Che negli anni 2000 non sia la cosa più facile al mondo riuscire ad affermarsi in maniera non banale nello sterminato e variopinto panorama astrattamente riconducibile al nuovo folk americano può sembrare premessa scontata e quasi inevitabile nell'accingersi alla descrizione di qualsiasi songwriter contemporaneo. Simile affermazione potrebbe mostrarsi funzionale tanto a troppo affrettate esaltazioni, basate esclusivamente su elementi tecnico-formali, quanto a troppo indulgenti riflessioni su artisti operanti in un ambito musicale nel quale sembra pressoché impossibile pretendere qualcosa di radicalmente "nuovo" e personale.
Ebbene, tale premessa risulta invece del tutto ultronea e fuorviante quando l'artista in questione è Sufjan Stevens, autore capace di scompaginare categorie mentali e coniugare molteplici ossimori musicali, lasciando sempre latente, nell'ascolto dei suoi lavori, il gusto della sorpresa, veicolata da una fresca giocosità fanciullesca e mai artatamente costruita con lo studiato intento di conseguire un risultato a tutti i costi bizzarro.
In effetti, di apparentemente bizzarro in Sufjan Stevens vi è davvero poco, sotto tutti i punti di vista: il suo modo di presentarsi e la sua biografia non hanno nulla che possa far prevalere il personaggio sull'artista. Sembra anzi il classico "ragazzo della porta accanto", facilmente collocabile all'interno della stereotipata immagine della tranquilla famiglia della periferia americana, i cui temi, al pari di quelli riguardanti la fede cattolica, ricorrono spesso nelle sue composizioni, nelle quali riesce a trasfondere mirabilmente la genuina semplicità del suo approccio alla vita, prima ancora che alla musica.
Sufjan nasce nel 1975 a Detroit, Michigan, e trascorre la sua fanciullezza nella cornice della recondita Lower Peninsula, la striscia di terra compresa tra i laghi Michigan e Huron. La sua multiforme sensibilità musicale e il suo talento naturale si manifestano ben presto: pare infatti che fin da piccolo si divertisse a comporre sonatine mozartiane su tastiere giocattolo e comunque, già appena maggiorenne, si era cimentato con successo, da autodidatta, nell'esecuzione di un gran numero di strumenti - dal banjo all'oboe, dalla chitarra al vibrafono, dal pianoforte al basso - che tuttora padroneggia e continua a suonare.
Dopo una fugace esperienza in un'oscura band chiamata Marzuki e la collaborazione con la Danielson Famile, Sufjan inizia la sua carriera solista nel 1999 realizzando l'album A Sun Came.
Se fin dall'esordio l'estrema prolificità di Stevens ne esemplifica da subito l'attitudine ad album molto lunghi, i connotati musicali dei suoi primi lavori risultano piuttosto difformi da quelli successivi: A Sun Came è infatti una raccolta di canzoni pop lo-fi, composte nell'ultima parte del soggiorno di Stevens al college e ispirate a un songwriting sghembo e a tratti trasandato. Ma dagli oltre settanta minuti dell'album inizia già a emergere una fisionomia musicale del tutto non convenzionale. Se infatti certi passaggi possono richiamare alla mente accostamenti con il Beck di quegli anni (basti ascoltare "A Loverless Bed" per rendersene conto), A Sun Came presenta una notevole varietà di soluzioni sonore e già delinea la ricchezza compositiva e strumentale che ben presto diverrà una delle impronte caratteristiche del Sufjan Stevens polistrumentista prima ancora che cantante.
Traccia di fondo di un lavoro che spazia dall'indie da college-radio con echi di Pavement e Sebadoh di "A Winner Needs A Wand", "Demetrius" e "The Oracle Said Wander" ai soffici e un po' lamentosi accenni intimisti di "Rake" e "Dumb I Sound", finisce addirittura per essere l'atmosfera orientaleggiante che affiora, spesso inaspettata, tra zufoli e percussioni in molti dei brani.
Complessivamente considerata, A Sun Came risulta un'opera disomogenea, nella quale Stevens, pur attraverso più d'una ingenuità, sperimenta un codice artistico dallo spettro tanto ampio da risultare quasi incommensurabile che, al di là di timidi e un po' scontati accenni indie-rock, potrebbe definirsi una strana mistura tra cantautorato lo-fi e scorie folk-psych dal marcato sapore vintage. In quest'album, il giovane Sufjan dimostra senza dubbio notevole versatilità compositiva e grande varietà di registri espressivi, ma le sue tante idee risultano alla fine piuttosto confuse e difficili da gestire, così come la sua identità artistica resta ancora indefinita, per quanto gli episodi che meglio si fanno apprezzare sono proprio quelli più essenziali, di quasi sola voce e chitarra, nei quali Sufjan esercita le proprie pur non eccelse doti vocali in un cantato soffuso e intimista, innocente e disincantato al tempo stesso ("Kill", "Happy Birthday" e "A Sun Came", oltre alle già citate "Rake" e "Dumb I Sound").
Ma se la naturale propensione dell'autore verso un folk semplice e cristallino fa già capolino nel suo album di debutto, obiettivamente nemmeno i critici più acuti e ottimisti avrebbero potuto intravedere in A Sun Came gli esatti prodromi della futura dimensione artistica di Stevens, né tanto meno la sua esatta collocazione stilistica. Analogo ragionamento è valido, a maggior ragione, per il suo secondo album, Enjoy Your Rabbit, composto e registrato a New York, dove nel frattempo si era trasferito. Come il suo predecessore, Enjoy Your Rabbit è un album molto lungo, anche se le caratteristiche al suo interno risultano molto più omogenee, per quanto sorprendenti: si tratta infatti di un concept, composto da quattordici brani strumentali ispirati all'oroscopo cinese, nel quale Stevens non sviluppa nessuno in particolare dei tanti diversi stili presenti in forma embrionale in A Sun Came, ma si butta a capofitto in uno stravagante electro-glitch, tutto impostato su tastiere sgangherate e dissonanze vagamente rumoriste, che sembrano quasi giocare a fare il verso a Jim O'Rourke ("Year Of The Monkey", "Year Of The Dragon"). Qua e là per i quasi ottanta minuti dell'album, tra ambient malato ("Year Of The Ship", "Year Of Our Lord) e melodie destrutturate da videogioco, si intravede tuttavia che l'autore di siffatta chincaglieria sonora è tutto fuorché un compunto e serioso avanguardista: basti prendere gli accenni orchestrali di "Year Of The Rat" e "Year Of The Boar", l'atmosfera lounge da cartone animato di "Year Of The Dog" e il piano che introduce gli oltre tredici minuti di "Year Of The Horse", pur ben presto dilaniato da un variegato arsenale di suoni e disturbi sintetici.
Enjoy Your Rabbit resta, in definitiva, un episodio di passaggio nella carriera di Stevens, qualcosa più di un divertissement, che quasi non andrebbe preso in considerazione nella crescita della sua personalità artistica, se non forse per averlo ben presto allontanato da simili esperimenti elettronici, non di per sé così malvagi ma in fondo piuttosto scontati e comunque sufficienti a fargli comprendere che è il caso invertire completamente rotta, abbandonando ai primi e malfermi passi le sue frequentazioni elettroniche.
Superata questa parentesi, infatti, Stevens decide di iniziare a fare le cose sul serio: dopo aver composto e registrato artigianalmente alcuni nuovi brani in diverse e spesso estemporanee location, grazie al decisivo contributo del patrigno, che fin dall'inizio ne aveva seguito e stimolato il talento musicale, trasforma la loro casa di produzione domestica Asthmatic Kitty in un'autentica label, per poter realizzare in maniera ufficiale i nuovi brani e dare loro una più ampia diffusione.
Risultato della creatività artistica e della rinnovata intraprendenza di Sufjan Stevens è Michigan, primo album davvero "maturo", grazie al quale la sua poliedrica sensibilità inizierà a trovare una più precisa definizione artistica. A margine dell'album, dedicato a mo' di concept al suo Stato natale, nasce il progetto, ambiziosissimo e un po' folle, per il quale il nome di Sufjan Stevens inizia a circolare nell'ambiente musicale indipendente americano: quello di completare una sorta di giro musicale dei cinquanta Stati americani attraverso altrettanti tra album ed Ep a essi dedicati. Ma, prescindendo dal suo inserimento in una pianificazione concettuale, Michigan è un album che non cessa di sorprendere e di evocare sensazioni musicali ed emotive diverse, dalla prima nota di pianoforte della cristallina e depressivissima ballata "Flint (For The Unemployed And Underpaid)" all'ultima di "Vito's Ordination Song", canzone d'amore bucolica e non priva di accenti da musical. Nel corso della sua ora abbondante di durata, sono infatti racchiusi quindici splendidi acquarelli musicali nei quali Stevens trasfonde, con grazia estrema e nel suo tono invariabilmente malinconico, desolati paesaggi post-industriali, grigi affreschi cittadini e placidi squarci naturalistici dall'aria limpida e serena.
Al variare degli oggetti della sua descrizione corrisponde un'incredibile varietà di registri espressivi, nei quali si alternano stili e reminiscenze anche molto distanti tra loro, il cui affiorare in taluni passaggi presenta tuttavia una spontaneità tale da non far sospettare alcuna preordinazione da parte dell'autore, capace non solo di alternare, ma addirittura di racchiudere nello stesso brano soffuse ballate drakeiane ("For The Widows In Paradise, For The Fatherless In Ypsilanti", "Holland") e arrangiamenti jazzy degni di un John McEntire ("All Good Naysayers, Speakup! Or Foerever Hold Your Peace!", "Oh Detroit, Lift Up Your Weary Head! (Rebuild! Restore! Reconsider!)"), ma anche di passare dal disarmante minimalismo, fatto di poche note di pianoforte e/o banjo, ad autentici florilegi di strumenti, tra fiati, vibrafoni, xilofoni, posti tra loro in un equilibrio quasi orchestrale, attraverso un evidente e maniacale lavoro di cesello nella costruzione dei brani.
Ma al di là dei richiami estremamente mutevoli presenti in molte tracce (dalla musica d'autore americana più classica ad accenni all'easy listening, a rielaborazioni sonore vicine a quelle di Tortoise, The Sea & The Cake o Jim O'Rourke), il comune denominatore di Michigan è la rivelazione di un autore timido e delicato, radicato in una dimensione folk lieve e trasognata, ma comunque capace di toccare corde profonde, veicolando emozioni sincere, genuine nella loro essenzialità. La sua fervida creatività non corre quasi mai il rischio di disperdersi, nemmeno nei brani dalle costruzioni più complesse, dai quali pur traspaiono aspirazioni di una certa grandiosità compositiva ("All Good Naysayers, Speakup!", "Oh Detroit!" ma anche la coda quasi sinfonica dei nove minuti dell'inizialmente morbida ninnananna corale "Oh God, Where Are You Now? (In Pickeral Lake? Pigeon? Marquette? Mackinaw?)"), anche se sono proprio le ballate apparentemente più semplici a delineare la figura di un songwriter moderno e decisamente fuori dal comune, il cui folk fragile e romantico, dalle mille variazioni sul tema, è supportato da un'indole schietta, quasi noncurante e senza dubbio aliena da qualsivoglia pretesa intellettualoide.
La più spiccata dimensione folk presente, insieme a tanti altri spunti, in Michigan è ulteriormente accentuata nel successivo Seven Swans, l'album più breve e "compatto" della sua discografia: dodici brani per appena (si fa per dire) poco più di tre quarti d'ora di durata, quasi nessun titolo chilometrico e caratteristiche musicali relativamente omogenee, tutte improntate a un folk-country essenziale incentrato in prevalenza sul suono del banjo, che disegna e accompagna timide ballate o grandiosi "inni" d'amore terreno e soprattutto ultraterreno. Benché dal punto di vista strettamente musicale non sia il caso di soffermarsi o speculare troppo su questo aspetto, va comunque sottolineato come Sevens Swans (non a caso realizzato con l'ausilio della produzione di Daniel Smith della Danielson Famile e sull'etichetta di questi, la Sounds Familyre) sia un album pieno zeppo di riferimenti biblici nei testi, nonché pervaso da un sapore vagamente gospel in alcuni dei suoi episodi, anche grazie ai delicati cori che puntellano qua e là quasi tutti i brani. Le doti canore di Stevens, qui decisamente migliorate, gli permettono di interpretare, in maniera lieve e avulsa da qualsiasi retorica, testi impegnativi ma al contempo scarni, ora sussurrati in ispirato raccoglimento ("Abraham", "Size Too Small") ora impregnati da una certa gioiosa enfasi biblica, esternata soprattutto nelle ultime due tracce, "Seven Swans" e "The Transfiguration", veri e propri inni nei quali la maestosità degli arrangiamenti si esplica, alternativamente, in un gospel celestiale che va a coronare un incipit di sola voce e banjo o in una leggiadra polifonia strumentale, davvero capace di innalzare gli animi.
Ma è tutto il lavoro ad avere un'impronta concettualmente sinfonica e lo si capisce bene fin dai coretti soffusi e dal sottile crescendo dell'iniziale "All The Trees Of The Field Will Clap Their Hands", così come dall'aggraziata andatura quasi da minuetto della successiva "The Dress Looks Nice On You". Passo dopo passo, traccia dopo traccia, Sevens Swans rivela poi tante piccole perle nelle quali il tocco personalissimo del suo autore incornicia passaggi di malinconico intimismo ("To Be Alone With You", "We Won't Need Legs To Stand"), che davvero non temono i più impegnativi accostamenti a Nick Drake o Elliott Smith, o rilegge secondo la sua sensibilità persino il country-folk più tradizionale di "In The Devil's Territory", ammantato prima da un'interpretazione morbida e poi sfociante in soluzioni armoniche tra minimali reiterazioni di accordi e qualche effetto sottilmente psichedelico, ma non per questo fuori luogo.
Non mancano poi nemmeno brani dalle caratteristiche "elettriche" e dalle soluzioni armoniche più complesse, come "Sister", sospesa tra tenue intimismo e una sorta di grandioso crescendo, ben presto tradotto in declinare dal timido e ovattato dialogo della voce di Stevens con quelle di Elin e Megan Smith, "A Good Man Is Hard To Find", il cui ritmo sostenuto risulta pur sempre lieve e ben distante dalle ingenue asperità tendenti all'indie degli esordi, e "He Woke Me Up Again", che con le sue melodie easy conferma l'indole istintiva dell'autore e la sua grande capacità di non prendersi mai troppo sul serio. Ancora una volta sono proprio la freschezza e la semplicità, unite a una magistrale immediatezza espressiva, i tratti salienti di una personalità artistica ormai matura, versatilissima sul piano della varietà musicale, ma non per questo "fredda" o cervellotica, ma anzi, come già in alcuni episodi di Michigan, sempre alle prese con una scrittura emotivamente ricca, che riesce a produrre un risultato di fronte al quale è ben difficile restare indifferenti.
Archiviata così mirabilmente con questo lavoro dalla vocazione biblica la sua personale reinterpretazione della canzone tradizionale americana, Sufjan Stevens mette mano al secondo capitolo del suo "tour degli Stati", spostandosi dal Michigan al vicino Illinois, cui dedica, con uno scontato gioco di parole nell'artwork dell'album e i soliti titoli chilometrici, un vero e proprio kolossal complesso ed eterogeneo, composto di ben ventidue tracce (anche se sei sono soltanto brevi interludi o divertissement dalla durata inferiore al minuto), prodotto nel breve lasso di quattro mesi e registrato in numerose diverse location, comprensive anche della chiesa episcopale di St. Paul a Brooklyn, ove sono state eseguite le parti di pianoforte.
Il contenuto di Illinois è densissimo ed eterogeneo, ma connotato da un'incredibile vivacità creativa: si parte con la placida "Concerning The UFO Sighting Near Highland, Illinois", nella quale Stevens incornicia con un piano dal suono leggero e cristallino la sua voce serafica, da adolescente che osserva il mondo con gli occhi sgranati e stupiti; segue "The Black Hawk War…", strumentale tutto costruito su un'epopea di archi e fiati, molto anni 60. Ben diverso è il passo sbarazzino di "Come On! Feel The Illinoise!" che, introdotta da un piano pizzicato, si evolve in un alternarsi tra un coro decisamente retrò e un caleidoscopio incalzante di fiati, per culminare, dopo un lieve intermezzo jazzy, in chiave sommessamente romantica e confidenziale.
L'intensa e buckleiana "John Wayne Gacy, Jr." offre un ulteriore cambio di ritmo, con la sua accurata ricostruzione della vicenda di uno dei più feroci serial killer della storia statunitense, tracciata con maestria narrativa, una struttura avvolgente - interamente imperniata su chitarra acustica e pianoforte - e l'impeccabile, adeguatissimo cantato di Sufjan, toccante e riflessivo. A risollevare i toni provvede poi "Jacksonville", con il suo florilegio di archi guidato da un banjo, che esplode nel coinvolgente coro finale in una sorta di gospel bianco.
Ma quasi tutti gli episodi dell'album sono degni di nota e presentano strutture di volta in volta sorprendenti. Lo spettro musicale e compositivo di Stevens spazia infatti dal grandioso affresco on the road di "Chicago" (nel quale la sua voce è puntualmente contrappuntata da un coro, vagamente natalizio, dai toni più alti), alle fascinazioni di funk orchestrale di "They Are Night Zombies!! They Are Neighbors!! They Have Come Back From The Dead!! Ahhhh!", capace di far affiorare alla mente addirittura certa dance music corale degli anni 70.
Si va poi dagli apparenti opposti della fisarmonica folk che disegna le rime bizzarre di "Decatur, Or, Round Of Applause For Your Stepmother!", all'unico accenno di chitarra elettrica di "The Man Of Metropolis Steals Our Hearts", peraltro inframezzato da un momento intimista di sola acustica e voce, dalla pomposità da musical di "The Tallest Man, The Broadest Shoulders" alle reminiscenze di Steve Reich di "Out Of Egypt, Into The Great Laugh Of Mankind, And I Shake The Dirt From My Sandals As I Run", fino alle liquide ed eteree melodie di "Prairie Fire That Wanders About", brano che richiama addirittura alla mente, come già avvenuto in alcuni passaggi dell'album di debutto, il geniale stile pop dei migliori Stereolab.
Tuttavia, pur divertendosi in tali e tante stravaganti divagazioni (e dimostrando in tutte un'abilità e una sensibilità fuori dal comune), Stevens esprime ancora una volta al meglio il suo talento nei passaggi più minimali e intimisti del lavoro, nei quali la sua voce piana ma ferma emerge su una base di solo piano e/o chitarra acustica, come appunto nella toccante "John Wayne Gacy, Jr.", nella struggente e oscura storia di "Casimir Pulaski Day", basata sul dialogo tra chitarra e banjo, e nella splendida e sospesa "The Seer's Tower" che, incentrata su una melodia minimale di pianoforte e un coro elegiaco ed evocativo, rappresenta una delle vette emotive del lavoro.
Illinois è ancora una volta un'opera che sfugge a definizioni e paragoni, assolutamente fuori dal tempo, nella sua apparente eterogeneità, in realtà frutto di un'accurata "compilazione" di un concept fluido e sapientemente strutturato nella pluralità dei suoi momenti, nei quali la precisione tecnico-compositiva non si trasforma mai in freddezza emotiva, poiché Stevens riesce a rifuggire da qualsiasi ridondanza e a riempire di pathos le proprie composizioni mantenendo, nel contempo, l'ormai abituale tono sbarazzino e per nulla serioso che, ascolto dopo ascolto, contribuisce a far entrare nella mente e nel cuore la gran parte degli eclettici episodi dell'album.
Quasi che le ventidue tracce di un album così complesso e articolato non fossero abbastanza, un anno dopo la sua uscita ufficiale, Stevens pubblica ancora altri ventuno brani tratti dalle intensissime sessioni di registrazione di Illinois, ma poi esclusi dalla sua versione definitiva. La raccolta, a titolo The Avalanche, per quanto sia una sorta di "affresco minore" rispetto all'album precedente, non va però troppo semplicemente considerata come un riempitivo discografico, né come una semplice collezione di "scarti". Certo, l'album non presenta la sistematicità e la fluidità del precedente, ma non per questo risulta privo di spunti interessanti: nei brani in esso raccolti vi è infatti l'ennesima dimostrazione della fertilità creativa di Stevens, oltre che della naturalezza con la quale è in grado di conferire ai suoi brani una pluralità di vesti sonore, rielaborandone con grande versatilità gli stili e le componenti strumentali, come dimostrano le tre diverse versioni di "Chicago" qui presenti, nelle quali, a fronte di un medesimo approccio armonico di base, il brano viene presentato prima in un'intimista e scarna veste acustica, poi declinato secondo una sensibilità da modernariato easy listening, tra reminiscenze sixties e jazz orchestrale, infine tradotto in una obliqua versione elettrica, studiatamente sbilenca.
Per il resto, oltre agli ormai consueti interludi strumentali, come sempre sospesi tra dilatazione ed eccentricità, The Avalanche ripropone inevitabilmente gli elementi di Illinois: dal passo veloce delle godibilissime trasformazioni acustiche del suono Stereolab ("Dear Mr. Supercomputer"), all'abbondanza di fiati in arrangiamenti ricchissimi e dal ricorrente gusto old-fashion, ma come sempre alieno da tentazioni nostalgiche ("The Henney Buggy Band", "No Man's Land"). La raccolta non è comunque per nulla trascurabile, soprattutto per le semplici ballate acustiche dal sapore bucolico, nelle quali Sufjan Stevens dimostra ancora una volta di trovarsi particolarmente a proprio agio, alternando in maniera mirabile tocchi di banjo, coretti gioiosi ("The Avalanche", "Adlai Stevenson") e un soffuso intimismo di grande e delicata raffinatezza ("The Mistress Witch From McClure (Or, The Mind That Knows Itself)", "The Undivided Self (For Eppie And Popo)").
Insomma, anche in un album con tutta probabilità destinato a rimanere minore nella sua discografia, Stevens finisce per mettere sul tappeto tutte le sue enormi qualità di scrittura e interpretazione, dimostrandosi davvero incapace di creare qualcosa di non altamente qualitativo. E, forse a maggior ragione, persino da una raccolta di "scarti" si possono trarre ulteriori conferme sulle capacità di un artista dalla personalità ormai talmente definita da non necessitare più di tanti possibili paragoni, ma anzi in grado di porsi egli stesso come pietra di paragone, con il suo ineguagliabile stile delicato, vivace ed eclettico.
Pochi mesi dopo The Avalanche, a completare con la pubblicazione di oltre sessanta tracce un anno peraltro privo dell’uscita di un album vero e proprio, segue la raccolta in un corposo box dei mini album che Stevens è solito realizzare in maniera estemporanea in occasione delle festività natalizie, con il contributo di diversi musicisti ma anche di amici e coinquilini occasionali. All’edizione 2006 delle sue Songs For Christmas viene, infatti, unita la ristampa ufficiale delle quattro precedenti, corredata da ogni sorta di extra, quali adesivi, spartiti, testi, fumetti, fotografie, nonché un video e un booklet di 42 pagine contenente un saggio originale del romanziere americano Ricky Moody, nonché due saggi e un racconto che lo vedono cimentarsi anche nella scrittura.
L’iniziale carattere domestico di questi mini album risulta evidente nei primi due volumi, “Noel” e “Hark!”, nei quali si percepisce l’immediatezza compositiva connaturata a brani destinati a siffatta occasione e il contesto autentico, genuino e senza troppe pretese che circonda radiose canzoncine oppure brevi frammenti strumentali registrati in presa diretta ed eseguiti con strumentazioni alquanto essenziali, da banjo e chitarra a pianole giocattolo. Già in “Hark!” inizia invece ad affacciarsi compiutamente la varietà di registri espressivi per la quale Stevens è ormai rinomato: nel volgere di pochi brani, si passa con disinvoltura dagli arrangiamenti sognanti con gli immancabili campanellini a profusione, al soffuso raccoglimento che ammanta con leggerezza “Come Thou Fount Of Every Blessing” e all’intimismo arioso di “What Child Is This Anyway?”, unico brano recante tracce elettriche, che sporcano qua e là l’insieme prima di dissolversi in un finale ovattato, impreziosito dalle note dal pianoforte. Gli otto brani raccolti in “Ding! Dong!”, composti nel breve solco tra gli album “Michigan” e “Seven Swans” e artisticamente ad essi molto prossimi, alternano poi delicato raccoglimento e accenni di tradizione alla scatenata polifonia di “Come On! Let’s Boogey To The Elf Dance!” e all’angelica orchestralità di “O Holy Night”.
Nel quarto mini album, “Joy”, composto a fine 2005, è la melodia a prendere il sopravvento: se si eccettuano i coretti e gli inaspettati inserti indie-rock di “Hey Guys! It’s Christmas Time!”, i restanti brani sono tutti molto lineari, sorretti da strutture armoniche esili e delicate che affrontano sobriamente i temi meno retorici del Natale. Ancora una volta Sufjan Stevens, dimessa per un attimo la sua vocazione ad ogni stravagante magniloquenza sonora, riesce a esprimersi in maniera eccelsa nella semplicità di brani di quasi sola voce e chitarra – unite soltanto a pochi altri elementi “natalizi” – ispirate tanto ad argomenti religiosi quanto a delicate riflessioni universali e personali, che con soffice introspezione rappresentano splendidamente anche la sottile tristezza inevitabilmente latente nei giorni di festa.
L’ultimo volume, registrato nel giugno 2006, con i suoi undici brani, è quello più corposo, oltre che probabilmente più significativo da porre in linea di continuità artistica con le sue ultime produzioni. Ancora una volta, Stevens non rinuncia all’effetto-sorpresa, trasformando perennemente la sua forma espressiva: al di là di tre brevi interludi pianistici – tra i quali un frammento di trentasei secondi del classicissimo “Jingle Bells” – “Peace” si distingue dai mini album precedenti per ricchezza e complessità di suoni. Dopo il placido strumentale “Once in Royal David’s City”, infatti, affiora in “Get Behind Me, Santa!” una bizzarra orchestralità che, tra organetti sghembi, fiati e vezzi da modernariato casalingo dall’effetto vagamente psichedelico, ricorre in più d’uno dei brani (“Christmas In July”, “Jupiter Winter”, ” Star Of Wonder”), fino a scolorare nell’obliqua dilatazione finale di “The Winter Solstice”. Anche qui non mancano accenni di composto intimismo, aleggiante sul pianoforte della serena “Holy, Holy, Holy” e della prima parte di “Sister Winter”, il cui arrangiamento d’archi si sviluppa però in un pur sobrio crescendo caratterizzato da innesti elettrici, fiati e da una discreta varietà di altri effetti.
Anche se è detto che da questi brani si possano trarre indizi utili per definire la sensibilità del Sufjan Stevens post-Illinois, da essi sembrano tuttavia trasparire gli accenni di un’ennesima evoluzione che, senza mai perdere di vista le coordinate fondamentali dell’artista, ne alimenti i caratteri più marcatamente orchestrali, indirizzando altresì la sua vocazione polistrumentale verso il recupero di sonorità analogiche, liquide e non poco stranianti.
Considerato nel complesso, il ricco cofanetto Songs For Christmas appare qualcosa più di una raccolta per fan incalliti e di un modo per tener viva la presenza dell’artista nell’intervallo tra un lavoro e l’altro, poiché un artista delle qualità di Sufjan Stevens riesce ad allontanare da sé il sospetto delle finalità meramente commerciali di una simile operazione con non altro mezzo che la sua consueta abilità di rielaborare con sapienza e semplicità disarmante stili ed espressioni diverse, risultando in tutte parimenti credibile. Inoltre, lo stesso tema natalizio, invero alquanto limitante, viene sviluppato in maniera per nulla banale, senza facili cedimenti alle stucchevolezze di retorici “buoni sentimenti” e di una felicità indotta e apparente; anzi, tra quelli maggiormente espressivi ci sono proprio i brani più riflessivi e quelli che, con delicatezza mista a ironia, raccontano l’altra faccia del Natale. Il suo sapore dolce-amaro, spensierato ma non troppo, lo rende adatto anche per l’ascolto in altre occasioni, ad eccezione forse dei brani tradizionalmente natalizi, anche se le dimensioni macroscopiche della raccolta nascondono il solo rischio dell’abbuffata, lo stesso che Sufjan Stevens è ben consapevole di correre con tante produzioni ravvicinate, ma in definitiva mai scontate o ripetitive.
A completare un quadriennio - a sorpresa - privo di uscite discografiche autenticamente nuove, a fine 2009 Sufjan Stevens pubblica quasi in contemporanea altre due opere che lo vedono impegnato nel perseguimento di quell'impostazione orchestrale e cameristica già riscontrabile in Illinois. Si tratta in entrambi i casi di album estemporanei, che non testimoniano altro che una propensione già espressa in precedenza e ora convogliata in esperimenti sul suono e sugli strumenti, ma non ancora dotati della maturità necessaria per supportare vere e proprie canzoni.
Il primo di tali esperimenti consiste nel semplice riarrangiamento di Enjoy Your Rabbit, affidato al quartetto d'archi Osso, che traduce la chincaglieria sonora di quel lavoro stravagante sostituendo ai glitch digitali cigolii realizzati con gli archetti e alle ritmiche sintetiche semplici battiti sulla cassa del violoncello. Opera non del tutto priva di interesse ma in fin dei conti non più che un divertissement e un esercizio di stile, Run Rabbit Run dimostra la versatilità di composizioni invero nemmeno all'epoca particolarmente riuscite, alle quali il nuovo contesto sonoro conferisce grazia e respiro imprevedibili, anche se troppo spesso i brani restano privi di autentici guizzi, risultando a lungo andare di una pedanteria abbastanza pretenziosa.
Il secondo esperimento consiste invece nella colonna sonora di un documentario a tema, dedicato alla tormentata storia e alle mille contraddizioni sociali attraversate dall'omonima arteria stradale urbana, che congiunge Brooklyn al Queens, e commissionato dalla Brooklyn Academy of Music.
Parte di un progetto musicale più ampio, l'aspetto musicale di The BQE esalta la vocazione alla grandiosità orchestrale di Stevens, che trova vario complemento in profluvi strumentali che la preponderanza di archi e ottoni e le note sempre aggraziate del pianoforte conformano come fossero piéce destinate a un balletto, ovvero schegge incantate estrapolate dalla colonna sonora di un cartoon Disney.
Come tutte le opere che vedono lo zampino del funambolico menestrello del Michigan, anche The BQE risente non poco della sua poliedrica personalità artistica; tuttavia, la particolare destinazione delle composizioni e il loro atteggiarsi quali ibridazioni in attesa di sviluppo induce a considerarlo nient'altro che il frutto di un'estemporaneità non priva di spunti d'interesse nella proiezione futura di un suo complemento attraverso il geniale songwriting che certamente potrebbe trarre ulteriore linfa da questi bozzetti sapientemente orchestrati.
La speranza è che un album di canzoni non debba farsi attendere ancora a lungo.
E infatti, in pieno agosto 2010, senza alcuna preventiva anticipazione, Stevens torna a far sentire qualcosa di nuovo, in forma di un Ep (si fa per dire, vista l'ora di durata) digitale, che anticipa di poche settimane il suo vero e proprio ritorno discografico sulla lunga distanza.
All Delighted People è costituito per quasi due terzi da due versioni leggermente diverse del brano dal quale prende il titolo e da un brano finale di oltre diciassette minuti, nei quali Stevens dà libero sfogo alla sua vocazione orchestrale e da musical, in un incredibile caleidoscopio di passaggi e trasformazioni; quasi a far da contraltare alla grandiosità di queste lunghe tracce, accanto ad esse sono collocate cinque canzoni più brevi, di cantautorato acustico scarno e intimo, eppure niente affatto scontate né tanto meno prive di divagazioni.
Le melodie non sono infatti mai banali, né lineari come potrebbero apparire, l'introspezione del mood non è particolarmente positiva e la dolcezza notturna di pianoforte e note acustiche si conforma nel passo sciolto di un caldo picking e in austere cadenze pianistiche, senza tuttavia rinunciare a qualche digressione in chiave analogica.
A suggellare quest'uscita stramba ma grondante spunti di interesse giunge infine la monumentale "Djohariah" (delicata dedica alla little sister di Sufjan), con una sbornia di cori, schitarrate acide, battiti elettronici, cadenze soul, profluvio di fiati e melodie leggiadre che fungono da intro di ben dodici minuti alla canzone vera e propria, una sorta di più conciso slight return intimista, in deliberato diminuendo, che segue alle aperture da rock-opera sinfonica della lunga parte iniziale. Tutto questo e altro ancora in un sedicente Ep, conferma la ricchezza degli snodi melodici e delle soluzioni di arrangiamento proposte da Stevens con una naturalezza e un'attitudine al trasformismo che non fanno altro che confermare la sua genialità.
L'album che segue l'Ep a distanza di poche settimane, The Age Of Adz, rappresenta qualcosa di imprevedibile e spiazzante. Con due aggettivi, lo si potrebbe definire un disco elettronico e schizofrenico. Elettronico è l'impianto sonoro, che ne costituisce la più evidente novità: un'elettronica vintage e in un certo senso "povera", quasi tutta incentrata su drum machine e synth analogici, ripescata dai tempi di Enjoy Your Rabbit e adesso elevata a protagonista sostanziale di brani che tuttavia, a ben vedere, non divergono poi più di tanto dalla vena orchestrale e dalla propensione al musical connaturate all'eclettico profilo artistico di Stevens.
Schizofrenica è l'apparente cesura con i dischi precedenti e la frenetica tendenza al trasformismo, adeguatamente raffigurata dal titolo e dall'artwork, entrambi mutuati dalle allucinate visioni di mostri mitologici, alieni e profezie apocalittiche racchiuse nelle opere di Royal Robertson, pittore scomparso nel 1997 e appunto affetto da gravi disturbi della personalità.
Tastiere analogiche, accenni psichedelici e sferzate elettroniche talora aspre e distorte costituiscono infatti i prevalenti elementi accessori, per quanto fondamentali, di canovacci che per il resto lasciano trasparire una certa continuità col passato, in termini quanto meno di scrittura e soluzioni d'arrangiamento. È pur vero che chitarrine acustiche e atmosfere ovattate (ma adesso liquide e stranianti) restano confinate in brevissimi sketch; tuttavia ampia parte del lavoro si dimostra intesa a coniugare scatenata coralità e magnificenza orchestrale con nuove e imprevedibili imprese. Da un lato, scandagliare il pop elettronico mainstream tra anni 80 e primi 90 e persino certa dance music coeva o appena più risalente e, dall'altro, utilizzare incursioni acide, ritmiche spezzate e ricorrenti decostruzioni per far deragliare pezzi che in molti casi avrebbero tranquillamente potuto indossare vesti più usuali.
Distorsioni, detonazioni e sciabordii acidi avviluppano il serafico flusso di melodie e cantato, fondendosi con l'enfasi orchestrale, riaffiorante sotto forma di fiati e arrangiamenti rileyani, e una miriade di ingredienti, sublimata nel corso dei folli venticinque minuti e mezzo della conclusiva "Impossibile Soul", un caleidoscopio interstellare che riassume (si fa per dire) overdrive cosmiche da vecchia psichedelia, inediti toni black, interludi ambientali di stridori chitarristici e tastiere polverose, iterazioni pianistiche, coralità ossessiva e free, torsioni post-futuriste, frantumazioni surreali e citazioni anni 80 sotto forma di scatenati passi dance-pop e di una sorta di lounge analogica da videogioco d'annata.
Benché da un punto di vista strettamente cantautorale permanga l'impressione che non siano queste le vesti sonore più adeguate per le canzoni di Stevens, sarebbe oltremodo limitante farne una mera questione di forma, nonché ozioso pensare a come gli stessi brani avrebbero potuto suonare se arrangiati come in Illinois. Ma un autore così geniale - e un po' folle - non poteva certo accontentarsi di imprese facili; in tal senso, l'approccio "spaziale", arty, apocalittico e (retro-)futurista di The Age Of Adz costituisce una scelta artistica indubbiamente coraggiosa e una tappa potenzialmente molto significativa per una nuova declinazione del (folk-?)pop orchestrale del terzo millennio. A meno che prima o poi non si scopra che, fedele alla sua indole, il buon Sufjan stava solo scherzando.
A distanza di cinque anni, il ritorno di Sufjan l’eclettico segna ancora una volta un radicale cambio di direzione, in cui il gioco dei trasformismi lascia il posto alla carne e al sangue dell’esperienza.
Niente architetture barocche, niente trovate spiazzanti. In Carrie & Lowell a Stevens non interessa stupire. Gli basta un rincorrersi cristallino di arpeggi, ad accompagnare la fragilità di una voce più indifesa che mai. Una voce pronta a sdoppiarsi come nel riflesso di uno specchio, trasformando all’improvviso la solitudine in coro. Lo si sente sin dalle prime note di “Death With Dignity”, con una carezza di tastiere che fa capolino solo per sfiorare i contorni della melodia. La stoffa è quella delle “John Wayne Gacy jr.” di un tempo: la vena del cantautorato più intimo di Stevens.
Eppure, c’è una nudità senza precedenti, per lui, nelle atmosfere rarefatte di Carrie & Lowell. Il segreto è racchiuso già nel titolo dell’album, nella dedica a Carrie e Lowell, la madre e il patrigno di Stevens. Una madre che l’ha abbandonato ancora bambino e che un male incurabile gli ha strappato via prima che potesse davvero riconciliarsi con le cicatrici di quel distacco. Guardare in faccia la sua morte significa guardare in faccia il vuoto rimasto dentro di sé, significa guardare in faccia tutto il proprio disperato bisogno di senso.
Le canzoni diventano sospiri da catturare prima che svaniscano, anche solo attraverso le registrazioni vocali di un telefono, in una camera d’albergo in qualche angolo dell’America. L’essenza sta nelle sfumature, nei tratteggi acustici che trascolorano in un vapore di tastiere sul finale di “Drawn To The Blood”, nel librarsi inatteso tra le pieghe di “Should Have Known Better” di palpiti sintetici che sembrano sognati dai Tunng. Come un’unica, lunga elegia, fino all’incedere solenne di gospel con cui “Blue Bucket Of Gold” va a segnare l’epilogo del disco. Ogni respiro, lungo il percorso, è carico della stessa densità degli Eels di “Electro-Shock Blues” o del Bon Iver di “For Emma, Forever Ago”: pietre di paragone naturali di un disco che non teme di rivaleggiare con Illinois per purezza di ispirazione.
Un tappeto di tastiere avvolge in “Fourth Of July” l’ultimo dialogo su un letto di ospedale con un senso di struggimento da togliere il fiato. “We’ll all gonna die”, mormora Stevens. Non è rassegnazione, è il suo esatto opposto: è la consapevolezza da cui nasce la domanda più radicale, quella sul proprio destino. Quel destino che sembra svuotare le speranze, condannando alla stessa spirale di autodistruzione dei propri genitori.
Ma il cuore non smette di desiderare, con tutta la sua fame disordinata e impetuosa: “I am a man with a heart that offends with its lonely and greedy demands”, proclama “John My Beloved” sul pungolo di una nota insistita di piano. E a chi desidera, presto o tardi, la vita risponde. Basta il sorriso di una nipote che si affaccia al mondo: “My brother had a daughter/ The beauty that she brings, illumination”. Il respiro corale che sboccia dal beat lieve di “Should Have Known Better” solleva il rimpianto in un canto di rinascita. Inutile guardare indietro: “Nothing can be changed/ The past is still the past, the bridge to nowhere”. Conta solo il qui e ora, l’instancabile riaffermarsi della bellezza. Ogni cosa è illuminata.
Nel 2017 arriva Planetarium, disco nato dalla collaborazione tra Sufjan Stevens, Nico Muhly, Bryce Dessner e James McAlister. Il risultato è un lavoro di continui rimaneggiamenti che si trascinano da anni, ovvero da quando la sala concerti olandese Muziekgebouw Eindhoven commissionò a Muhly una pièce da proporre al pubblico: fu così che il compositore - sodale di Valgeir Sigurðsson e già al lavoro con Björk, Bruce Brubaker, Philip Glass, Grizzly Bear, Bonnie 'Prince' Billy, Ólafur Arnalds e molti altri - decise di coinvolgere Sufjan Stevens e Bryce Dessner per creare un'opera complessa e ambiziosa. Si unì in seguito James McAlister, collaboratore fidato di Sufjan, e il lavoro fu quindi spartito in questo modo: al cantautore di Detroit la parte vocale e i testi, McAlister alla sezione ritmica e all'elettronica, Dessner alle chitarre e alla composizione e Muhly ovviamente alla parte orchestrale e sinfonica, l'intelaiatura all'interno della quale il compositore membro dei National ha aggiunto la sua sensibilità compositiva, rendendo più complesse le stratificazioni sonore.
Una volta coinvolto l'ultimo soggetto in causa ovvero McAlister, il cui contributo di beat ed elettronica rappresentava l'ultimo incastro del puzzle che avrebbe definito il progetto, e una volta che la bozza della scaletta brani fu realizzata, "Planetarium" fu testato anzitutto nella dimensione live, eseguito a mo' di band con il contributo di un quartetto d'archi e sette tromboni. Stevens e McAlister, capovolgendo il loro modus operandi, portarono tempo dopo (esattamente nel 2016) questo materiale dal vivo assieme agli arrangiamenti nello studio di registrazione, connettendo le parti di Muhly e di Dessner e dando vita così a Planetarium.
La bontà del lavoro di produzione si nota nel fatto che tutto si incastri in maniera omogenea come in "Jupiter", dove le stratificazioni sonore si fanno più complesse e sono immerse in una atmosfera oscura ("Sermon of death says Jupiter is the loneliest planet"), illuminata dagli inserti vocali di Sufjan come un pianeta che si staglia nell'oscurità ("His radiance in the dark/ Mysterious shape or beauty mark/ As if it were Minerva"). Qui però inizia a farsi strada un sospetto che zavorra leggermente Planetarium, ovvero una sporadica centralità di Sufjan che fa sembrare a volte l'album il follow up di The Age Of Adz, anche a livello di sonorità in bilico tra sinfonia ed elettronica.
In altri momenti si sente invece l'influenza di compositori come Hans-Joachim Roedelius o dei Popol Vuh, e quindi della kosmische musik (non poteva essere altrimenti): è il caso dell'epica "Mars", con la sua lunga scia di fiati e percussioni e quelle tematiche apocalittiche à-la Sufjan Stevens che echeggiano lo stato attuale dell'umanità ("In the future/ There will only be war/ The vanity outside/ And after all the devastation/ Will we see the Lord").
Ma c'è anche posto per l'ambient alla Brian Eno che troneggia soprattutto negli interludi ("Black Energy", "Halley's Comet" che passa via rapida come il passaggio della cometa, "Sun", "Tides", "In The Begininng"). E c'è persino un momento in cui la sensibilità di Sufjan Stevens incrocia la Björk di "Vespertine": è il caso di "Moon", incentrata su due miti nativi americani sul viaggio di un coniglio sulla Luna; miti che si inseguono come allegoria per tutto il disco e che sono sottolineati dalle citazioni auliche della cultura greco-romana sparse nei testi (il Taurobolium, Venere chiamata Pandemos e così via).
E se da una parte c'è davvero un immotivato eccesso di autotune che arriva a sfiorare l'abuso ("Mars", "Jupiter", "Saturn", "Earth": troppo), dall'altra la voce di Sufjan esce dai soliti lidi sussurrati per deformarsi e raggiungere altezze parossistiche come nella radiofonica (!) "Saturn" o nel falsetto dinamico e profondo della conclusiva "Mercury", in cui si nota ancora una volta il notevole lavoro alle chitarre di Dessner in una piano ballad che è una cavalcata leggiadra, un dressage, che conclude questo viaggio nel cosmo.
Un viaggio che non ha l'imprevedibilità della jam session nonostante il materiale di partenza sia nato live, che non straborda pur avendo dei momenti epici: ogni elemento è calibrato con precisione, incastrato e bilanciato con scrupolo. Si evita così l'effetto di odissea barocca ma si rischia a volte un eccessivo livellamento tra gli apporti dei quattro artisti.
Nel 2020 è la volta di Aporia, album realizzato in collaborazione con il patrigno Lowell Brams - già, quel Lowell del tanto celebrato Carrie & Lowell. Il disco si presenta fin da subito come un insolito duetto, per l’esattezza il secondo appuntamento tra i due dopo i fasti di “Music For Insomnia” della Library Catalogue del 2009, Lp uscito ovviamente per la label fondata da entrambi, la benemerita Asthmatic Kitty, e per giunta creato niente di meno che con la collaborazione di Bryce Dessner dei National.
Al netto delle presentazioni di circostanza, l'album è stato registrato nel corso degli ultimi anni, per la precisione nel tempo libero. Modalità precisata in sede di presentazione dallo stesso Sufjan Stevens. L’opera non ha quindi alcuna ambizione di fondo. Nessuna velleità da traino, se non quella di provare a unire l’immaginazione dei due musicisti, sfruttando la passione di entrambi per la new age (!) dei primi anni 80.
Certo, le influenze dichiarate sono Boards Of Canada e dintorni, quindi epopea postuma, addirittura Enya, fino a giungere alla soundtrack di “Blade Runner” di Vangelis, ossia il vero faro di tutta la faccenda assieme alle ipnosi pastorali di Joanna Brouk e della premiata ditta Peter Mergener/Michael Weisser nel capolavoro “Beam-Scape": progressive eletronic caduta nel cielo teutonico del 1984 e incredibilmente dimenticata.
Ascoltando i vari momenti, è per l'appunto nelle fughe in apparenza sconclusionate della primissima new age “occidentale” che si nascondono i paralleli effettivi di un album che si snoda continuamente tra una lenta ascesa cosmica in scia Tangerine Dream (“What It Takes”) e un battito Idm alternato a una tastiera epica, eppure spiritualmente kitsch per l’assolo sospeso tra le pause ("Disinheritance"). Mentre qualcosa a metà tra l’Aphex selettivo che tutti conosciamo e la Ciani de “The Velocity Of Love” plachi le acque, a dire il vero per nulla agitate, prima che il secondo tentativo di ascesi siderale prenda “quota”, raggiungendo però cime basse, quantificate da ripartizioni stucchevoli e giretti melodici inconsistenti. Ecco: “Agathon” piacerà ai neofiti, per dirla in breve: a quelli che, per una ragione o per un’altra, non hanno ancora scavato nell’elettronica progressiva a cavallo tra gli 80 e i 90.
Tra un mini-trip al synth, un timido riverbero e qualche rumorino da contorno ai soliti sfarfallii in loop anestetico (“Afterworld Alliance”), si procede con estrema fatica. Il centro del piatto nasconde, invece, quella voglia di creare “rumore” certamente inflazionata, ma che presenta qui e là impercettibili squarci di luce, con l’immancabile tastiera celeste in controluce al “tempo” (“For Raymond Scott”, “Matronymic”).
In coda nulla muta, e la sensazione rimane quella di trovarsi dinanzi a un’improvvisazione mal riuscita. Un puzzle di esperimenti contrastanti che, bontà di Dio, nulla aggiungono al pallottoliere della stella “indie” statunitense.
Tirando le somme, non resta che far finta di niente e attendere l’atteso rientro cantautorale di Stevens.
Un ritorno che non si fa attendere, anticipato nel luglio del 2020 da “America”, un brano lasciato nel cassetto da Stevens fin dall’epoca di Carrie & Lowell. All’inizio è un gemito che prende forma attraverso gli echi di pulsazioni sintetiche. L’ansito dei respiri, lo spleen inconfondibile delle tastiere. Poi, però, si trasforma in qualcosa di completamente diverso: una cavalcata cosmica che va a disperdersi in una nebbia di ectoplasmi.
Il nuovo album, The Ascension, prende le mosse da lì. Stevens decide di ribaltare la prospettiva: dall’interno all’esterno, dall’introspezione alla realtà. “Non voglio scrivere altre canzoni sulla morte di mia madre. Voglio scrivere canzoni che diano un giudizio sul mondo”.
Complice il trasloco da Brooklyn ai monti Catskill, Stevens baratta così banjo e chitarra per sintetizzatori e drum machine: elettronica solipsistica, un po’ come ai tempi di The Age Of Adz. Ma con una differenza fondamentale: se dieci anni prima Stevens sembrava sognare una sorta di impossibile sinfonia electro, ora è della sua personale via al pop che è in cerca.
Che cos’è infatti “Video Game” se non un esercizio di scrittura della pop song perfetta? Il beatmarcato, la melodia sinuosa, il luccichio delle tastiere che sa di retrofuturismo anni Ottanta alla “Stranger Things”… Stevens ne fa una sorta di invettiva contro la dittatura del like (“I don’t wanna be the center of the universe”), salvo poi affidare il video a una star di TikTok come Jalaiah Harmon: “un video di ballo sul non voler essere protagonisti di un video di ballo”, per dirlo con le sue parole.
D’altra parte, pop significa semplificazione. Ed è proprio a questo che mira Stevens, per parlare del presente che lo circonda: l’immediatezza dello slogan, la forza del proclama. “Modi di dire e frasi di tutti i giorni, ma che per me hanno un’eco e una saggezza molto più grandi”. Può persino annunciare senza imbarazzo che l’amore è la risposta, sulle note di una ballata romantica come “Tell Me You Love Me”. Nonostante la lunghezza e la discontinuità, The Ascension risulta alla fine più a fuoco di The Age Of Adz proprio grazie al suo desiderio di dire le cose in maniera diretta.
Dice di essersi ispirato alle sonorità di “Rhythm Nation” di Janet Jackson, Stevens. Forse, a parità di periodo storico, a questo giro è più debitore del Peter Gabriel degli anni Ottanta/Novanta. Tra la giaculatoria di “Die Happy” (metà misticismo e metà dancefloor) e la caleidoscopica schizofrenia di “Ursa Major”, l’unica apertura alla confessione folk arriva in chiusura, con il ritorno alle tinte più intime della title track. Riscattando almeno in parte qualche passaggio fin troppo confuso nel corpo centrale del disco.
Sufjan si guarda intorno, e quello che vede è soprattutto paura: “The fear of life/ That seeks to bring despair within”, canta sulla ritmica morbida di “Run Away With Me”. La paura di chi è prigioniero della solitudine, del risentimento, della sfiducia. E insieme alla paura, il desiderio di ritrovare una qualche forma di comunione con gli altri: “A new communion/ With a paradise that brings/ The truth of light within”.
Non siamo diversi da quelli che ci hanno preceduto, in questo: dall’alba dei tempi ci dibattiamo intorno al grande mistero dell’alterità. Indietro lungo la spirale della storia, l’indietronica di “Gilgamesh” risale fino all’epopea della terra tra i due fiumi: c’era una volta un eroe che scoprì l’amicizia lottando con la sua nemesi; c’era una volta un eroe che scoprì la mortalità raccogliendo l’ultimo respiro dell’amico. “Oh, my heart receives you now/ With arms full of harvest”. Nati nell’estraneità, eppure fatti da sempre per la fratellanza. Il sogno americano, quello vero, non è altro che questo.
Album apparentemente incidentale A Beginner's Mind, segna il ritorno di Sufjan Stevens all'elegiaco folk pop di Carrie & Lowell. Ad accompagnarlo in questa avventura è Angelo De Augustine, co-autore di un progetto stimolante e insolito.
E' infatti una vera sfida creativa il nuovo disco dei due musicisti, ispirati in primis dal buddismo zen e dall'I-Ching e da suggestioni surrealiste estrapolate dalla cinematografia.
Concepito durante un mese trascorso presso la casa di un amico a New York, A Beginner's Mind (2021) è un prezioso scrigno contenente quattordici ballate dalle coordinate folk/lo-fi e dal tono meditativo e rassicurante, che solo concettualmente abbracciano le tematiche dei film che ne hanno ispirato le liriche, restando musicalmente fedeli a quella scrittura, tipica di Sufjan e Angelo, emotivamente appiccicosa, immediata e semplice, che resta tale anche quando cela raffinate intuizioni delicatamente più sperimentali.
Tra citazioni più o meno esplicite o dichiarate, le caleidoscopiche e familiari sequenze di arpeggi e di onirici sussurri vocali, plasmano una suggestiva modernizzazione del folk-pop alla Simon & Garfunkel (a partire da “Reach Out” ispirata a “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders), anche se Angelo e Sufjan all’esuberanza melodica preferiscono un approccio più mesto alla Elliott Smith (“Lady Macbeth In Chains”). Incuriosisce altresì la particolare attenzione dei due autori al mondo dei serial killer e dell’horror-movie, non solo gli zombie di George Romero, fonte d’ispirazione per l’inquieta e ricercata “You Give Death A Bad Name”, o uno dei cult film più famosi, “La cosa” di John Carpenter, che offre il fianco all’accorata e serafica ballata pianistica “(This Is) The Thing”, ma perfino il controverso “Hellraiser III”, che i due musicisti rileggono con le sognanti ed enigmatiche sonorità di “The Pillar Of Souls”.
E' un album particolarmente fecondo e ispirato, A Beginner's Mind. Un brano come “Lady Macbeth In Chains” (ispirata al fim “Eva contro Eva”) è una delle intuizioni più potenti non solo del disco, ma dell’intera carriera dei due autori, un crescendo acustico dai toni solari, spalleggiato da un vellutato fondo di percussioni e intrecci vocali. “Back To Oz” va addirittura oltre, con accordi maggiori e tamburelli a pieno regime, che una sensibilità jangle-pop e psych-folk corona con gustosa enfasi.
Spetta poi alla rarefatta title track e al soave surf-folk di “Olympus” anticipare le due pagine più sorprendenti dell’album. Per “Cimmerian Shade”, De Augustine mette a disposizione le migliori suggestioni psych-folk, mentre Stevens sfoggia uno dei testi più potenti del progetto, tra citazioni zen, mitologia americana e distonie d’identità sessuale, che nel loro insieme riassumono le inquietudini di un’America in continuo disfacimento culturale (il film è “Il silenzio degli innocenti”). Ancor più inquieta, a dispetto dell’etereo substrato sonoro, “Lacrimae”, una delizia agrodolce che per un attimo sfiora la magia della raffigurazione cinematografica, una visionaria ballata psichedelica sulla tristezza e sulla redenzione, ultimo tassello di un album che aggiunge ulteriori piccole delizie al curriculum già rispettabile dei due musicisti.
Nel 2023 viene pubblicata come opera autonoma Reflections, sesta collaborazione con il regista e coreografo teatrale Justin Peck dalla cui sinergia era già stato pubblicato The Decalogue. Colonna sonora dell'omonimo spettacolo commissionato ed eseguito dallo Houston Ballet nel 2019, l'opera è la prima partitura per due pianoforti scritta da Stevens,affidata alle virtuose interpretazioni di Timo Andres (coinvolto precedentemente proprio per “The Decalogue”) e Conor Hanick. Come dichiarato dallo stesso autore, le composizioni risentono dell’influenza di autori e stili eterogenei, elaborata senza una reale visione d’insieme, approccio chiaramente rilevabile ascoltando la sequenza delle sette tracce.
Classicismo e correnti d’avanguardia novecentesca si intersecano in una sorta di patchwork pianistico fondato, soprattutto nella prima parte del lavoro, su fraseggi torrenziali e contrappunti vivaci, percussività e sezioni dissonanti che mettono in risalto le abilità dei due esecutori. C’è una costante ricerca di tensione, di inseguire un culmine poi disatteso, uno sviluppo che appare poco chiaro e convincente. A funzionare meglio sono le composizioni dall’andamento maggiormente disteso, in cui l’interplay perde di frenesia e contrasto favorendo l’emergere di un malinconico romanticismo. “Mnemosyne” e la breve “Reflexion” sono in tal senso i momenti migliori di un disco, che estrapolato dal suo contesto, non si segnala quale tassello fondamentale di una carriera certamente brillante, ma segnata a tratti da momenti minori se non trascurabili.
Otto anni dopo Carrie & Lowell, con Javelin Stevens torna all’essenziale, al suo lato più minimalista e scoperto. Nonostante tutte le divagazioni, le sperimentazioni e le collaborazioni assortite in cui si è impegnato, in fondo le attese puntavano tutte a quel momento. E se quel senso impellente di urgenza che animava Carrie & Lowell resta probabilmente irripetibile, Javelin riesce a conquistare una maturità espressiva in cui le varie dimensioni del multiverso di Sufjan trovano la loro migliore conciliazione.
A testimoniarlo ci pensa subito l’incipit di “Goodbye Evergreen”, che sboccia da un sospiro sulle note del piano, per poi esplodere dopo appena un minuto in una girandola di synth e percussioni sintetiche degna di The Age Of Adz o The Ascension. Ancora una volta, il punto di partenza è la precarietà della vita: Stevens dà l’ultimo addio al suo compagno, Evans Richardson IV, la cui scomparsa è una ferita che percorre tutto il disco. “Everything heaven-sent/ Must burn out in the end”, sussurra in equilibrio su quel crinale tra amore e perdita in cui si dibatteva tutta la drammaticità di Carrie & Lowell.
I brani di Javelin si sviluppano seguendo lo stesso canovaccio, che dal fremito di un arpeggio cresce verso una progressione corale, fino ad arrivare al climax attraverso una sorta di illuminazione estatica. L’ariosità dei suoni, dallo spirito festivo di “A Running Start” al respiro devozionale di “Genuflecting Ghost”, è tutta frutto del lavoro casalingo di Stevens, che ricorre solo all’accompagnamento di una compagine di voci femminili (tra cui spicca il nome della cantautrice Hannah Cohen). Unica eccezione è la presenza della chitarra di Bryce Dessner dei National in “Shit Talk”, l’episodio più dilatato di un album che per il resto si mantiene volutamente conciso.
Il coraggio di mostrarsi fragili è la forza di queste canzoni, la cifra della loro autenticità. “So benissimo di essere stato spesso il manifesto del dolore, della perdita e della solitudine”, ammette Stevens. Ma non per questo rinuncia a dare voce anche alle sue domande più indifese, come nella richiesta di amore incondizionato che incalza la melodia lieve di “Will Anybody Ever Love Me?”. “Dio mi ha dato una penna e un blocco di carta pergamena. «Trascrivi quello che senti e quello che scopri», mi ha detto”. E così, ecco il diario di una relazione travagliata prendere forma tra le pieghe di “So You Are Tired” e “Shit Talk”, confondendo rabbia e senso di colpa in un’unica spirale.
È con “Everything That Rises” che il percorso iniziatico di Javelin entra davvero nel vivo, prendendo in prestito il titolo da un racconto di Flannery O’Connor (ispirato a sua volta a una citazione del teologo Pierre Teilhard de Chardin). “Can you lift me up to a higher place?/ Forget everything that was before”, invoca Stevens mentre la vibrazione della sua voce sembra restare sospesa a mezz’aria. Poi, il ritornello si distende e l’ascesi assume un orizzonte universale: “Everything that rises must converge/ Everything that rises in a word”.
Il culmine arriva come un lampo, una visione di nemmeno due minuti. Un’esperienza di picco, direbbero quelli che se ne intendono, un istante davanti a cui sembra squadernarsi il significato delle cose. “It’s a terrible thought to have and hold”, annuncia su un velo palpitante il brano che dà il titolo all’album: paradosso di un desiderio al tempo stesso attraente e terribile, perché cercare di stringere qualcosa tra le mani significa in realtà averla già persa. “Volevo disperatamente possedere e trattenere la vera sostanza delle cose (l’evidenza!)”; ma – aggiunge subito Stevens – “la vera materia della divinità è ineffabile”.
Paradosso ulteriore: proprio mentre Javelin muove i primi passi nel mondo, il suo autore si trova costretto su una sedia a rotelle. “Una mattina mi sono svegliato e non riuscivo a camminare. Le mie mani, le mie braccia e le mie gambe erano intorpidite e formicolanti e non avevo forza, né sensibilità, né mobilità”. Sindrome di Guillain-Barré, recita la diagnosi: una malattia autoimmune che colpisce il sistema nervoso. Le terapie, la riabilitazione, il percorso ancora lungo da affrontare: eppure, per Stevens, “tutta questa esperienza è stata una benedizione sotto mentite spoglie”. Qualcosa capace di risvegliare la speranza nell’umanità e nella sua capacità di cura.
Ed è proprio su una breccia di speranza che si chiude Javelin, con la complicità della sapienza agreste di Neil Young: Stevens ruba tra le spighe di “Harvest” il canto di riconciliazione con il mondo di “There’s A World” e se ne appropria con la grazia e la leggerezza dei tempi di “Seven Swans”. “There’s a world you’re livin’ in/ No one else has your part”. Il mondo è là fuori, con tutto il suo carico di possibilità.
Contributi di Gabriele Benzing ("Carrie & Lowell", "The Ascension", "Javelin"), Luca Santoro ("Planetarium"), Giuliano Delli Paoli ("Aporia"), Gianfranco Marmoro ("A Beginner's Mind"), Peppe Trotta ("Reflections")
SUFJAN STEVENS | ||
A Sun Came (Orchard, 1999) | 6 | |
Enjoy Your Rabbit (Asthmatic Kitty, 2001) | 5 | |
Michigan (Asthmatic Kitty, 2003) | 7,5 | |
Seven Swans (Sounds Familyre, 2004) | 8 | |
Illinois (Asthmatic Kitty, 2005) | 8 | |
The Avalanche (Asthmatic Kitty, 2006) | 6,5 | |
Songs for Christmas (Asthmatic Kitty, 2006) | 7 | |
Run Rabbit Run (Asthmatic Kitty, 2009) | 5,5 | |
The BQE (Asthmatic Kitty, 2009) | 6 | |
All Delighted People Ep (Asthmatic Kitty, 2010) | 7,5 | |
The Age Of Adz (Asthmatic Kitty, 2010) | 7 | |
Silver & Gold: Songs For Christmas, Vols. 6-10 (Asthmatic Kitty, 2012) | 7 | |
Carrie & Lowell (Asthmatic Kitty, 2015) | 8 | |
The Decalogue(Asthmatic Kitty, 2019) | 6 | |
The Ascension (Asthmatic Kitty, 2020) | 7 | |
Reflections (Asthmatic Kitty, 2023) | 5,5 | |
Javelin (Asthmatic Kitty, 2023) | 7,5 | |
SUFJAN STEVENS, NICO MUHLY, BRYCE DESSNER, JAMES MCALISTER | ||
Planetarium(4AD, 2017) | 7 | |
SUFJAN STEVENS & LOWELL BRAMS | ||
Aporia (Asthmatic Kitty, 2020) | 5 | |
SUFJAN STEVENS & ANGELO DE AUGUSTINE | ||
A Beginner's Mind (Asthmatic Kitty, 2021) | 7,5 |
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