Io sono una forza del passato
Solo nella tradizione è il mio amore
Vengo dai ruderi, dalle chiese
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appenini e sulle Pre Alpi
dove sono vissuti i fratelli
Giro per la Tuscolana come un pazzo
per l’Appia come un cane senza padrone
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo
come i primi atti del Dopostoria
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe
dall’orlo estremo di qualche età sepolta
Mostruoso chi è nato
dalle viscere di una donna morta
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più
(Pier Paolo Pasolini, “10 giugno”)
Tradizione e modernità, concetti antitetici che spesso evaporano in nebbie semantiche nelle quali sembrano essere forze cicliche costrette a rincorrersi in una corsa senza fine. Cosa c’è di prezioso nella storia di un paese, di una cultura, di un popolo? Cosa va conservato, sebbene paia anacronistico? Di cosa invece è bene sbarazzarsi come di un oggetto che è stato usurato dal tempo e non ha più utilità? Da cosa si può ancora imparare e cosa invece ha fatto il suo tempo?
Queste sono alcune domande che un gruppo di cinque musicisti con varie origini ma tutte riconducibili, per cultura o per anagrafe, all’Irlanda, ha scelto di far nascere nella mente di chiunque ascolti la loro musica, scevra come in poche altre occasioni da collocamenti temporali, e che perciò mira ambiziosamente a essere un qualcosa di eternamente conservabile, prendendo spunto da concetti saldamente radicati nella cultura di una terra meravigliosa e avvolta dal mistero.
La capacità di creare e conservare un folto pubblico anche al di fuori della propria terra natia basando le proprie composizioni su poesie in lingua gaelica (l’antica lingua tipica di alcune zone dell’Irlanda) e motivi e armonie che fanno parte da secoli dell’inconscio collettivo del proprio popolo costituisce una sorta di unicum nel panorama musicale contemporaneo, e i cinque musicisti hanno raggiunto questo traguardo riuscendo meravigliosamente a condensare il proprio profondo legame con le origini e un’attitudine alla musica “pop” nel senso più nobile del termine.
La storia dei Gloaming inizia molto prima di quanto le pubblicazioni discografiche possano indurre a pensare. È necessario, infatti, tornare indietro sino al 1993, quando un giovane ragazzo di 12 anni originario del Vermont si reca in vacanza in Irlanda con i propri genitori. Il personaggio in questione si chiama Thomas Bartlett, tra le altre cose studia pianoforte e ha una profonda passione per la musica tradizionale irlandese che lo porta, durante questa vacanza, a trascinare i propri genitori a diversi concerti di Martin Hayes, violinista originario dell’Irlanda occidentale spostatosi a Chicago da giovane per collaborare con vari progetti e che proprio nel 1993 ha pubblicato il primo album da solista, “Martin Hayes”. L’estrema fedeltà permetterà a Bartlett anche di conoscere lo stesso violinista irlandese e di ottenere da lui una data nel Vermont. All’epoca, però, nessuno dei due immagina che un normale incontro tra un musicista e un fan possa portare, diversi anni dopo, a una genesi che cambierà le vite di entrambi.
Il giovane Thomas dal Vermont si sposta poi a New York dove si fa pian piano strada come produttore lavorando con i nomi indie emergenti della scena della Big Apple, inclusi artisti che da lì a poco entreranno prepotentemente nel panorama mondiale, come The National e Sufjan Stevens.
Nel 2011, quasi vent’anni dopo il loro primo incontro, Martin Hayes sta costruendo un nuovo progetto musicale insieme al compagno di vecchia data Dennis Cahill (chitarra) e al cantante Iarla Ó Lionárd, e pensa a Thomas, con il quale nel frattempo è rimasto in contatto, per proporgli di entrare nel gruppo. Bartlett accetta entusiasta, aggiungendo il violinista Caoimhín Ó Raghallaigh e completando la formazione, che dopo qualche incertezza sceglie il nome The Gloaming.
La missione del gruppo è chiara e condivisa subito da tutti i membri: prendere spunto da composizioni e ritmiche tradizionali e legate alla terra irlandese, che i vari membri conoscono alla perfezione, donando ad esse una forma canzone in modo da renderle appetibili e fruibili al grande pubblico. Per i testi, Iarla si rifà quasi sempre a poesie in gaelico, siano esse canti tradizionali o composizioni più recenti e moderne (largo uso delle opere del poeta contemporaneo Liam Ó Murthuile). Le splendide copertine dei dischi, infine, vengono scelte tra i lavori del fotografo Robert Parke Harrison, e sono straordinarie nel riflettere perfettamente le atmosfere evocate dalla produzione musicale della band.
La commistione e l’affiatamento del gruppo sono subito eccellenti, tant’è che dalle prime jam session scaturisce in modo sorprendentemente naturale il disco d’esordio, The Gloaming, registrato durante l’estate del 2012 presso il Grouse Lodge, uno storico studio di registrazione nell’entroterra irlandese, e pubblicato il 20 gennaio del 2014 dalla Real World Records di Peter Gabriel, che stamperà poi tutti i loro dischi. La produzione è interamente nella mani di Thomas Bartlett.
È difficile spiegare a chi si approccia per la prima volta a questa musica che cosa rappresenti il sentire le prime note pizzicate di violino di “Song 44”. Difficile come ogni qualvolta si cerca di mettere in parole quella splendida sensazione che si prova di fronte a una scoperta mozzafiato, quando la novità di qualcosa di completamente imprevedibile si unisce alla soddisfazione del gusto che solo l’arte, di qualsiasi tipo o forma, riesce a dare. L’incipit di “Song 44” è questo: note di violino pizzicate nell’oscurità, una voce straordinariamente evocativa, in un linguaggio sconosciuto ma in qualche modo familiare. Uno strumento nuovo, del quale non si conosce né provenienza né caratteristiche. L’ingresso del pianoforte di Bartlett e del violino di Hayes ci proiettano nel mondo a cui stiamo per accedere: un’esistenza malinconica, liquida, travolgente nella propria semplicità. Un sogno dal quale dispiace profondamente svegliarci, proprio come quello descritto dalla poesia ottocentesca che Iarla proclama con forza e disperazione. La composizione è ciclica, formata da uno yin-yang tra il soffuso e l’orchestrale. La successiva “Alistrum’s March” ci presenta la seconda tipologia di struttura che caratterizza i dischi dei Gloaming: uno strumentale dove i ghirigori dei violini vengono sorretti dalle fondamenta del pianoforte di Bartlett. Gli strumentali che richiamano vecchie melodie celtiche e le ballad poetiche sono infatti una cifra stilistica tipica del supergruppo irlandese.
Poco più avanti, la melodia quasi pop di “Necklace Of Wrens” ci accompagna alla scoperta di un limerick del poeta novecentesco Michael Hartlett, proclamato con voce magnetica da Iarla, mentre in “Freedom” è il cantante a reggere l’intera traccia, questa volta estremamente intima e priva di quelle grandi aperture orchestrali che diverranno la stella polare della band. Il testo, adattato dalla poesia “Saoirse” di Sean Ó Riordáin, colpisce dove deve, e sottolinea un altro aspetto della band: far conoscere e apprezzare questi artisti che per motivi linguistici hanno avuto successo solamente nel proprio paese d’origine. Una riscoperta dell’Irlanda, in tutto e per tutto, insomma.
Nella seconda parte del disco prendono posto le due composizioni più ambiziose di questo esordio: “Old Bush” si distingue dalle altre tracce per un’atmosfera più oscura, quasi tenebrosa, nella quale Hayes dà sfogo all’anima più sperimentale del suo repertorio, con una melodia al limite dello stridulo. Accompagnata dalle note “gocciolanti” del pianoforte di Bartlett, la canzone si dipana in una toccante progressione roteante e inebriante, come in una contorta danza nel quale presto si perde il proprio senso dell’orientamento, ma dove altrettanto presto orientarsi diventa del tutto superfluo.
Questa passeggiata in un sentiero buio è solo il preludio al vero capolavoro di The Gloaming, ovvero i quasi 17 minuti di “Opening Set”, uno splendido mix esogeno di pezzi di bravura, dove ogni musicista ha uno spazio dedicato, e sebbene si tratti fondamentalmente di assoli, non vi è nulla di pleonastico. L’inizio rallentato e intimo di pianoforte, violino e voce (non ci si stancherà mai di ripetere quanto Ó Lionárd sia fondamentale per la buona riuscita di questi brani, con interpretazioni da lasciare senza fiato; in questo caso in particolare poi, la malinconia e la subdola disperazione che traspaiono dai versi sono disarmanti) viene presto sbalzato dalle peripezie del violino di Hayes, vero tratto caratteristico dello stile The Gloaming (così come il violino in generale è il cardine di tutta la musica tradizionale irlandese). Come è stato giustamente osservato, la progressione di “Opening Set” si protrae strato dopo strato, similare al procedimento adottato da un pittore nella composizione di un quadro. Una composizione a dir poco straordinaria, che abbastanza naturalmente ha nella propria versione live la sublimazione estrema (è facile reperire su internet video di versioni live davvero consigliate). La conclusiva “Samradh Samradh”, infine, ritorna alla forma ballad, suggellata dal violino di Hayes e da pochi accordi acquerellati del pianoforte di Thomas.
The Gloaming è un esordio meraviglioso, in cui l’incessante alternarsi tra vibranti tracce strumentali e centratissime melodie folk intrecciate alla letteratura compie il miracolo di trasportarci per poco meno di un’ora nel cuore pulsante dell’Irlanda più autentica, nella quale tra un ballo con mille anni di storia e una poesia che narra di eroi e principesse, possiamo immergerci nel fiume in piena dell’arte nella sua connotazione più pura.
Il disco ottiene un enorme successo in Irlanda e nel Regno Unito, ma riesce anche a farsi conoscere al di fuori dell’arcipelago britannico, finendo nelle classifiche di tante riviste e aggiudicandosi il Choice Music Prize (premio per il miglior disco composto da artisti irlandesi), battendo tra gli altri mostri sacri come U2 e Sinéad O’Connor. Il tour per promuoverlo è ricco di piccoli successi per i Gloaming, con tre date sold-out al Dublin Concert Hall nel febbraio del 2015. Durante la tournée, approfittando del momento favorevole, la band inizia a scrivere parte del proprio sophomore, registrato nel dicembre 2015 a Bath, presso i Real World Studios. Citando Iarla, il disco voleva provare a muoversi verso nuove direzioni, puntando anche sulla migliore affinità tra i componenti del gruppo. Hayes stesso descrive la nuova creazione come “something with more feeling”. Insomma, le premesse per non rimanere delusi, dopo cotanto esordio, c’erano tutte.
The Gloaming 2, spesso abbreviato semplicemente in “2”, vede la luce il 26 febbraio 2016, e i dubbi vengono subito dissolti dalla partenza splendida di “Pilgrim’s Song”. È ancora una volta il poeta Sean Ó Riordáin a dare lo spunto per il testo di questa soffusa ballata, che inizia in punta di piedi (ideale collegamento con il disco precedente), con i violini che irrompono con una melodia meno malinconica e più tradizionale, in un climax che si conclude ciclicamente con un finale delicato, dove qualche nota di pianoforte accompagna la voce ipnotica e magnetica di Iarla, protagonista ancora una volta di un’interpretazione impeccabile. Nella successiva “Fainleog”, l’inizio di rara bellezza è affidato a un pianoforte e a un violino, raramente così malinconici, che paiono appena usciti da qualche fiaba antica che sa di Medioevo, castelli e principesse da salvare. Se in The Gloaming, la struttura del disco veniva sorretta da un compensarsi equilibrato tra ballad malinconiche e brani strumentali più legati alla tradizione, la doppietta che dà il via a “2” vira in un’altra direzione. Sia “Pilgrim’s Song” che “Fainleog” sono infatti due brani straordinari nella loro complessità, nel loro saper sposare un’emotività debordante a un’enorme capacità tecnica, sempre messa al servizio di uno scopo e mai meramente virtuosistica. Sebbene i brani siano simili tra di loro per struttura, le soluzioni non si rivelano mai banali, grazie a una straordinaria capacità nel rinnovare le intuizioni melodiche senza stancare mai. Il finale in crescendo di “Fainleog” è straordinario in questo senso: il dialogo tra i due violini di Hayes e di Ó Raghallaigh è abbagliante e potrebbe durare all’infinito.
Sebbene, come accennato, qualche elemento di discontinuità con il primo disco si potesse percepire già nei primi due brani, “Oisin’s Song” segna un’ulteriore novità rispetto al repertorio proposto dal gruppo irlandese sino ad allora. Le atmosfere sono più cupe, quasi spettrali, amplificano e ampliano le sensazioni provocate da quel capolavoro che era “The Old Bush”, introducendo in modo sistematico alcuni stilemi che facevano solo una timida apparizione nel brano del 2013. Pur rimanendo, come da cifra stilistica della band, costantemente legati alle tradizioni folk, i piani cupi delle melodie si muovono in territori inesplorati. La successiva “The Booley House” riporta invece alla luce le tematiche classiche della band, con una melodia ancora una volta sensazionale e fortemente emotiva. Se, come disse una volta Victor Hugo, la malinconia consiste nella gioia di essere tristi, pochi brani meglio di questo riescono ad avallare la teoria, costantemente in bilico tra gioia e dolore come una vecchia foto di un ricordo lontano ma ancora vivido.
Più avanti la melodia svolge ancora il ruolo di attrice principale nella ballata “Casadh an tSúgáin”, un pezzo pop piano e voce che si piazza di diritto tra i migliori usciti dalla discografia targata The Gloaming, per la capacità di unire intimità, misura e direzioni dei colpi.
Dopo la semi-jam session strumentale di “The Rolling Wave”, con il pianoforte che sorregge e fa da contraltare a questa sinuosa danza a due, arriva l’altro pezzo “nuovo” di “2”. “Cucanandy” ha origine da una filastrocca per bambini: dopo la consueta apertura strumentale, compare anche l’inglese, per la prima volta nella discografia dei Gloaming, in una seconda parte eterea e quasi al rallentatore che sarebbe perfetta per qualche scena del finale di “The Tree Of Life”.
Nel finale, se l’ispirazione classica (Chopin) di Bartlett viene fuori nell’intima “Mrs. Dwyer”, “Slan le Maighe” riporta invece in auge il violino di Hayes, soprattutto nell’assolo della prima parte della composizione, introducendo una meravigliosa poesia di Aindrias Mac Craith, autore settecentesco considerato l’ultimo grande poeta gaelico, che racconta la solitudine di un uomo costretto a dire addio a tutto ciò che ha. Il brano, uno dei più emozionanti e meglio riusciti del disco, colpisce per la sua capacità di evocare immagini e luoghi con la sola forza di due strumenti (il violino di Hayes prima, la voce di Iarla poi). Il finale è affidato allo strumentale “The Old Favourite”, ennesima bella prova pregna di talento e vecchi ricordi sbiaditi ma ancora forti.
La straordinarietà di The Gloaming 2 è quella di colpire con le stesse armi del proprio meraviglioso predecessore, ma usandole in maniera differente, come fa l'artigiano che si adatta a ciò che l’epoca e il tempo richiedono, senza voler strafare, ma consapevole che anche per una band che fa dei capisaldi della propria tradizione un mantra stilistico, è necessario modificare la propria ricetta per continuare a convincere. Pur forse rimanendo di poco sotto lo straordinario esordio, questo sophomore lascia trasparire la sensazione che la band non abbia minimamente perso la propria vena creativa, la sua capacità di creare umori, spazi e stati d’animo con una musica che affonda le proprie radici in tempi così lontani e in ricordi legati a una cultura così peculiare, e di renderli appetibili a un pubblico ben più vasto.
The Gloaming 2 bissa il successo del predecessore, ricevendo un’accoglienza più che positiva dalla critica, e il gruppo inaugura anche un tour che porterà i cinque musicisti a suonare nelle più grandi città dell’Europa e del Nordamerica.
La band trascorre il 2016 e il 2017 a promuovere il disco. All’inizio 2018 la RTÉ, una celebre rete irlandese, annuncia che l’unica data del 2018 programmata live alla Dublin’s National Concert Hall sarebbe stata riprodotta su disco. Il lavoro, intitolato Live At The NCH, viene pubblicato il 2 marzo del 2018 e contiene appunto le versioni live di sei brani, cinque provenienti da “2” e la sola “The Sailor’s Bonnet” presa dal disco d’esordio. Le tracce testimoniano anche in versione digitale le straordinarie doti dal vivo del gruppo, con la conclusiva “Fainleog”, la cui versione live si avvicina ai 20 minuti di durata, a fare da summa artistica dell’intera pubblicazione.
Dopo il lungo tour del 2017 e il live di inizio 2018, la band inizia a dedicarsi alla composizione del terzo disco in studio, il quale, seguendo il sentiero già inaugurato dal sophomore, viene ribattezzato The Gloaming 3 o semplicemente “3”. Dopo una lunga gestazione, l’album esce il 22 febbraio 2019, sempre per Real World, ma per la prima volta i cinque componenti del gruppo escono dalla Gran Bretagna e decidono di incidere ai Reservoir Studios di New York, sfruttando la crescente notorietà di Thomas Bartlett negli Stati Uniti.
La questione centrale, ancora una volta, è la capacità della band di confermarsi ai livelli dei primi due dischi, mantenendo intatto e credibile il proprio legame con la tradizione e contemporaneamente l’abilità di percorrere strade diverse per non cadere nella temuta trappola del “già sentito”. E i Gloaming confermano ancora una volta il loro talento, dimostrandosi in grado di rinnovarsi in un’area sempre familiare ma foriera di nuovi possibili spunti e intuizioni.
L’inizio, come per i due lavori precedenti, è ancora una volta straordinariamente centrato: “The Weight Of Things” è una delle vette assolute della produzione dei Gloaming. Il testo è tratto da una splendida poesia di Liam O’Muthuile del 2013. Uno straordinario alternarsi di versi che parlano di vita e di morte, di perdita, di lontano e vicino, di grandi prospettive e di piccolezze, che Iarla riesce a tradurre con bravura invidiabile in un alternarsi uptempo di versi: la sensazione del “peso delle cose”, accennato nel testo, viene fedelmente restituita da un cantato frenetico, quasi delirante, il quale viene sapientemente alternato ad aperture orchestrali, concedendo qualche attimo di estatica pausa a questa corsa di quasi otto minuti. “The Weight Of Things” è l’ennesima, splendida veste sonora indossata dal quintetto irlandese.
Dopo questo incipit spiazzante, lo strumentale di “The Lobster” ci riconduce in territori noti: lo stile particolare, quasi “gocciolante”, di Bartlett, ci accompagna in questa danza condotta dai due violini in una composizione che rientra ormai nel novero delle canzoni tradizionali dei Gloaming. La successiva “Athas” si rivela una condensa di emozioni: un’altra poesia di O’Muirthile fa da decoro a una splendida melodia che arriva da un altro tempo dando vita a un’altra delle tracce più riuscite del lotto. E se “The Pink House” si inerpica su una melodia quasi “solo” di Hayes per poi crescere in un climax con l’altro violino che si fa strada - quasi come in un film di Antonioni che potrebbe iniziare in qualsiasi momento e del quale qualsiasi momento potrebbe segnare la fine - la successiva “Reo” re-introduce atmosfere già sentite in “Oisin’s Song”, un po’ più cupe rispetto alle classiche aperture orchestrali della band, salvo poi virare verso un ritmato intermezzo di violino; uno schema ripetuto per due volte nel brano.
In “Sheehan’s Jigs” il violino di Hayes torna a fare la voce da padrone, qui al limite dello stridente in alcuni tratti, mentre il tema della natura effimera dell’esistenza riaffiora tra i versi di “My Lady Who Has Found The Tomb Unattended”, dove atmosfere quasi dark, degne di un “The Firstborn Is Dead” di Nick Cave, vengono introdotte sotto il mantello della solita veste tradizionale del sound. L’interessante “Doctor O’Neill” dimostra ancora una volta le ambizioni del gruppo con le sue multiformi variazioni: l’inizio rasenta l’avantgarde, come se lo Scott Walker di “Tilt” fosse stato accolto nel collettivo irlandese, mentre verso la metà della traccia, i violini di Hayes e O’Raghelleigh si incuneano in una melodia suadente, che procede incessante sorretta dal piano di Bartlett per poi condensarsi in una sorta di valzer accelerato e malinconico.
Anche con il loro terzo capitolo in studio, dunque, i Gloaming confermano la bontà di una proposta musicale unica, della quale davvero si sentiva la mancanza nel panorama folk attuale, svelando versi e melodie di una terra misteriosa e per certi versi ancora sconosciuta, trasportandoci in luoghi abbandonati, lungo scogliere verdi e scoscese, facendoci entrare in case di legno riscaldate da focolai accoglienti. Dimostrando ancora una volta come alcuni temi - la caducità dell’esistenza terrena e come affrontarla, la ricerca di un senso alla vita e la capacità di affrontare le sfide quotidiane - siano un filo rosso che lega qualsiasi tradizione folk e forma d’arte. Il linguaggio, come obietterebbe Wittgenstein, è il vero limite della costante comprensione di questo concetto, eppure i Gloaming riescono a superare questo ostacolo senza tradire nemmeno una volta la propria terra d’origine, ma anzi stimolandoci, grazie alle loro splendide melodie, una verace curiosità verso uno spicchio di cultura musicale ancora tutto da scoprire.
The Gloaming (Real World, 2014) | |
The Gloaming 2 (Real World, 2016) | |
Live At The NCH (Real World, 2018) | |
The Gloaming 3 (Real World, 2019) |
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