermando la coerenza a sé di Byrne, che della nevrosi metropolitana, guardata da un punto di vista creativo, ha sempre fatto uno degli spunti più interessanti di molta sua produzione.
Sassofono, trombone e corno francese proseguono il discorso del singolo in “Dinner For Two”. Il gusto dello sperimentare qualsiasi tipo di sostanza sonora non lascia da parte nemmeno il gospel, come nell’
intro di “I’m An Ape”, mentre, in un altro momento, non si rinuncia al gusto di una
pop-wave moderatamente sincopata, come in “Lazarus”, altro episodio a due voci, tra i più riusciti dell’album.
Nella fedeltà a sé, David Byrne non scorda d’essere amante devoto della world music, tanto da aver fondato la Luaka Bop, deliziosa etichetta di diverse latinerie; l’omaggio è reso nella iper-luminosa e lussureggiante “The One Who Broke Your Heart”, che, in un gioco provocatorio - assecondato dall’ospitata di
Antibalas e
The Dap Kings, direttamente da casa Daptone - sarebbe credibile, tra le
bonus track di un’edizione
remastered di “Rei Momo”. La chiosa è un adorabile lieto fine romanticamente futurista, una ballata per solo David, che non esita a mostrare con orgoglio i segni di una splendida maturità, distante dall’antico nichilismo e dal vertiginoso amore per il cinismo (“Outside Of Space & Time”).
Annie Clark, che co-firma le liriche e suona diversi strumenti, si ritaglia il giusto spazio uscendo più che dignitosamente dal confronto con il maestro. I riferimenti, ancora una volta, sono diversi e non pedissequamente ricalcati, ma semplicemente personalizzati; tra tutti, la Bjork più leggera (“Weekend In Dust”) e, nell’uso della voce, nei primi quaranta secondi di “Ice Age”, l’incarnato pallido ed elegante di
Laurie Anderson. Una deliziosa e interessante vestale, dunque, alla corte di un magnifico gigante da amare.
Il colpo del ko
Il percorso fin qui quasi immacolato di Annie Clarke rischiava però di diventare un imprendibile miraggio nel deserto, pronto a dissolversi al primo passo falso. Con i detrattori pronti a rimarcare una prima (parziale) battuta d'arresto nel terzo capitolo solista, a frenare una salita in apparenza inarrestabile, e
quell'amore per il gigante a essersi tramutato più in un fascinoso timore reverenziale che in reale sinergia creativa. E dopo le fugaci ombre seguite alla scoppiettante danza funk in compagnia di cotanta testa parlante, via a parlare di
droghe russe e
spazzatura varia sopra aggressive sfuriate di chitarra, come se tutta l'urgenza faticosamente repressa nelle più sofisticate atmosfere di
Strange Mercy volesse uscire fuori tutta insieme, senza dare il tempo di pensare ai perché e ai come del caso. Ma con Annie Clark, niente può essere davvero dato per scontato, e lo scatto felino arriva quando meno te lo aspetti.
Così il 18 novembre 2013, l’enigmatica St. Vincent annuncia un tour europeo per il 2014, mentre il giorno successivo la Republic Records rivela trionfante di averla ingaggiata. Ed è proprio con l’etichetta discografica americana di proprietà di Universal Music Group che esce quello che, per molte ragioni, si può considerare il capolavoro – o quantomeno il disco della consacrazione definitiva - di St. Vincent. Ed è quasi profetico, che al varco del capitolo più determinante della propria carriera, oltre all'impressionante cambio di look, perfetta strega post-moderna con i capelli di zucchero filato, la scelta del titolo ricada sul proprio
nom-de-plume, senza ulteriori aggiunte:
St. Vincent (2014). Come a voler rimarcare che sì, finora aveva un po' giocato, si era divertita a calarsi anche in altri ruoli, ma che la vera anima di Annie Clark è qui, spalmata su tutta la lunghezza di undici canzoni pronte a essere suonate ancora e ancora.
Equilibrio: ruota tutto attorno a questo termine, nell'ultima fatica dell'ex-membro del
Polyphonic Spree. Un equilibrio raggiunto soltanto in parte, nel corso dei precedenti lavori, dove spesso la tendenza a strafare, a riversare tutto il suo straordinario talento senza grossi bilanciamenti, finiva con il pregiudicare scalette di notevole valore. Qui invece ogni cosa partecipa alla realizzazione di un progetto pienamente unitario, l'abbondanza di voci in capitolo non compromette minimamente la densità, ma soprattutto l'intensità dell'insieme. Ed è quasi sorprendente, che l'elemento collante, al netto delle peculiarità di ogni singolo brano, sia proprio la sezione ritmica, quell'apparato percussivo che due anni prima aveva finito un po' per compromettere il carisma interpretativo della Clark.
Con il rientro in pista di quelle chitarre taglienti, profonde come bassi, che avevano fatto la vera fortuna di
Actor, l'aver appreso la lezione funk di
Love This Giant e averla adattata alle proprie esigenze si rivela un'autentica conquista per le canzoni, il rischio da correre per consentire loro un ulteriore balzo di qualità. Ma di rischi, la Nostra, ne ha sempre corsi, consapevolmente: epperò vederla così a suo agio, tra
drum-machine ed effettistica varia, tra le cadenze soft-r&b dell'incantevole “Prince Johnny” (brano di grande delicatezza, sorretto da un etereo tappeto di tastiera dal trasporto quasi corale) e il tripudio per ottoni di “Digital Witness”, arguta critica ai
social network e quanto vi gravita attorno (“Digital witnesses, what's the point of even sleeping, if I can't show it you can't see me, what's the point of doing anything?”), fa comunque la sua notevole impressione, tanto più che il loro uso non è mirato per una volta a intrepidi giochi di contrasto (ce li ricordiamo tutti, gli scatti bipolari di una “Marrow”), ma a sottolineare il potente afflato pop delle canzoni.
Da sempre il mondo di Annie ha orbitato attorno ai costrutti del linguaggio
popular, in misura minore o maggiore a seconda dell'ispirazione e del momento. A questo ennesimo giro di rivoluzione, qualcosa però non ha ben funzionato, e la rotta del satellite ha preso la via di una collisione irreversibile, dritta verso il centro di gravità di questa coloratissima galassia. Meglio così, vien da dire: con la brillante e fresca produzione di John Congleton (già al lavoro con lei su “Strange Mercy”), e col supporto di due batteristi d'eccezione quali Homer Steinweiss (alla corte di Sua Maestà
Sharon Jones) e McKenzie Smith dei
Midlake, la scrittura della cantautrice di Tulsa individua un'immediatezza e una verve esemplari, gestite senza cali con una fantasia degna dei suoi miti
disneyani.
I momenti clou, i passaggi topici, i ritornelli
killer si sprecano: dai synth saltarelli di “Rattlesnake” (eccellente il
refrain in rincorsa, calato perfettamente nell'atmosfera adrenalinica del testo, con Annie in fuga da un serpente velenoso), all'
aplomb da raffinata
soul-woman della conclusiva “Severed Crossed Fingers” (quasi un incitare se stessa ad andare avanti nonostante le difficoltà della vita da musicista), non vi è pezzo che non offra il proprio fianco al ricordo, aspetto compositivo che sia privo di interesse. Eccola cedere alla seduzione di un
pad d'archi degno di una
Sinéad O'Connor e tirarci su un lento accorato quale “I Prefer Your Love”, intima melodia dedicata alla madre, di diritto tra i suoi pezzi più struggenti in assoluto. Eccola poi, con
savoir faire di scuola
Prince, imbracciare la chitarra e scandire con scatti rabbiosi i saliscendi vocali di “Birth In Reverse”, prima che il tutto si risolva in una svalvolata coda strumentale in accelerando, a richiamare i fasti di una “Surgeon”.
C'è anche spazio per stravaganti corto-circuiti testimoni di un passato che ancora scalpita (l'electro-blues “Bring Me Your Loves”, che con
PJ Harvey condivide giusto l'assonanza nel titolo), e addirittura inaspettati colpi da maestro in scia
progressive (“Huey Newton” e dinamico crescendo funk a metà lunghezza): il tutto, garantendo sempre una mirabile leggerezza di tocco, risolvendo la complessità strutturale di questi quadretti con una pulizia melodica da fuoriclasse.
Al suo quarto disco in solitaria, Annie Clark entra finalmente di diritto nel gotha dei grandissimi, gettando idealmente un guanto a chi volesse raccogliere la sfida.
Seduzione di massa in tre atti
Passa quindi un triennio segnato da una pausa nelle uscite discografiche. Annie Clark nel frattempo si concede alcune esibizioni-cult – come quando, nella notte del 10 aprile 2014, quando i
Nirvana vengono inseriti nella Rock and Roll Hall of Fame, si esibisce sul palco in una versione di “
Lithium” – e affronta un mini-tour statunitense con
The Black Keys. Collabora, inoltre, in diverse tracce dell'album “
To Be Kind” degli
Swans (2014) e appare anche al fianco dei
Chemical Brothers in “
Born In The Echoes” (2015), a conferma della sua onnivora voracità musicale. Nel 2015, conquista anche un premio ai Grammy Awards per il suo disco omonimo nella categoria "Best Alternative Music Album". In più, mettiamoci un cortometraggio horror, il flirt da parte dei tabloid per le chiacchierate frequentazioni con Cara Delevingne e Kristen Stewart, il conseguente accesso a una platea e a potenzialità che ai tempi degli esordi parevano totalmente fuori dalla sua portata.
Resta però l’enigma di fondo: chi è la sfuggente protagonista di queste prospettive oblique, di approcci tutt'altro che ortodossi nel raccontare e nel comporre? Il dubbio resta irrisolto e mai come in
Masseduction (2017), quinto album solista, il gioco si è fatto così sfacciato ed evidente. Registrato principalmente presso gli Electric Lady Studios di Manhattan, con ospiti quali
Kamasi Washington, Jenny Lewis, Greg Leisz, Mike Elizondo e Tuck & Patti, il nuovo lavoro di St. Vincent spiazza ancora. Saltabeccando con agilità tra assurdo e concreto (un po' come il controverso fondoschiena immortalato in copertina), tra appoggi alla realtà e immaginazione, Clark concepisce un ciclo di narrazioni in cui la componente personale, stavolta più intensa e pressante che mai (parla lei stessa di un album in prima persona), si trasfigura e si disperde in un mare di direzioni diverse (non è un caso che per la prima volta non sia il suo volto a ornare la
cover dell'album), tenendo fede però all'ironia e all'estro che ne hanno sempre caratterizzato le pubblicazioni fino a questo momento. Chi si affretta subito a vedere nel nuovo progetto una sorta di conversione senza resistenze ai meccanismi
mainstream contemporanei, però, dovrà ricredersi.
In effetti, i tredici brani dell'album non tardano a manifestare il loro desiderio di suonare più potenti e vibranti che mai, di ambire a una considerazione su vasta scala. Indubbiamente lo sforzo promozionale speso per il lavoro, il reclutamento alla causa di
Jack Antonoff dei Fun., tra i produttori più in vista del momento (
Lorde,
Taylor Swift), i video, dalla cura certosina e dalla costruzione elaborata, compongono una sintomatologia di un profilo artistico che può disporre di mezzi ben più sostanziosi e quindi sfruttarne il peso per avviare una comunicazione a più ampio spettro. Eppure, non c'è segnale di compromesso, di svendita al miglior offerente: al centro del dialogo rimane sempre lei, Annie Clark, con la sua voce pronta a sommergerti in un mare di ironia, i suoi testi a cavallo tra il morboso e l'aulico, quella chitarra sgranata e rumorosa che tanto ha fatto discutere i maniaci della sei corde di mezzo mondo, le sue filastrocche dalla struttura imprendibile. A variare semmai, come al solito, è il vestito sonoro, il corredo di arrangiamenti attraverso cui aggiustare la traiettoria.
Sempre più a contatto col funk, traslato però nella chiave sintetica tanto cara al
Prince anni 90 (riflesse nell'estetica al neon e nelle cromie sature dell'
artwork), con stoccate
glam di grande classe, il nuovo album vede St. Vincent in una veste elettronica come mai prima d'ora, aggiornando un'estetica ormai definita sotto ogni aspetto alla luce di
beat pulsanti e
pattern electro dei più disparati, esplicitando dinamiche dance già presenti in prove passate.
"Sugarboy", con la sua costruzione ritmica stracolma di dinamismo e quella rincorsa sintetica che tanto ricorda la
Donna Summer prodotta da
Moroder, si erge in questo senso al paradigma del nuovo corso di Clark. Se è vero che non mancano i momenti di maggiore distensione melodica, riflessi nelle notevoli ballate che ornano il lavoro (il melodramma di "Happy Birthday, Johnny", tra gli episodi più strazianti del suo repertorio, le improvvise variazioni di timbro che interessano "Smoking Section", sorta di dedica alle eroine al pianoforte degli
anni Novanta), è a partire dalla grinta a rotta di collo di questo brano che si inquadra con lucidità tutta l'energia, la voglia di massimalismo della musicista, che non risparmia per l'occasione botta e risposta in chiave corale, un'algida sensualità interpretativa e momenti in cui plasmare la propria chitarra, a simulare quasi un'orchestra di ottoni.
Se è vero che talvolta il manto sonoro finisce col costruire i pezzi, non sempre straordinari dal punto di vista della scrittura ("Pills", in particolare, spaccato ricco di auto-sarcasmo sulla dipendenza da psicofarmaci, nonostante l'inattesa apertura sul finale e la coerente cornice electro-glam, insiste troppo su un modulo alquanto trito e infantile) nondimeno accentua la potenza dei tanti episodi degni di nota, soprattutto di quell'ambivalenza espressiva che accorpa in un eccitante
unicum sensualità e distacco, dolore ed effervescenza.
I singoli di lancio non si sono insomma rivelati fuorvianti. Da una parte "Los Ageless" parla dell'alienazione e della voglia di evasione dai meccanismi fagocitanti della megalopoli attraverso un congegno compositivo curato al millesimo di secondo, in cui l'elettronica si sposa alla perfezione con le chitarre, al contempo sexy e vicine ai momenti più noise della sua carriera, dall'altra "New York" invece opta per un tiro più morbido, in una sorta di aggiornamento in chiave
ballad dello stile favolistico degli esordi, lasciando che i contrasti si risolvano nel testo, in cui il rimpianto e l'abbandono si fanno ben presenti (possibile riferimento alla ex Delevingne?).
In questo andirivieni tra
glamour e tristezza, tra sfacciataggine e voglia di eversione (la
title track, per l'appunto un seducente e modernissimo saggio glam-funk, esplicita la cosa senza troppi giri di parole), St. Vincent ha insomma individuato, anche con l'aiuto delle sue vicissitudini nella vita, quale forse il nuovo corso da dare alla propria carriera e come approcciarlo al meglio sotto ogni aspetto, mantenendo intatto un baricentro artistico e uno standard qualitativo che vantano attualmente ben pochi eguali. Solo di rado raccontarsi si è rivelato così intrigante.
Alla pubblicazione di
Masseduction segue un’altra mossa spiazzante da parte dell’artista americana. Avete presente “
1989” di
Taylor Swift interamente rielaborato in acustico da quel mattacchione di
Ryan Adams? Ebbene, con
MassEducation siamo dinanzi a un’operazione simile, con la netta differenza che Anne Clark ha fatto tutto da sola, rivisitando a distanza di un anno il suo
album precedente con la consapevolezza della cantautrice navigata, improvvisamente colta da un impeto di sottile intimismo autoriale. Chi non aveva apprezzato le eccessive laccature di un album dalle tinte forti, sintetico e fin troppo glam(our), può così consolarsi con le medesime tredici canzoni totalmente stravolte in una chiave del tutto nuova. Per l'occasione, la Clark si traveste da
Carole King, chiamando a sé il fidato cantante, pianista e produttore Thomas Bartlett,
aka Doveman, uno che ha lavorato con
Sufjan Stevens,
Glen Hansard,
Nico Muhly,
National,
Sam Amidon,
Rhye,
The Gloaming, e
Martha Wainwright, giusto per citarne alcuni.
Un incastro perfetto, quello tra St. Vincent e Bartlett; piano e voce giacciono costantemente sul medesimo filo, oscillando tra bassi e alti, improvvise variazioni alla stregua di un musical
broadwayano, pause dimesse, palesando così una profondità effettivamente poco avvertita nel lavoro originale, al di là dei testi al solito provocanti e mai banali. Anne Clark si dimostra fin dalle prime note un’interprete da Novanta, munita di un’ugola ferma e sinuosa al tempo stesso, perfettamente consapevole della propria estensione.
Esce quindi allo scoperto tutto il talento canoro della musicista di Tulsa, ed è davvero un gran bel sentire. Talvolta, i brani quasi non si riconoscono e salta fuori un’inclinazione allo stravolgimento che tanto ricorda quello della
Marshall ai (bei) tempi di “The Covers Record”. Prendiamo ad esempio “Young Lover”, canzone che trae nuovo giovamento privata così com’è del suo battito e della sua originaria esplosione in salsa
wave. Un riadattamento che porta alla ribalta una luce nascosta, un’intensità melodica d’altri tempi. Stesso dicasi per “Feart The Future” e “Los Ageless”, che sembrano uscite da un disco di
Rickie Lee Jones. Meno eclatante è al contrario la rilettura di “Happy Birthday, Johnny”,
ballad già estremamente carezzevole e scarna nella sua prima versione. Mentre la conclusiva “Hang Me”, ripulita a dovere della sua veste sintetica, acquista ulteriore spessore, fungendo da esempio perfetto di quanto constatato poc’anzi.
St. Vincent dimostra ancora una volta il proprio immenso talento, veicolandolo tra le pieghe di un’introspezione vibrante.
MassEducation ribalta la prospettiva, così come appare ben chiaro fin dalla foto in copertina, emblematica circa la volontà della Clark di raccontare e raccontarsi senza gli orpelli e i trucchetti del mestiere, mettendo definitivamente a nudo il proprio spessore artistico in tutta la sua grazia.
A proposito di
Taylor Swift: ad agosto del 2019 la superstar americana pubblica uno dei suoi album di maggior successo, "
Lover", dentro il quale è contenuta "Cruel Summer", fra i suoi
brani più acclamati. Ebbene, St. Vincent è co-autrice di "Cruel Summer", che diventerà una vera e propria
hit soltanto qualche anno più tardi, quando verrà scelta come brano simbolo del gigantesco
Eras Tour e, pubblicata come singolo nel 2023, non solo raggiungerà la vetta delle classifiche in mezzo mondo, ma diventerà anche la canzone in assoluto più ascoltata in streaming della Swift, strappando lo scettro a "Blank Space". Un ottimo investimento...
Ma non finisce qui, la saga di
Masseduction. Perché ci si mette anche
Nina Kraviz: l'affascinante e celebrata
disc jockey, produttrice discografica e cantante russa chiede, infatti, a dj e
producer di fama mondiale di cucire una nuova veste per le tracce del disco di St. Vincent, premiato nel frattempo con due Grammy Award. Si chiude così in maniera definitiva il cerchio su queste canzoni, che ora possiamo affermare di aver ascoltato in tutte le trasmutazioni possibili: dalle versioni nude e minimali per soli voce e pianoforte raccolte nel narcotico
MassEducation, prossime a come erano state concepite dall’autrice, a quelle arrangiate per l’album ufficiale, sino a queste nuove propulsioni che regalano ulteriori opportunità ad ognuna di loro, conducendole verso sentieri che in fase di scrittura St. Vincent avrebbe solo lontanamente potuto immaginare.
Alcuni
producer eseguono un trattamento che lascia le tracce allo stato strumentale (scelta ad esempio intrapresa da Batu sull’iniziale “Hang On Me”), altri giocano sul campionamento di poche frasi (Bjarki su “Pills”), altri ancora su rallentamenti e ripartenze (Hieroglyphic Being su “Sugarboy”). Altrove si resta più aderenti al formato canzone (EOD su “Los Ageless” e “Slow Disco”, Fred P su “Happy Birthday, Johnny”), mantenendo un minutaggio radiofonicamente più contenuto, pur discostandosi sempre in maniera netta dagli originali. Non di rado si punta sul gusto per la ripetizione (Roma Zuckerman su “Young Lover” esegue un ottimo lavoro, così come la Kraviz su “Slow Disco”).
Alcune manipolazioni si dimostrano particolarmente aggressive (Buttechno su “Savior” e PTU su “Fear The Future”), altre più atmosferiche (la “Sugarboy” rivista da Emika, “Dancing With A Ghost” a cura di Pearson Sound), e in alcuni casi ritorna persino alla mente il vogueing dei primi anni 90 (l’ottima prestazione di Midland sulla
title track, la terza versione di “New York” firmata da Nina Kraviz). Da sottolineare la presenza di
Laurel Halo (pregevole il suo intervento su “Young Lover”) e la chiusura affidata alla ballabilissima “Fast Slow Disco” (sulla falsariga delle hit di Robyn), brano non compreso nella
tracklist originale ma pubblicato successivamente solo su singolo.
La sequenza resta quella dell’album originale, le tracce più manipolate sono risultate “Pills” e “New York”, con tre remix cadauna, i
producer più attivi sono stati la stessa Nina Kraviz (protagonista in quattro occasioni), EOD e PTU (due a testa). Se qualche passaggio si dimostra prescindibile (trascurabili paiono in particolare le due versioni di “Smoking Section”, ad opera di Jlin e Mala), alla Kraviz va il plauso per essere riuscita a mettere in fila ben 22 diversi punti di vista su
Masseduction, anche se è chiaro che sarebbe stato per chiunque difficile dire di no a un’operazione tanto importante e visibile.
Papà è tornato a casa
Papà è tornato a casa. Si è fatto quasi dieci anni di prigione, ha scontato la pena, adesso è pronto per tornare ad abbracciare il mondo. E portarsi dietro un ricchissimo sostrato di ricordi, di memorie a cui lasciarsi andare, come quando da bambini ci si aggrappa alla vestaglia di mamma. Vive tutto nella rievocazione,
Daddy's Home (2021), il nuovo album di St. Vincent che esce dopo una pausa di quasi 4 anni. È l'occasione per Annie Clark di parlare di sé senza cadere nella stucchevolezza, e allo stesso omaggiare la figura paterna calandosi pienamente negli
anni Settanta newyorkesi (quelli amati e vissuti dal padre), nella decadenza alla
Cassavetes di una città che ormai non esiste più. È un tuffo nel passato raccontato, nel quale calarsi con un senso della mimesi ormai connaturato all'esperta autrice, che attua una nuova reinvenzione calandosi in un contesto mai così
soulful e pacificato, quasi come se le geometrie chitarristiche dei precedenti album appartenessero a tutt'altra musicista. Adesso è giunta l'ora di spostare le lancette di cinquant'anni addietro.
Parrucca bionda, look che avrebbero potuto finire in un “Chungking Express”, un'attitudine debosciata: la presentazione non potrebbe essere più fedele, ma è lo stesso contesto che ne complimenta l'immagine: di contemporaneo, nei solchi dell'album, non si trova nulla, e il funk elettrico che aveva permeato le sue ultime prove si piega alle esigenze di arrangiamenti caldi, pastosi, pienamente rispettosi della capsula del tempo in cui si trovano inseriti. Anche le chitarre, solitamente ben più ronzanti e roboanti, qui scoprono una morbidezza e una rilassatezza inedite, sanno viaggiare di pari passo col sitar (vero e proprio co-protagonista del disco), con tastiere espansive quanto
mellotron, finanche un impianto corale di lusso. Di certo tra gli spigoli di un
Masseduction e il taglio ben più roboante dell'
album omonimo era impossibile trovare una simile riflessività, un abbandono di ogni effettiva pretesa ritmica per spostare invece il focus su una morbidezza, una raffinatezza di tratto che la produzione di Jack Antonoff sa come accudire.
Sotto questo aspetto, le interpretazioni di Clark sono tra le sue più intense da un decennio a questa parte, vengono esaltate da un calore che rispecchia pienamente il contenuto personale dei testi. Se in essi il padre viene menzionato di striscio, è l'occasione per tirare fuori una vulnerabilità inedita. Si passa dalle effusioni psych-soul di “The Melting Of The Sun”, turno di omaggi a grandi personalità del cinema e della musica, in cui rispecchiarsi e trovare alleanza (da Marilyn Monroe a
Tori Amos), alla sensualità sorniona del singolo “Pay Your Way In Pain”, che punge di dolore anche la più piccola gioia. E se “Down” parla di violenza relazionale con un nerbo che incrocia
Sly Stone e
Prince, “Down And Out Downtown” firma il momento più commovente e appassionato, con un'attitudine “floreale” che reca impressi gli anni 70 nel cuore. È un peccato che simili momenti, mozzafiato se presi in maniera isolata, finiscano col disperdersi in un disco che non fa delle melodie il suo baricentro e che “spreca” il potenziale di una caratterizzazione così ben strutturata impantandosi in canzoni davvero sedute.
Un motivo dagli innuendo
country-soul quale “The Laughing Man” dissolve l'ambizioso abbandono lirico in un flusso sonnacchioso, che comunica molto poco del senso di rinuncia del testo (problema che affligge anche la pur elegante attitudine alla Minnie Riperton di “Somebody Like Me”). Ed è davvero troppo breve la dedica a Candy Darling, la musa di Andy Warhol e
Lou Reed, nonché colonna tematica dell'album: nel rappresentare un momento cardine del contesto
queer dell'epoca, la sua figura avrebbe potuto avvalersi di qualcosa di più di un minuto e mezzo.
Peccati veniali? Forse, perché Annie Clark si rinnova con la naturalezza di un camaleonte e sa come affrontare ogni svolta con tutta la credibilità necessaria. Ma quando la facilità di penna manca, il cambiamento arriva con qualche fastidio di troppo.
(Ri)nascere urlandoSegue una nuova pausa di un triennio. Nel frattempo, St. Vincent interpreta una cover di “
Glory Box” dei
Portishead insieme a
The Roots al Tonight Show, realizza un’altra cover, di “Young Americans” di
David Bowie per l'organizzazione benefica Love Rocks NYC e canta “
Running Up That Hill” per introdurre
Kate Bush nella
Rock and Roll Hall of Fame.
Il suo nuovo, attesissimo album in studio,
All Born Screaming (2024), esce su Virgin ed è annunciato da Annie come “duro, oscuro, urgente, psicotico”, perché "ci sono alcuni posti, dentro di noi, che possiamo raggiungere solo se attraversiamo il bosco da soli, per scoprire quello che il nostro cuore ha da dire. Suona reale perché è reale”. Del resto, arriva sempre per ogni trasformista il momento in cui è necessario riporre costumi e maschere e presentarsi nudi di fronte al pubblico, l'essenza dietro all'artificio. Non che si arrivi a estremi simili, ma dopo un decennio speso a elaborare
concept sempre più complessi, Annie Clark getta via ogni travestimento e torna a essere sé stessa. Tornando all'urlo creativo, alla forza primordiale di un cantautorato obliquo ma irresistibile, quello che in
Marry Me lasciò subito intravedere tutto il carattere di una delle principali interpreti dell'ultimo ventennio di indie statunitense.
Per la prima volta in carica della produzione di un suo lavoro, in
All Born Screaming l'artista di Tulsa sfilaccia gli stretti legami estetici delle sue ultime prove e riscopre il potere bruciante della libertà, lasciando che sia l'emozione, la forza delle sue esperienze, a prevalere su ogni altro aspetto. È un'attesa boccata d'ossigeno, per quanto respirata con non poco dolore. In mezzo al nero più fondo, St. Vincent brucia, in preda a fiamme che divorano le sue braccia: non poteva esserci immagine più adatta, rappresentazione più icastica di un lavoro senz'altro disinvolto, contrassegnato però da un'aura mortifera, da un senso di minaccia incombente pronto ad abbattersi su ogni singolo brano. Non è quindi un caso che "Hell Is Near" sia l'invito, il passaggio obbligato da cui accedere nel nuovo universo firmato Annie Clark. Con un taglio melodico che pare avviarsi sulla scia di
Enya, la musicista fa presto a disperdere l'andamento serafico in un bagno di rimpianto e amarezza, la perdita a concretizzarsi in un vaso di calendule. Con una struttura a fasi, dominata dapprima da basso e una dodici corde
byrdsiana, successivamente dai synth e dal pianoforte, il brano forza la penna di Clark verso una direzione di desolato abbandono, una tragica sincerità che la successiva "Reckless" offre a dose raddoppiata. Dapprima concepita come marcia funebre, un commovente requiem imbevuto di ricordi, la canzone deflagra in una rabbiosa coda sintetica, furia
sludgy che denota il più totale smarrimento.
Un simile dinamismo, che sia intra- o inter-canzone, aleggia lungo tutto l'arco dell'ascolto; in un disco che sfrutta finalmente l'esperienza chitarristica di Clark come non avveniva dai tempi di
Strange Mercy, l'effetto è quello di un ottovolante nei meandri del torbido, ammorbidito però da una compassione che ha del rincuorante. Sensuale in apertura, riottosa nell'evoluzione, "Broken Man" si avvale della competenza alla batteria di
Dave Grohl (compare anche nella successiva "Flea", l'amore visto come un'inevitabile infezione) e tira fuori una scarica adrenalinica dalle tinte industriali, un personale omaggio al rock
anni 90, vulnerabile quanto basta per crepare la coriacea scorza dell'arrangiamento. Il passo funky di "Big Time Nothing", sviluppato su una base che prende da vicino "Army Of Me" di
Björk, frulla l'
esperienza con
David Byrne in un prisma schizoide e coinvolgente (qualcuno ha detto
Foetus?), capace di sputare fuori tutta la tragica alienazione dell'individuo contemporaneo. Che sia così ipnotica nel suo snocciolare divieti come fossero i dieci comandamenti, depone soltanto a suo favore.
E non finisce di certo qui. "Violent Times" sfrutta il celebre motivo
bondiano di "Goldfinger" incanalandolo in un serrato alveo meccanico; nel mentre Clark abbonda nei manierismi vocali, scopre la sua
Shirley Bassey interiore giocando sull'onda di un dramma che pare montare e montare. È solo l'antipasto di un lato B che riflette su morti reali (la sfortunata dedica a
SOPHIE in "Sweetest Fruit", già fonte di polemiche e di accuse da parte dei fan più accaniti della
producer) e apocalissi eventuali (la metropolitana del terrore di "The Power's Out") senza parsimonia emotiva, sul filo di un abisso a cui diventa impossibile sottrarsi.
Superando l'inspiegabile siparietto reggae di "So Many Planets", unica nota davvero stonata della raccolta, ha perfettamente senso che la chiusura venga affidata alla
title track. In compagnia di
Cate Le Bon, che qui si propone anche come bassista, ribadisce la struttura bipartita dell'inferno introduttivo e chiude il cerchio con un ostinato corale che interrompe bruscamente la gioviale atmosfera
wave iniziale.
Come se l'urlo fosse una condanna e allo stesso tempo il conforto, St. Vincent suggella il suo ultimo progetto senza reali soluzioni, dimostrando però che sotto i costumi pulsa un cuore che non ha paura di presentarsi in tutta la sua complicata umanità. Tanto può bastare.
Contributi di Gianfranco Marmoro ("Marry Me"), Mimma Schirosi ("Love This Giant"), Giuliano Delli Paoli ("MassEducation") e Claudio Lancia ("Nina Kraviz Presents MASSEDUCTION Rewired")