Il Nick Cave che a metà degli 80 vive a Berlino ovest, in seguito alla fine dell'avventura londinese con i Birthday Party, è un uomo che sta affrontando una personale discesa all'inferno. La sua vita si svolge in un minuscolo appartamento, dove il tempo è diviso tra il consumo di eroina, la frequentazione dell'underground musicale tedesco e la lenta stesura di quello che sarà il suo primo romanzo, “And The Ass Saw The Angel”.
Nello spazio bianco di quel non-luogo che è la sua Berlino, insieme rifugio di esuli e carcere a cielo aperto, Cave comincia a tratteggiare un’intera mitologia musicale, personale, letteraria. Complici di questa impresa sono i Bad Seeds, lo straordinario gruppo comprendente l'ex-Birthday Party Mick Harvey alla batteria, il leader degli Einstürzende Neubauten Blixa Bargeld, alla chitarra, e Barry Adamson al basso.
Con questa formazione prende forma il primo album a nome Nick Cave and the Bad Seeds, “From Her To Eternity”, 1984, dirompente dichiarazione artistica del leader, sorta di tabula rasa dove il blues del Delta e del Mississippi rivive attraverso le forme di un raggelato rock moderno, dove le percussioni dell'inferno post-industriale e il battere dei canti di lavoro nelle piantagioni diventano un unicum indistinguibile.
Col secondo album, “Firstborn Is Dead”, parte di quell’assalto furioso muta in lucida esposizione, in una creazione che ha ormai preso una sua complessità organica, un mondo di fiction, sì, ma vivo come la trama di un grande romanzo. “Firstborn Is Dead” è quindi un nuovo manifesto programmatico, dove i magmi tribali del passato si rapprendono nelle forme secche di una forma-canzone gravida di umori ancestrali, pervasa della più profonda tradizione popolare, blues, gospel e spiritual, e dai suoi anfratti bui.
Il legame di Nicolas Edward Cave (nato a Warracknabeal nello Stato di Victoria, Australia, figlio di un insegnante d'inglese e di una bibliotecaria) col mondo di Robert Johnson e dei bluesman maledetti è anzitutto di natura religiosa e letteraria. L'educazione protestante e il senso di colpa - il padre muore mentre il giovane Nick si trova in prigione - lo proiettano in un mondo di dolore che Cave ricercherà nelle sue opere preferite, tanto nel dipinto dell’“American Gothic” di Grant Wood, quanto nei libri di William Faulkner e Flannery O'Connor, e che tradurrà in una vera e propria rivisitazione dell'Antico Testamento in chiave postmoderna.
Con questo processo esistenziale, la luce della salvezza e la tenebra del peccato sono impietosamente distinti; su tutto grava il peso tremendo della Predestinazione: i bad seeds, i semi del male risiedono inesorabilmente nel cuore dell'uomo, la Redenzione sembra ambigua, se non fuori portata. Protagonista assoluto di questo dramma è ovviamente lo stesso Nick Cave, che proietta se stesso in una galleria di personaggi segnati da un Fato più che mai inesorabile, novello Robert Johnson irrimediabilmente attratto dalla perdizione, dal sesso, dal peccato, finanche dal delitto.
Nei testi del “Firstborn” vive quindi un’autentica parata di personaggi, proprio ispirata all'iconografia blues: c’è il satiro erotomane e corruttore, c’è la figura di spaventapasseri da incubo che si proclama “custode del grano dimenticato” e “Re di niente”, ci sono i cieli della collera divina, c’è il ricercato come dannato sulla Terra, c’è il carcerato e il suo rituale di automutilazione. Ma ci sono anche i riferimenti diretti o indiretti ai musicisti, le nuove figure archetipiche: il già leggendario Blind Lemon Jefferson, l’uomo cieco avviato lungo “il terribile tunnel del suo mondo” verso il giorno del Giudizio, il Dylan di “Wanted Man”, e soprattutto Elvis, “The King”.
Mitologia tanto blasfema quanto venata di black humour, il nuovo Vangelo di Cave trasforma la nascita di Presley in Tupelo (secondogenito, in quanto “il primo nato è morto”) nell'avvento di un nuovo Messia rock, di cui lo stesso Cave è il terribile profeta.
I Bad Seeds in questo album fanno sul serio e, in mezzo a loro, Nick Cave mette in gioco la sua stessa vita. Il suo bandleading è probabilmente il più grande della musica rock, paragonabile a quello dei grandi direttori d’orchestra o dei grandi performer jazz. Non solo organizza timbri e colori con una libertà tanto razionale quanto fantasiosa, ma immette nel canto e nell’accompagnamento una dialettica intensa che riesce a coinvolgere qualsiasi parametro sonoro. Ogni variabile armonica e dinamica, dal rumore più truce alla melodia più elementare, persino i dettagli dell’incisione, la stereofonia della produzione e dello spettro uditivo, entrano a far parte della sua nuova idea di canzone, ne diventano - oltre che apparati atti alla piacevolezza e alla completezza d’ascolto - anche veri portatori di significato. E questo si ritrova forse al meglio in “Firstborn Is Dead”.
Il tuono-scroscio temporalesco (terribile quanto scenografico) che apre “Tupelo”, uno dei miti assoluti del bardo australiano, è il simbolo della notte dei tempi, del caos da cui genera nuova vita. Il groove horror innervato dal basso di Adamson s’impasta col suono di natura, e il rimbombo labirintico di echi si traduce in un battito equatoriale, in cui il cerimoniere Cave e il suo spoken ringhiato (metà rantolo libero, metà canto gutturale) alzano indefinitamente l’enfasi infausta. Solo l’invocazione da baccanale dei Bad Seeds riesce a spezzare il riff asfissiante e il battito forsennato incessante, pur tenendo costanti i fregi voodoo e i fendenti aritmici e atonali delle chitarre.
Al capo estremo dello spettro vige l’altra dedica diretta, il doppelgänger di “Tupelo”: “Blind Lemon Jefferson”, la fase terminale del processo di Cave, un teorema oscuro di accordi invisibili e tocchi fantasma. Le onde d’urto malefiche (pure vibrazioni delle corde di basso) appaiono e scompaiono dal silenzio più spettrale, fino a che Cave non pronuncia il suo sillabario e pone fine temporanea all’agonia, abbozzando un refrain decrepito. I segni del blues sono ormai in fluttuazione come nubi rade, le membra della forma canzone vagano senza meta nel vuoto, o brancolano nel buio appena guidate dal senso di fine imminente.
Per arrivare a ciò, il cantautore appronta alti sforzi creativi. Anzitutto “Train-Long Suffering”, in cui il gorgheggio affilato onomatopeico del cantante e la chitarra lanciata a velocità sferragliante (non più riff ma vero loop brutale) schiantano ancor di più le intuizioni blues. La sezione ritmica in controtempo, in particolare, sembra guidare la locomotiva, facendola deragliare in piroette infernali di canto e controcanto a cappella (forti dei giochi di parole ficcanti del poeta); ogni volta il funambolico giro ricomincia più forte di prima, ogni volta aumentandolo di qualche livello (fino alle sardoniche tastiere che imitano il “ciuf-ciuf” del treno).
E lo scheletrico, Leadbelly-iano giro folk del delta di “Say Goodbye To The Little Girl Tree”, osteggiato dal feedback di Bargeld, ospita il canto dapprima lascivo quindi propulsore di scudisciate che emergono dalla batteria stomp, fino a tintinnare cacofonici e a frangersi sullo stesso canto. Non meno coerente è la cover del caso, la “Wanted Man” scritta da Dylan per Johnny Cash, un crescendo enfatico scaturito dal martellare ossessivo e dal ruggito del cantante.
Ma è soprattutto “Black Crow King” a raffinare (cioè a rendere ancor più perversa) la sua idea di processione autoflagellante basata sul fuzz di chitarra, su colpi sincopati e ribattuti e cori spiritual, che tosto lasciano spazio al soliloquio per voce e organo. La monomania del leader raggiunge qui livelli alteri: non solo predica invasata, ma addirittura premonizione visionaria.
Invece, il Cave pianistico si ritaglia uno spazio importante in “Knockin’ On Joe”, attanagliato, continuo srotolarsi di patemi tragici, a partire da una lontanissima armonica blues gotica; il piano svariona o si ripete imperterrito, come in un offertorio, mentre i comprimari modulano gli effetti sonori luttuosi, pur rimanendo in sordina; il canto delle piantagioni di cotone come stridula nenia umanistica.
L’ineffabile opus numero 2 del poeta australiano è probabilmente il suo lascito più clamoroso (in termini di scandalo), con scatti da furia punk quasi-buffonesca, toni da predica biblica maledettista, l’empietà persecutoria di un rito pagano; e chi lo prende come un disco solo autopunitivo non ne ha inteso la sacrale profondità. C’è piuttosto l’urlo gotico, lo sfinimento supremo, il verfremdung, il cecidere manus. E di più: c’è la ricompensa. La sua forza traumatica risiede nello sguardo lucido dell’autore, nella veridicità di un linguaggio che Cave fa vibrare soprattutto quando non arretra davanti a nulla. Oltre alla mirabile lezione di un blues-rock filtrato dalla scatola nera dello spirito, l’opera avrà un lascito inestimabile, dalle nuove band esistenziali ai cantanti post-punk, persino a poeti e romanzieri.
“Tupelo” è l’archetipo supremo di tutto il suo procedimento di citazioni per accumulo: lo spunto per il testo proviene da “Tupelo Blues”di John Lee Hooker, dove si narra dell’alluvione che flagellò la città del Mississipi culla di Elvis. Il refrain “looky looky yonder” viene da un medley registrato da Leadbelly con Alan Lomax, di cui faceva parte anche quella “Black Betty” contenuta in “Kicking Against The Pricks”, l’album di cover del 1986 che - insieme ai due volumi di “The Original Seeds: Songs That Inspired Nick Cave and the Bad Seeds” - è la guida ideale per cogliere le radici del “Firstborn”: l'immersione del cantante nella mitologia del blues rurale sudista pre-Seconda Guerra Mondiale, il suo omaggio a Blind Lemon Jefferson, Skip James, Charley Patton. “Knockin’ On Joe” è il preludio alla prima collaborazione col regista John Hillcoat (per la sceneggiatura di “Ghost...Of The Civil Dead”), rinnovata recentemente con le musiche composte da Cave per “The Road”.
Ristampato nel 2009 - in blocco con la sua prima parte di discografia - con l'aggiunta di Dvd audio 5.1, con video inediti.
04/04/2010