Eels

Eels

Amichevoli spettri e altre rivelazioni

Gli Eels sono la bizzarra creatura di Mark Oliver Everett, meglio noto come Mr. E. Un barbuto, prolifico, inafferrabile artigiano del pop-rock alternativo. Capace di dare vita a un canzoniere dolente e autobiografico, che non risparmia lutti e tragedie personali, ma che riesce sempre a far vibrare le corde del cuore nella loro più misteriosa alchimia

di Gabriele Benzing

Symphony for toy drum

C'è fermento, oggi, nel quartiere. Il vicino di casa degli Everett ha organizzato un garage sale, uno di quei mercatini di cianfrusaglie di seconda mano che si vedono nei telefilm americani, fatti per svuotare la casa del ciarpame accumulatosi nel corso degli anni. Tutti vanno a curiosare tra le bancarelle improvvisate, danno un'occhiata in giro e buttano via qualche dollaro per un oggetto inutile, destinato inevitabilmente a finire nel prossimo garage sale del fortunato acquirente. La signora Nancy Everett, alla fine, ha ceduto alle estenuanti insistenze del piccolo Mark, il suo figlio minore di sei anni, e si è decisa ad accompagnarlo al mercatino dei vicini. Come al solito il marito, Hugh Everett III, è in casa a leggere il giornale o a scarabocchiare qualche astrusa formula matematica. Non è più lo stesso da quando la sua rivoluzionaria teoria di fisica quantistica sugli universi paralleli, nota come "Many Worlds Theory", si è scontrata con l’ostracismo accademico: da ragazzo scambiava lettere con Albert Einstein, adesso lavora nell'industria della difesa, sempre taciturno e in disparte. L'oggetto del desiderio del piccolo Mark, però, non è la scatola del "piccolo fisico quantico", ma un set di batteria giocattolo che, per la modica cifra di quindici dollari, entra trionfalmente in casa Everett.
Sono strane le circostanze che possono cambiarti la vita: di solito un bambino usa un giocattolo del genere per un paio di settimane e poi lo abbandona nel dimenticatoio. Ma Mark Everett è diverso: sfortunatamente per le orecchie dei suoi familiari, continuerà a suonare ogni giorno la sua batteria giocattolo per i successivi dieci anni… e fortunatamente per noi, la sua insana passione per quella batteria per bambini darà vita a una bizzarra creatura chiamata Eels, senza la quale il suono dell'indie-rock americano degli anni Novanta non sarebbe stato lo stesso.

Life is funny, but not ah ah funny

Un numero imprecisato di componenti transitori, uno permanente e profondamente disturbato. Questi sono gli Eels secondo l'autoironica definizione del loro leader e anima, Mark Oliver Everett. La loro storia non è altro che l'avventura della sua vita.
La famiglia Everett vive in Virginia, non lontano da Washington, in una di quelle classiche cittadine americane dalla perfetta apparenza borghese. Mark Oliver, classe 1963, è il secondogenito degli Everett, che qualche anno prima di lui hanno avuto una figlia di nome Elizabeth Ann. Ma dato che tra i suoi amici ci sono troppi Mark per riuscire a distinguerli l'uno dall'altro, il piccolo Everett decide di usare come nickname l'iniziale del proprio cognome, diventando per tutti, da allora, semplicemente "E".

Sono gente strana, gli Everett: la loro incapacità di comunicare gli uni con gli altri è tale che E stesso la paragonerà ai personaggi del film “Tempesta di ghiaccio” di Ang Lee. Nell'adolescenza, la sorella Elizabeth comincia a soffrire di disturbi psichici, ma per il piccolo Mark rimane sempre un modello da imitare, soprattutto nel suo amore per la musica. Per un anno intero, dopo la scuola, Elizabeth mette tutti i giorni sul giradischi "After The Gold Rush" di Neil Young e Mark ascolta attentamente ogni nota, anche se è convinto che a cantare sia una donna: di certo non avrebbe potuto immaginare che un giorno, nel corso delle sessioni di registrazione di Daisies Of The Galaxy, avrebbe suonato lo stesso pianoforte usato da Neil Young in quel disco…
Oltre alla sua batteria giocattolo, E si diverte a strimpellare il pianoforte di casa e la chitarra acustica che la sorella aveva lasciato nello sgabuzzino a prendere polvere. La scuola, invece, non fa per lui: tra droga, alcool e piccoli furti, a quattordici anni si trova a dover comparire nello stesso giorno davanti a due diversi tribunali… Quando va al college, ormai ha già provato di tutto: "Gli altri ragazzi erano emozionati per il fatto di fare sesso e di bere birra per la prima volta, ma per me quelle cose erano cool a dodici anni".

Un giorno del 1982, E si sveglia e trova il padre a letto immobile. Un attacco di cuore l'ha stroncato ad appena cinquant'anni. Fino ad allora, padre e figlio si erano scambiati sì e no un paio di frasi. "Ho scoperto di più sul suo conto facendo ricerche su internet che non vivendo insieme a lui nella stessa casa", ricorda E.
Mark decide di lasciare il college e va a lavorare a una pompa di benzina. Intanto, i suoi ascolti diventano sempre più onnivori: ogni sua nuova passione musicale è come un'ossessione per lui, da Ray Charles a Bob Dylan, dagli Who a Prince. Con un registratore a quattro tracce comprato di seconda mano, E decide di trasformare i propri sogni in canzoni. “Non avevo uno scopo. Avevo soltanto una vera e propria fame di scrivere canzoni”, annoterà nella sua autobiografia, “Things The Grandchildren Should Know”. “Musicalmente erano un misto strano e naïf di pop, country e soul con sintetizzatore e drum machine. Quasi ogni settimana realizzavo un nuovo ‘album’ di canzoni”.

Appartiene a quei primi esperimenti l'album Bad Dude In Love, intestato semplicemente a Mark Everett e pubblicato nel 1985 in sole 500 copie. Rinnegato a posteriori dal suo stesso autore (che eviterà sempre di farne cenno), farà brevemente capolino su eBay nel 2005, per poi trovare diffusione in rete ad opera dei fan solo nel 2009. Non si tratta dei classici bozzetti di un cantautore alle prime armi, ma dell'eserciziario pop di un ragazzo degli anni Ottanta: melodie sfacciatamente ammiccanti, synth a profusione e persino un gruppo di coriste al seguito (opportunamente battezzate "Everettes"...).
Introdotta da un brusco avviso di licenziamento, di quelli che Mark era sicuramente abituato a ricevere in quel periodo, "Everybody's Trying To Bum Me Out" dà subito vita a un chorus appiccicoso prendendo spunto dal verso del titolo, che verrà ripreso anni dopo nel testo di "Flower". Tra la plastica tirata a lucido delle chitarre e dei groove, è Prince il nume tutelare del disco, che sconta soprattutto la convenzionalità della veste più o meno danzereccia dei brani. C'è spazio anche per un paio di cover di provenienza Motown ("Too Busy Thinking About My Baby" e "I Can't Get Next To You") e per un'escursione nel repertorio di Elvis Presley con "Burning Love", ma la stoffa di E si intuisce nella frizzante ode alla ragazza della porta accanto di "The Girl In My Neighborhood", che altro non è che la prima stesura della futura "Rotten World Blues", inclusa nel 2008 in Useless Trinkets.

L'aria provinciale della Virginia ormai va stretta ad E, che lancia una monetina per scegliere la sua destinazione tra New York e Los Angeles. La spunta la Città degli Angeli, anche perché tra le due è quella più lontana da casa e Mark ha voglia di fuggire dove nessuno possa raggiungerlo. A ventiquattro anni carica in macchina tutte le sue cose e se ne va in solitudine nella megalopoli californiana.
Los Angeles è una città ostile per un ragazzo introverso e solitario che da quelle parti non conosce anima viva. Mr. E trova lavoro in un autolavaggio, da cui contempla in lontananza il palazzo della Polygram Records come un monumento irraggiungibile. Nel frattempo, il suo registratore a quattro tracce si riempie ogni giorno di nuove idee, nuovi versi, nuove canzoni. Ma la sua vita in California diventa sempre più alienante, racchiusa tra lavori privi di ogni interesse e ossessive registrazioni casalinghe.

Hello cruel world


eels_broken_toy_shopAncora un garage sale. Possibile che la vita possa decidersi in un mercatino di quartiere?
Stavolta le bancarelle in questione sono quelle allestite davanti a casa da John Carter, un talent scout della Atlantic che E aveva conosciuto a Los Angeles e a cui aveva dato la sua ultima cassetta. Carter era stato licenziato dalla casa discografica prima di avere il tempo di lanciare la carriera di E, ma il destino aveva deciso di non arrendersi tanto facilmente: e così, quel giorno, la cassetta di E non finisce tra le mani di un vicino qualunque, ma in quelle del produttore discografico Davitt Sigerson, che di lì a poco sarebbe diventato presidente della Polydor. Quasi senza rendersene conto, E si trova in men che non si dica ad entrare proprio in quel palazzo che aveva tante volte fissato da lontano ed a firmare un contratto con la Polydor: il tutto senza essere neppure mai salito su un palco, se si fa eccezione per quello della scuola dove si era esibito come provetto batterista, lanciandosi in una versione alla Keith Moon dell'inno nazionale americano…

È il 1991 ed E si mette subito al lavoro per trasformare tutte le idee che si agitano nella sua testa nel suo primo disco vero e proprio. L'album esce all'inizio del 1992 e si intitola, come un perfetto biglietto da visita, A Man Called E. Per chi lo ascolta oggi, conoscendo già quello che faranno gli Eels negli anni a venire, lo stile di E appare immediatamente inconfondibile. È il suono, però, a risultare plastificato, con quelle tastiere soffuse e quella batteria sintetica irrimediabilmente anni Ottanta, che avvolgono ogni cosa in un pop privo di mordente. “A riascoltarlo oggi”, scriverà E nella sua autobiografia, “mi viene da rabbrividire al suono kitsch del riverbero e della strumentazione di alcune tracce”. Eppure, i brani capaci di rivelare il talento ancora grezzo di E non mancano, a partire da quella "Hello Cruel World" che entra facilmente nelle classifiche indie americane, con il suo spavaldo schioccare di dita e la sua accattivante melodia. È la personalità a difettare ancora alla musica di E: gli accenti rock di "Are You And Me Gonna Happen" e "Nowheresville" e il romanticismo pianistico di "Mockinbird Franklin", "E's Tune" e "You'll Be The Scarecrow" potrebbero appartenere a un duetto tra Tom Petty e Billy Joel, ma risultano troppo prevedibili per riuscire a stupire. Quanto alle liriche, A Man Called E è una dichiarazione di inadeguatezza rispetto alla vita e al tempo stesso un'orgogliosa rivendicazione della propria diversità, in cui non manca mai la speranza che domani un raggio di sole possa arrivare anche nel fango.

Dopo la pubblicazione del disco, E fa il giro dell'America in tour come supporto di Tori Amos e comincia a prendere confidenza con quella dimensione live che fino ad allora non aveva ancora avuto modo di affrontare, ottenendo dalle platee riscontri incoraggianti.
Nel dicembre del 1993 vede così la luce il secondo album a nome E, Broken Toy Shop, segnato dalla fine di un amore che ricorda come il suo "Vietnam personale". Un disco dall'atmosfera molto vicina a quella del suo predecessore, anche se stavolta E sembra avere raggiunto una maggiore essenzialità. Manca ancora il guizzo di genio decisivo, ma "The Only Thing I Care About" rappresenta l'intuizione più compiuta dei suoi due album solisti, per il modo in cui E riesce a cantare con un sorriso scanzonato tutta la propria insoddisfazione. Lo stile riflessivo e al tempo stesso spontaneo di brani come "Manchester Girl", "The Most Unpleasant Man" e "The Day I Wrote You Off", che richiamano alla memoria tanto Paul McCartney quanto Todd Rundgren, iscrive a pieno titolo E in quella nuova generazione di cantautori pop americani, che negli anni successivi avrebbe annoverato gente come Ben Folds e Rufus Wainwright.
Dal punto di vista delle vendite, però, Broken Toy Shop è un flop e la Polydor, che nel frattempo ha cambiato presidente, non ci pensa due volte a scaricarlo: le radio dei primi anni Novanta sono in cerca di giovanotti arrabbiati con le camicie di flanella a scacchi, non certo della depressione romantica di E. Il colpo non è facile da accettare e ad E sembra che ormai la sua sia una causa persa. John Carter, che nel frattempo è diventato per lui una via di mezzo tra un manager ed una sorta di padre adottivo, organizza un breve tour in California, ma i concerti sono quasi sempre deserti, tranne quando E si trova davanti un gruppo di ragazzi ubriachi che cercano di malmenarlo… Il giovane Everett è convinto di avere davvero toccato il fondo.

You'd better give me something to fill the hole


Beautiful FreakUn beat al rallentatore, archi dal sapore cinematografico, una voce sinuosa e lancinante: E accosta lungo il ciglio della strada e spegne il motore della macchina per concentrarsi solo sulle note che vengono dalla sua autoradio. Sono i Portishead, e per lui è come una rivelazione: improvvisamente gli strampalati collage sonori che si divertiva a fare da ragazzino gli appaiono come la porta di un nuovo universo musicale. Con l’aiuto di qualche amico esperto di musica al computer, E si getta a capofitto ad assemblare nuovi brani a base di loop digitali, sample e parti di chitarra elettrica. Tra il 1995 ed il 1996, E registra oltre settanta canzoni, girovagando tra le cantine degli amici: a questo punto, quello che gli occorre è una band che gli permetta di suonare dal vivo il nuovo materiale. Insieme al batterista Jonathan Norton detto “Butch”, con cui aveva già condiviso il palco in precedenza, ed al bassista Tommy Walter, E improvvisa una jam session ed il risultato è subito esaltante. "In realtà stavo benissimo da solo", ricorda E, "ma suonare con Butch e Tommy ha conferito alle canzoni una nuova prospettiva live che mi ha talmente impressionato da convincermi ad abbandonare il mio orgoglio e a diventare membro di una band". Mr. E ha finalmente trovato lo stimolo che ancora gli mancava: l'avventura, stavolta, sta per iniziare sul serio.
Per il nuovo gruppo, Carter gli suggerisce un nome che richiami direttamente il suo: nulla di meglio, allora, di una parola che inizi con una doppia "e", anche se le "anguille", a dire il vero, non sono certo tra le principiali fonti di ispirazione di E… "Volevo che i miei album solisti e quelli della band potessero stare vicini negli scaffali dei negozi di dischi", osserva sornione E, "ma non ho pensato a quanti dischi ci fossero degli Eagles e degli Earth Wind And Fire…".

Le radio locali cominciano a trasmettere i nuovi brani degli Eels e l'industria discografica non tarda ad accorgersi di loro: gli Eels finiscono sotto contratto con la Dreamworks di Steven Spielberg e, nell'agosto del 1996, il loro primo album è pronto per fare il suo ingresso nei negozi di dischi. Il titolo è Beautiful Freak e in copertina c'è una bambina carponi dai lunghi capelli neri e dagli occhi così follemente grandi da occuparle quasi tutto il viso: un mostro, certo, ma di una tenerezza cui è impossibile resistere. "Is the celebratory side of being a freak", proclama orgoglioso E. Ed in effetti, Beautiful Freak si presenta come un vero e proprio cantico dei disadattati, che riescono a continuare a sorridere del loro essere eternamente fuori posto.
Il folgorante singolo che accompagna il lancio dell'album, "Novocaine For The Soul", che giaceva in un cassetto sin dal 1993, è il manifesto perfetto di un rock obliquo, ma capace di parlare direttamente al cuore, come un Beck impegnato a scrivere una nuova "Loser" insieme ai Grandaddy. Parte con un fruscio di vinile e l'eco di un'orchestrina d'altri tempi, ma poi arriva subito la voce di E, roca e polverosa come quella di un vecchio bluesman reincarnatosi nel bel mezzo della "X Generation", a decretare che la vita è dura e che c'è bisogno di qualcosa per non morire: novocaina per l'anima, qualcosa per anestetizzare la vertigine di quei desideri che si spalancano come un pozzo senza fondo. Solo allora entrano in scena chitarre, batteria e tutto l'armamentario della ballata rock, per quello che è destinato a diventare un piccolo classico "alternativo" degli anni Novanta, che conquista immediatamente la platea indie e proietta il disco verso un sorprendente successo di critica e di pubblico.

Rispetto ai dischi solisti di E, in Beautiful Freak è soprattutto l'eclettica schiettezza degli arrangiamenti a stupire. Le chitarre di "Rags To Rags", "Not Ready Yet" e "Mental" suonano piene e sferzanti come quelle dei Flaming Lips o dei Pavement, ma hanno ben poco a che vedere con la spigolosità del grunge imperante. I groove rotondi del basso e il drumming dall'incedere indolente di brani come "Your Lucky Day In Hell" fanno pensare più alla giocosità pop dei Cake che non all'intellettualismo dei post-rocker emergenti, mentre il ricorso a un'elettronica dal sapore vintage è sempre filtrato da una sensibilità distante anni luce dalla club culture. E anche quando l'atmosfera si ammanta di una dolcezza da ninnananna, come nella title track o nel congedo di "Manchild", non manca mai la voglia di sorprendere, inventandosi l'accompagnamento di un celestiale coro angelico in "Flower" o le dissonanze stonate di "My Beloved Monster", nata in mezz’ora da una sfida di songwriting con l’amico Jon Brion e destinata a diventare uno dei cavalli di battaglia del gruppo.
Il paragone che sorge più spontaneo è quello con Beck, che appena qualche mese prima dell'uscita di Beautiful Freak ha pubblicato il suo capolavoro "Odelay". Basta ascoltare "Susan's House" per convincersene, con quello spoken word incalzante che si tramuta nel fraseggio soul di pianoforte del chorus, campionato da un vecchio disco di Gladys Knight And The Pips. Non a caso, a fianco degli Eels nella produzione dell'album c'è Mike Simpson dei Dust Brothers, già sodali di Beck proprio in "Odelay". Mr. E, però, ci tiene a rimarcare la differenza che lo separa dal suo collega losangeleno: "Beck è più groove-oriented, io sono più song-based. Entrambi abbiamo una passione per le vecchie tecniche di registrazione e per l'arte del collage, ma i nostri approcci sono molto diversi. Io sono meno interessato a essere cool".

I personaggi che si muovono tra le tracce di Beautiful Freak sono strani esseri che si guardano intorno spaesati coi loro occhi infantili, scoprendo che quel mondo di presunti vincenti dal quale sono tagliati fuori non è poi così interessante da voler davvero entrare a farne parte. "C'è un mondo intero, là fuori / lo so perché ne ho sentito parlare / nei miei sogni più dolci / vorrei andare fuori per una passeggiata / ma non credo di essere ancora pronto", canta E in "Not Ready Yet". Come per il protagonista di "Guest List" (una delle più fascinose ballate del disco, che con la sua armonica notturna sembra venire dal Dylan di "Oh Mercy"), il posto di questi "splendidi mostri" è nell'ombra fuori da un locale, a fissare il buttafuori che scorre la lista degli ospiti. Ma nel mondo degli Eels non è mai la disperazione a prevalere: tutto sommato, oggi potrebbe essere il tuo "giorno fortunato all'inferno"…

Tra il 1996 e il 1997 gli Eels sono costantemente impegnati in tour. L'impatto chitarristico dei loro concerti è molto più fragoroso di quanto si possa immaginare dall'ascolto di Beautiful Freak e le loro esibizioni live risultano esaltanti, contribuendo a consolidare la reputazione della band.
Dopo avere ricevuto tre nomination agli Mtv Video Music Awards per il video di "Novocaine For The Soul", in cui i componenti del gruppo galleggiano a mezz'aria con i loro strumenti in uno scenario metropolitano in bianco e nero, gli Eels conquistano un Brit Award come "Best International Newcomer". Premio che verrà ben presto convertito da Butch in un ben più utile supporto per i piatti della sua batteria… Arrivano anche le prime collaborazioni con il mondo del cinema, grazie alla splendida "Bad News" scritta per "The End Of Violence" di Wim Wenders e all'inserimento di "Your Lucky Day In Hell" nella colonna sonora di "Scream 2". Ma tutti i riconoscimenti ottenuti dalla band non fanno altro che accrescere l’amarezza di E per l’ipocrisia della scena indie con cui si trova a confrontarsi: “la cosiddetta cultura alternativa”, osserverà nella sua autobiografia, “non era proprio per nulla un’alternativa. Era fatta per vendere proprio come ogni altro prodotto da centro commerciale. Non si ribellava contro niente”. Il culmine arriva con la partecipazione degli Eels a Lollapalooza: “un mare di bulli teenager con il cappellino da baseball al contrario avrebbe voluto mostrarmi il dito medio all’unisono mentre suonavamo “Novocaine For The Soul” come uno spoken-word, con tanto di bonghi e schiocchi di dita, invece della versione a base di chitarra elettrica e batteria che esplodeva dalle casse delle loro jeep quell’estate”.

You're dead but the world keeps spinning


Electro-Shock BluesIn "Alta fedeltà", Nick Hornby sostiene che "nella musica pop non ci sono molte canzoni sulla morte - almeno, non canzoni buone". Di fronte al mistero della morte, la pop music non avrebbe nulla da dire. Evidentemente, E non deve pensarla allo stesso modo: per lui, la musica non può ignorare nessun aspetto della vita, neppure quelli più drammatici.
La morte del padre è solo l'inizio dei lutti che colpiscono la famiglia di E: la sorella Elizabeth si suicida nel 1996 dopo essere precipitata in una spirale di alcool e droga, mentre alla madre viene diagnosticato un cancro che le lascia ancora poco tempo da vivere. All'improvviso, E si rende conto di essere destinato a rimanere l'ultimo superstite della propria famiglia. Scrivere della tragedia che sta affrontando gli sembra impossibile: la stretta del dolore è talmente soffocante da togliere il respiro. Ma più cerca di sfuggire alla terribile realtà che gli sta di fronte, più le sue canzoni gli sembrano false e illusorie. Così, E decide di mettere al centro delle proprie nuove composizioni proprio i suoi più intimi drammi familiari, per cercare di trarne una positività apparentemente impossibile.

Quando ti trovi a dover fare i conti con la morte delle persone che ami, le chiacchiere non servono a nulla: quello che conta è soltanto l'esperienza. Le nuove canzoni di E, destinate a comporre i tasselli del capolavoro degli Eels, Electro-Shock Blues, non sono riflessioni astratte sul significato della morte: sono tracce di esperienza di un uomo di fronte alla drammaticità dell'esistenza. Un uomo che solo la catarsi della musica riesce a salvare dal baratro.
Con cruda sincerità, E racconta allora di funerali, ospedali, malattie mentali e radioterapia, riuscendo a non perdere mai la propria ingenua sensibilità poetica e l'acutezza della propria ironia e muovendosi con leggerezza tra limpide chitarre, vecchie tastierine e parche orchestrazioni. I veri protagonisti di Electro-Shock Blues sono i fantasmi familiari di E: i versi del "Preludio" posto a incipit del booklet appartengono alla nonna, Katharine Kennedy, mentre il disegno del ragazzo che piange sul latte versato riportato all'interno è un vecchio schizzo del padre e le liriche della title track sono tratte dal diario della sorella Elizabeth.

"Se Beautiful Freak era la nostra cartolina verso il mondo, Electro-Shock Blues è una telefonata nel cuore della notte alla quale il mondo non vuole rispondere", afferma E a proposito del significato dell'album. Quelle di Electro-Shock Blues sono canzoni tristi sulla felicità e canzoni felici sulla tristezza: secondo E, "essere felici significa essere felici e tristi allo stesso tempo, ed essere tristi significa essere tristi e felici. È come la formula Motown: accompagnare testi tristi a musica allegra".
Gli arpeggi cristallini che introducono "Elizabeth On The Bathroom Floor" scivolano come gocce di rugiada su guance scavate dalle lacrime. Come un terribile monito, il primo tentativo di suicidio della sorella di E rimane sospeso nell'aria con la sua raggelante franchezza: "Svegliarsi è più difficile quando vuoi morire". Ma non c'è spazio per le illusioni e l'incubo peggiore diventa subito realtà con la marcia funebre di "Going To Your Funeral Part I", sotto il sole crudele di "un giorno perfetto per un perfetto dolore".
Lo sgomento di E di fronte alla morte è tanto più struggente quanto più evita di cadere in toni prevedibilmente funerei. Dai cinici clangori di "Cancer For The Cure", incalzanti come una versione spettrale della "Devil's Haircut" di Beck, si passa in un batter d'occhio al gioco di inserti sinfonici su danza pop di "My Descent Into Madness", semplice e geniale come la Beta Band degli esordi riletta dagli Wilco, per poi tuffarsi nel jazz malato di "Hospital Food" e nel falsetto alla Prince di "Efil's God".

I flashback sulla vita di Elizabeth Everett riportano all'innocenza dell'infanzia con il candore acustico targato Belle & Sebastian di "3 Speed", ma poi arrivano le finestre sbarrate dell'ospedale psichiatrico di "My Descent Into Madness" e l'angoscia del sospiro trattenuto di pianoforte di "Electro-Shock Blues". Così, il carillon di ectoplasmi di "Last Stop: This Town" si innalza tintinnando, gonfio della nostalgia dell'ultimo addio, in un irresistibile climax di chitarre dai riverberi liquidi e frastagliati. Poco dopo il funerale della sorella, la padrona di casa di E gli aveva raccontato di avere visto il fantasma di una giovane ragazza aggirarsi nell'appartamento mentre E era fuori. Dopo un primo momento di terrore, E ricorda di avere pensato che sarebbe stato bello che Elizabeth tornasse per salutarlo. Nel perfetto marchingegno pop di "Last Stop: This Town", frutto ancora una volta della collaborazione con Mike Simpson, E immagina allora che la sorella, proprio come nel disegno sulla copertina del disco, venga a volare per l'ultima volta insieme a lui sui tetti della città, gettando nel panico il vicinato…

Nella seconda parte di Electro-Shock Blues, l'eclettismo iniziale dell'album lascia spazio a una più rarefatta atmosfera cantautorale, capace di unire la fragilità di Elliott Smith al minimalismo degli Sparklehorse. Dopo il breve accenno alla memoria del padre di "Baby Genius", basata sul campionamento di un inno religioso, l'attenzione si sposta sulla malattia della madre: elegie scarne e sanguinanti come "Dead Of Winter", "Climbing Up To The Moon" (con la collaborazione di Grant Lee Phillips, T-Bone Burnett e Jon Brion) e "Ant Farm", impreziosita dal canto del violino di Lisa Germano, lasciano senza fiato per la loro purezza.
Stavolta anestetizzarsi dal dolore non serve: non basta una dose di "novocaina per l'anima", perché "la medicazione sta perdendo i suoi effetti" e non si può sfuggire alla sofferenza, come canta E in "The Medication Is Wearing Off". Ma proprio quando tutto ciò che ama sembra svanire di fronte ai suoi occhi, per E diventa più che mai evidente come ci sia qualcosa al fondo dell'io che è fatto per non scomparire nel nulla: "I will not fade into the night", è il grido che nasce dal suo cuore nel guardare la madre spegnersi lentamente in "Dead Of Winter". Anche nell'arida terra del dolore più acuto può sbocciare il seme di quell'imprevista speranza affidata alla conclusione dell'incantevole "P.S. You Rock My World": "I was at a funeral the day I relized / I wanted to spend my life with you (…) And I was thinking 'bout everyone is dying / And maybe it's time to live".

Electro-Shock Blues viene pubblicato nell'ottobre del 1998 ed è sostanzialmente opera personale di E con una variegata serie di collaboratori occasionali, tra i quali l'unico componente fisso degli Eels è il batterista Butch. Mr. E presenta l'album con la consueto umorismo nero: "Suicidio, morte, depressione, tutta questa roba… Coraggio, sono queste le cose che fanno vendere i dischi! I ragazzi amano il cancro. Venderà un sacco. La gente ama sentire la parola cancro alla radio". In effetti, chi non ha mai desiderato canticchiare sotto la doccia una canzone sul cibo da ospedale…?
La prima persona a cui E sottopone il suo nuovo lavoro è come al solito John Carter, ma stavolta la reazione è molto diversa da quella che E si aspetta: per Carter un disco del genere non ha nessuna possibilità di venire pubblicato. Dopo essersi messo così apertamente a nudo, E è annientato dal fatto di sentirsi incompreso dalla prima persona che ha creduto nella sua musica. Ma Electro-Shock Blues ha un’importanza talmente vitale per lui che decide di proseguire anche senza l’appoggio di Carter.
I fatti gli danno ragione: quando viene pubblicato, nell'ottobre del 1998, il disco incontra subito l'entusiastico favore della critica e il surreale video di "Last Stop: This Town", incentrato su un folle macchinario che trasforma una carota in un clone di E, conquista una nomination agli Mtv Video Music Awards, mentre l'altro singolo tratto dall'album, "Cancer For The Cure", viene inserito nella colonna sonora di "American Beauty". Gli Eels vanno in tour con un nuovo bassista, Adam Siegal, al posto di Tommy Walter,, attraversando prima gli Stati Uniti e poi l'Europa, come supporto dei Pulp. Il loro show offre ancora una volta un approccio molto più rock rispetto al clima del disco, alternando chitarre taglienti e sussurri acustici. A documentare i concerti del tour viene messo in vendita nel 2002, tramite il sito ufficiale degli Eels, un disco live dal titolo Electro-Shock Blues Show, che è ben più di un semplice souvenir per i fan, come dimostrano l'aspra "Souljacker Part I", all'epoca inedita e che quattro anni dopo sarebbe diventata il singolo di punta dell'album Souljacker, la strepitosa versione spagnoleggiante di "Novocaine For The Soul" e lo sfrontato abbinamento della melodia di "My Beloved Monster" prima con il riff leggendario di "Satisfaction" e poi, nella ghost track, con il classico di Smokey Robinson "My Girl".

Maybe it's time to live


Daisies Of The GalaxyNel corso del tour di Electro-Shock Blues, E viene raggiunto dalla notizia della morte della madre: una notizia che il semplice fatto di essere ormai da tempo annunciata non rende certo meno dolorosa. Per non soccombere al vuoto che si spalanca nella sua vita, per E c'è solo un metodo: aggrapparsi ancora una volta alla musica.
Mr. E ricorda di essersi svegliato una mattina come tante altre e di essersi reso conto all'improvviso di avere un incontenibile bisogno, per andare avanti, di fare qualcosa che potesse esprimere tutto il suo amore per la vita. Così, ad appena qualche mese di distanza dalla pubblicazione di Electro-Shock Blues, E comincia a comporre una quantità di nuove canzoni nello scantinato di casa, ripartendo da quella nota positiva su cui si era chiuso il disco precedente. Il senso di nuovo inizio che anima E lo induce a sfidare sé stesso, visto che, secondo lui, "è molto più difficile scrivere canzoni allegre che canzoni tristi".

Registrato nella primavera del 1999, Daisies Of The Galaxy esce solo nel marzo del 2000, dopo essere rimasto per mesi nei cassetti della casa discografica, delusa dalla mancanza di un singolo a facile presa da cavalcare. Secondo E, il terzo album firmato Eels è "un antidoto a Electro-Shock Blues", è come "la telefonata della sveglia dell'hotel che annuncia che la tua deliziosa colazione è pronta".
Nelle canzoni di Daisies Of The Galaxy è anzitutto il punto di vista a mutare profondamente, sostituendo all'introspezione del disco precedente lo sguardo di una pluralità di personaggi. Dal punto di vista musicale, poi, la differenza rispetto a Electro-Shock Blues e Beautiful Freak appare ancora più evidente. "No samples were harmed during the making of this record", proclama orgogliosamente E nelle liner notes del disco: gli Eels lasciano da parte il loro lato beckiano e privilegiano un songwriting solare e raccolto, che affonda le proprie radici nella più classica tradizione americana. Accanto ad E e al fido Butch, c'è ancora la partecipazione di Grant Lee Phillips, mentre in "Estate Sale" compare la chitarra di Peter Buck dei R.E.M. Il risultato è una perfetta unione tra la malinconia gioiosa dei Go-Betweens e una sensibilità intimista a metà strada tra Ed Harcourt e Joseph Arthur. Rispetto alla multiformità degli album precedenti, in Daisies Of The Galaxy spicca subito la sostanziale omogeneità di atmosfera, che alterna ballate acustiche dolcemente orchestrali a incalzanti giri di basso, come quelli di "Flyswatter", "The Sound Of Fear" e "Mr. E's Beautiful Blues". Le volute degli archi, arrangiati da Jim Lang, conferiscono alle composizioni degli Eels un'eleganza cantautorale che rimanda direttamente allo stile raffinato e pungente di Randy Newman: "Siamo entrambi persone a cui piace rovinare belle canzoni mettendoci un verso che impedirebbe a Céline Dion di farne una cover", scherza E in proposito.

Caso più unico che raro nel mercato discografico, il singolo di lancio di Daisies Of The Galaxy, "Mr. E's Beautiful Blues", prodotto insieme al solito Mike Simpson, è in realtà una ghost track. Il fatto è che, secondo E, la canzone non avrebbe dovuto essere inserita nell'album, essendo stata registrata diversi mesi dopo gli altri brani del disco, ma la casa discografica ha voluto a tutti i costi che comparisse. Una volta tanto, però, non si può dare torto alla logica dell'industria musicale: "Mr. E's Beautiful Blues", infatti, è uno scintillante gioiello pop che traduce il rock'n'roll dei tempi de "La Bamba" in una briosa divagazione indie, incollandosi alla memoria con il sorriso dolceamaro del suo irresistibile "Goddamn right, it's a beautiful day, ah ah".
L'attacco di Daisies Of The Galaxy prende le mosse ancora una volta da un funerale. Ma stavolta è un funerale nello stile di New Orleans, quello descritto dalla banda di ottoni di "Grace Kelly Blues": "è una musica fatta per celebrare la vita", spiega E. La successiva delizia folk di "Packing Blankets" è il perfetto anello di congiunzione con Electro-Shock Blues, con la sua voglia di ricominciare a vivere in un giorno di sole. Il ricordo, in Daisies Of The Galaxy, si veste di apparenze più dolci che in passato, come nel gioco di stop and go fischiettante di "I Like Birds", che rende omaggio alla memoria della madre e al suo amore per i pennuti, o nel breve e fluttuante strumentale "Estate Sale", ispirato a quando E, nel corso della registrazione dell'album, è stato costretto a tornare in Virginia per svuotare la vecchia casa dei genitori.

La nuda sofferenza del disco precedente si ritrova soltanto nel commovente lieder per piano e archi di "It's A Motherfucker". Una canzone che porta gli Eels al centro delle cronache, ma non per i loro meriti musicali: Daisies Of The Galaxy, infatti, viene dato in omaggio ai partecipanti a una convention dei democratici in supporto di Al Gore e lo staff di George W. Bush non esita ad accusare il suo avversario di diffondere materiale diseducativo, visto l'abbinamento tra il titolo non proprio da educande di "It's A Motherfucker" e i toni da vecchio sussidiario per bambini dell'artwork. Alla fine, l'unico risultato dell'ipocrita querelle è che gli Eels devono sfoderare una paradossale versione politically correct del brano, intitolata "It's A Monstertrucker"…
"Flyswatter", con i suoi campanelli da fiaba gotica e il suo balletto fantasmatico, conduce Daisies Of The Galaxy nella sua parte più movimentata, insieme allo scherzo a base di organo e batteria di "Tiger In My Tank", che E definisce "un jingle anti pubblicità" ed in cui gli Eels si divertono a prendere in giro la moda della musica prestata agli spot. Nonostante la quantità di offerte ricevute, gli Eels si ostinano a rifiutare ogni utilizzo della loro musica a fini pubblicitari: secondo E, "dipende da quanto le tue canzoni significano per te. Quando ho scritto 'Last Stop: This Town' non stavo pensando a un profumo, ma alla morte di mia sorella…". In un mercato in cui ormai l'unico modo di conquistare le classifiche sembra essere quello di trasformare la propria musica in una suoneria da cellulare, ci vuole una buona dose di coraggio per fare una scelta di campo del genere.

La felicità che accompagna E durante le registrazioni di Daisies Of The Galaxy non dura però fino all’uscita dell'album. Nei lunghi mesi di limbo in cui il disco sembra non trovare nessuno interessato a pubblicarlo, E ripiomba nella depressione e al momento di tornare in tour non ha nessun desiderio di suonare quelle canzoni che non riescono più a rispecchiare il suo stato d'animo. La svolta viene dal batterista Butch che, dopo avere esagerato una sera con la pizza, sogna un concerto con tanto di archi e fiati, in cui lui suona i timpani e gli Eels eseguono una ouverture in grande stile… Un'idea così balzana non può ovviamente che entusiasmare il leader della band, che decide di dare vita alla "Eels Orchestra": in compagnia di Butch e Lisa Germano, E raccoglie un variegato ensemble e parte per il più multicolore tour della storia degli Eels che, proprio come nel sogno di Butch, si apre con una ouverture strumentale in cui vengono accennati i motivi dei brani storici del gruppo.
Anche in questo caso, il tour viene immortalato da un disco live messo in vendita on line dalla band, Oh What A Beautiful Morning. Dalle note di piano che scandiscono l'inizio di "Feeling Good" al Ray Charles ottimista di "Oh What A Beautiful Morning", anche questo album è una fiera di splendide sorprese, tra cui brillano le versioni acustiche di "Grace Kelly Blues" e "Mr. E's Beautiful Blues" e le improvvisazioni jazzistiche di "Flyswatter".
Negli Stati Uniti, E va in tour nel 2000 non solo con la sua "Eels Orchestra", ma anche in versione solista, come supporto a Fiona Apple.
Daisies Of The Galaxy raccoglie ancora una volta pieni consensi tra la critica, e il regista Ron Howard inserisce un brano inedito degli Eels, "Christmas Is Going To The Dogs", nel suo film natalizio "Il Grinch", mentre "Mr. E's Beautiful Blues" finisce nella colonna sonora della commedia per teenager "Road Trip". Il rapporto tra Hollywood e gli Eels si fa sempre più stretto, anche se E confessa di non esserne troppo entusiasta, visto che spesso si trova a non sapere nulla del film in cui le sue canzoni verranno utilizzate: per “Road Trip”, addirittura, viene in pratica costretto dalla casa discografica a girare un video con i protagonisti del film, che per E rimarrà una delle esperienze più umilianti della sua carriera.

The souljacker can't get my soul


SouljackerDurante la registrazione di Electro-Shock Blues, E si lascia convincere a partecipare a un ritiro di meditazione nei boschi della California. Nel silenzio innaturale di quei giorni, E comincia a riflettere sulla figura di un serial killer che aveva occupato le cronache americane nel corso degli anni Novanta e che la stampa aveva battezzato "Soul Jacker", perché sosteneva di non voler semplicemente uccidere le proprie vittime, ma di voler anche rubare la loro anima. Suggestionato da quanto letto sui giornali, E è colpito soprattutto dall'idea che si possa perdere la propria anima non tanto per una qualche minaccia esterna, ma per il semplice fatto di non sapere neppure di averla. "La gente è presa da mille distrazioni e non riconosce più quello che dovrebbe essere al primo posto nella vita", sostiene. "Come puoi difendere quello che non sai di avere? Ma nessuno può prendere la tua anima se tu non glielo permetti". Nella mente di E si affacciano i primi versi di quella che sarebbe diventata "Souljacker Part II" ma, visto che nel ritiro in cui si trova è tassativamente vietato leggere, scrivere e parlare, E deve chiudersi in bagno di nascosto e prendere appunti sulla carta igienica per non lasciarsi sfuggire l'intuizione…

È sin dal 1998, quindi, che E comincia a lavorare al progetto di un disco dal titolo Souljacker. Nello stesso anno, mentre è in Gran Bretagna per promuovere Electro-Shock Blues, E incontra dietro le quinte di "Top Of The Pops" il chitarrista inglese John Parish, che partecipa alla trasmissione come membro della band di PJ Harvey. Tra i due l'intesa è immediata e da quel giorno si sviluppa un'amicizia che li porta alla decisione di collaborare insieme per la realizzazione di un album. Le prime registrazioni cominciano così a viaggiare dalla cantina di E a Los Angeles fino a quella di John Parish a Bristol: in mezzo ci sono anche alcune canzoni scartate da Electro-Shock Blues, come "Souljacker Part I", già suonata dal vivo dagli Eels. Nel 2000, presentando Daisies Of The Galaxy, E afferma di avere pronto un altro album dall'atmosfera più cupa e oscura, pieno di feedback di chitarra: "Avevo pensato di farli uscire insieme come un doppio album, ma sono troppo differenti. Chissà, forse sarebbe stato il mio capolavoro…".
Solo alla conclusione del tour di Daisies Of The Galaxy, E decide di portare finalmente a compimento l'idea del "ladro di anime", ritrovandosi insieme a John Parish per sviluppare i bozzetti raccolti nel corso degli anni.
Souljacker è pronto per la pubblicazione nel settembre del 2001, ma l'attentato alle Twin Towers blocca l'uscita del disco negli Stati Uniti: in copertina, infatti, E sfoggia un minaccioso look da terrorista stile Unabomber, con una folta barba nera, gli occhiali scuri e il cappuccio calato sul volto. Non proprio il massimo, per un Paese in cui la ferita dell'undici settembre è ancora aperta… Così, l'album esce in un primo momento solo in Europa, mentre negli Stati Uniti viene pubblicato nel marzo dell'anno successivo.

Per chi ha conosciuto gli Eels come fautori di una musica fatta di malinconia acustica e di sample arguti, l'impatto di Souljacker è straniante: fin dalle prime note del disco, infatti, a dominare la scena è il suono distorto di chitarre elettriche abrasive e squadrate, che culminano negli spigoli del singolo "Souljacker Part I", accompagnato da un video girato da Wim Wenders in un vecchio carcere abbandonato di Berlino Est. Il fatto è che il riffarama alla ZZ Top di brani come "Dog Faced Boy" e "Teenage Witch" è divertente, ma di grana grossa e anche quando i toni si piegano a un pop più flessuoso sembra mancare in alcuni passaggi il senso dell'equilibrio dei dischi precedenti, finendo per rendere troppo smargiassi gli spunti di brani come "That's Not Really Funny" e "Jungle Telegraph".
Le morbidezze caramellate di "Friedly Ghost" e "Fresh Feeling" avvolgono il palato con il loro sapore tipicamente eelsiano, ma è negli episodi più lineari ed essenziali, come le crepuscolari ballate "Bus Stop Boxer" e "Woman Driving, Man Sleeping", che si ritrova intatta tutta la genialità di E. Quanto all'alto tasso di glucosio che si ritrova nelle liriche di alcuni brani di Souljacker, bisogna ricordare che, nel corso del 2000, E si è sposato con una dentista russa conosciuta durante il suo soggiorno in specie di clinica per la rigenerazione dello spirito in Germania: proprio alla moglie sono dedicate "Fresh Feeling" (il cui arioso motivo di archi non è altro che il campionamento di un brano di Daisies Of The Galaxy, "Selective Memory"), "World Of Shit" e il sabba punk di "What Is This Note?". Il matrimonio durerà solo qualche anno, ma per E rimarrà uno dei periodi più felici della sua vita.

Sulla falsariga di Beautiful Freak, Souljacker è una carrellata di personaggi strambi ed emarginati, dal ragazzo dalla faccia di cane alla strega adolescente, fino al pugile della fermata dell'autobus, ispirato al racconto fatto durante la registrazione del disco da uno degli ingegneri del suono, che da piccolo veniva incitato tutti i giorni dal padre, quando lo accompagnava al bus della scuola, a fare a botte con i compagni… Secondo E, per mantenere la metafora telefonica usata per i dischi precedenti, Souljacker è come "una telefonata dalla reception che annuncia che la tua anima è stata lasciata al concierge e che puoi andarla a ritirare quando vuoi". Il grido rabbioso di "Souljacker Part I" descrive il punto di vista di due ragazzi che l'anima l'hanno già persa e che ormai sono pronti a tutto, proprio come demoni dostoevskijani immersi nell'America annoiata e indifferente delle stragi nelle aule della scuola. Ma il sussurro di "Souljacker Part II", posto quasi in chiusura dell'album, è l'estrema dichiarazione di speranza nella possibilità che la nostra anima possa ancora salvarsi.

Di fronte alla "svolta elettrica" degli Eels, il pubblico rimane disorientato e anche la critica accoglie l'album piuttosto freddamente. Nonostante la maggiore immediatezza di impatto e la presenza di un pugno di brani all'altezza dei classici della band, Souljacker rimane così l'episodio meno convincente della discografia degli Eels.
Sul palco, le canzoni di Souljacker diventano ancora più dure e sferraglianti, affiancandosi alle incredibili riletture punkettare di "Mr. E's Beautiful Blues" e "I Like Birds" in stile Ramones e a cover improbabili come quella di "Get Ur Freak On" di Missy Elliott. Il "Bus Driving, Band Rocking Tour" impegna E per tutto il 2002 e vede la partecipazione di John Parish alla chitarra (cui subentra Joe Gore nei concerti americani), Butch alla batteria e Kool G Murder al basso, che si presenta in scena tutte le sere con una calza di nylon da rapinatore sul viso…
Ad alimentare la notorietà degli Eels, contribuisce nel frattempo l'inserimento di "My Beloved Monster" nella colonna sonora di un blockbuster del calibro di "Shrek": un accostamento, quello tra il buffo orco verde e i freak inventati da Mr. E, che risulta azzeccato come non mai.

Everybody knows these are rock hard times


Shootenanny!Dopo la controversa accoglienza riservata a Souljacker, E ha in mente l'ambizioso progetto di un disco in grado di rappresentare la summa di quanto espresso dagli Eels nel corso della loro carriera, un disco in cui poter riflettere la consapevolezza acquisita alla soglia dei fatidici quarant'anni. Ma, mentre le canzoni di quello che considera come "la madre di tutti gli album degli Eels" cominciano ad accumularsi, E non riesce a stare fermo e ha bisogno di prendersi qualche svago creativo dal mastodontico lavoro. "Non ho mai il blocco dello scrittore", afferma E con convinzione. "Piuttosto ho il problema contrario: non riesco mai a fermarmi, scrivo in maniera compulsiva. È una tortura: certe sere me ne sto a casa a guardare un film e dopo dieci minuti sento che devo scrivere una canzone e se provo a ignorarla il pensiero che magari quella canzone è sfuggita per sempre mi fa diventare matto…".

Così, nel corso del 2003, E dà alle stampe addirittura tre nuovi dischi, per la gioia dei sempre più numerosi fan degli Eels. Il primo lavoro viene pubblicato sotto il nuovo pseudonimo di "MC Honky" e si intitola, senza mezzi termini, I Am The Messiah. Mr. E nega fermamente che MC Honky sia il suo alter ego e sostiene di essere semplicemente il suo scopritore, inventandosi una folle storia secondo cui dietro al moniker di MC Honky si nasconderebbe in realtà un cinquantacinquenne di Silverlake che, dopo avere lavorato alla Capitol con Frank Sinatra e Sammy Davis jr., avrebbe deciso di dedicarsi alla lavorazione della ceramica… Ma la figlia avrebbe fatto avere a E una sua cassetta, e così si sarebbe arrivati alla pubblicazione dei disco. Visto che un tale racconto viene da uno come E, che ha sempre indicato il caustico e surreale comico americano Andy Kaufman come il suo idolo, non c'è da credere che abbia un grande fondamento di verità… Quello che è certo è che I Am The Messiah suona come un'eccitante versione degli Eels da dancefloor alternativo, che sciorina un caleidoscopio di beat degni di un dj fissato con l'indietronica.

La seconda divagazione che E si concede nel 2003 è il perfetto coronamento dello stretto rapporto da sempre esistente tra il cinema e la musica degli Eels. Mr. E compone infatti la colonna sonora del film Levity di Ed Solomon: due brani, "Skywriting" e "Taking A Bath In Rust", vengono presentati a nome Eels, mentre il resto della soundtrack porta per la prima volta l'esplicita firma di Mark Oliver Everett, e non dell'uomo chiamato E. Il disco, incentrato su composizioni prevalentemente strumentali, è soffice come una nube primaverile e rappresenta l'opera più rarefatta e d'atmosfera partorita dal leader degli Eels. Come se non bastasse, poi, gli Eels regalano altri due meravigliosi inediti, "Mighty Fine Blues" e "Eyes Down", all'ennesima colonna sonora, quella del film "Holes - Buchi nel deserto".

Ma sia il disco a nome MC Honky, sia gli impegni cinematografici non sono altro che gustosi antipasti nell'attesa del nuovo album vero e proprio degli Eels, che esce nell'estate del 2003. Il titolo, come di consueto, è all'altezza dello spirito beffardo di E: Shootenanny! è infatti un delirante neologismo che, prendendo spunto dal termine "hootenanny" (con cui i folksinger degli anni Sessanta amavano definire i loro raduni), vorrebbe indicare, stando alle parole di E, "a social gathering at which participants engage in folk singing and sometimes dancing, but mostly the shooting of guns"…
Registrato in appena una decina di giorni con Joe Gore alla chitarra, Kool G Murder al basso e Butch alla batteria, Shootenanny! è il disco degli Eels che si presenta più di ogni altro come il lavoro di una live band. Niente concept, stavolta, per gli Eels: Shootenanny! ambisce a rappresentare "solo" una raccolta di magnifiche canzoni, anche se forse, rispetto ai primi tre album del gruppo, manca quel lampo capace di lasciare per un istante a bocca aperta.

Tra il power pop solo apparentemente solare di brani come "Rock Hard Times", il torrido blues di "All In A Day's Work" e gli arpeggi di chitarra di "Restraining Order Blues", "The Good Old Days" e "Numbered Days", la mente corre più ai primi acerbi lavori solisti di E che non alle contaminazioni di Electro-Shock Blues: più R.E.M. che Beck, insomma, anche se "Love Of The Loveless" regala ammiccamenti elettronici degni dell'intelligenza pop di Beautiful Freak.
La spontaneità di brani come "Wrong About Bobby" suona in realtà come un semplice riempitivo, mentre lo spigliato rock'n'roll del singolo "Saturday Morning" si diverte a giocare ancora una volta con l'immaginario infantile di E, raccontando la noia di un bambino che deve aspettare il risveglio dei genitori il sabato mattina, con un video in cui il leader della band in pigiama prepara gustosi pancake in un capanno nel bosco e viene raccolto da un camion di teenager-zombie… Ma poi la voce polverosa di Mr. E e la carezza del violino di Lisa Germano fanno sì che la dolorosa consapevolezza di brani come la distorta e sofferente "Agony" si sciolga nella speranza della conclusiva "Somebody Loves You".
La sensazione, tuttavia, è che E abbia finito per disperdere le energie nei propri progetti paralleli: alla fine, così, Shootenanny! sembra risentire di un eccesso di prolificità, lasciando intravedere a tratti dei cali di ispirazione che un maggiore lavoro di affinamento avrebbe probabilmente potuto evitare.

La partenza del tour di Shootenanny! riserva ai fan degli Eels una brutta sorpresa: il lungo rapporto con Butch si interrompe bruscamente per divergenze economiche divenute insanabili, anche se la versione ufficiale è che il batterista è impegnato con Tracy Chapman. Al suo posto arriva Puddin' alla batteria, mentre alla chitarra c'è Chet Lyster (poi ribattezzato The Chet) e al basso Kool G Murder (all'anagrafe Rusty Loggsdon). Come di consueto, anche per il "Tour Of Duty" del 2003 gli Eels diffondono nel 2005, tramite i propri personali canali distributivi, un album live intitolato Sixteen Tons (Ten Songs), frutto di una session presso una stazione radiofonica americana. Anche se si tratta di un disco meno efficace rispetto a Electro-Shock Blues Show e Oh What A Beautiful Morning, la resa dal vivo dei brani di Shootenanny! è energica e brillante e c'è spazio anche per le cover della beatlesiana "I'm A Loser" e del classico blues "Sixteen Tons".
Mr. E arriva spossato alla fine del tour: la sua voce è al limite e quando torna a casa deve sottoporsi ad un intervento chirurgico per rimuovere una cisti nasale. Durante i mesi di convalescenza, per la prima volta si trova a non poter registrare nuove canzoni. Ma nulla gli impedisce di elaborare il concept del suo nuovo disco…

Alive in a magic world


Blinking LightsNell'aprile del 2005, E riesce finalmente a coronare il sogno dell'album che ormai da anni aveva in mente di realizzare. Pubblicato per una nuova casa discografica, la Vagrant, dopo che la Universal ha acquisito la Dreamworks ed ha liquidato gli Eels senza degnare nemmeno di un ascolto il nuovo materiale, Blinking Lights And Other Revelations è un disco che viene da lontano: il tema portante dell'album risale addirittura al 1997 e i brani che lo compongono sono stati scritti da E nel suo scantinato a Los Angeles nel corso degli anni, nelle pause tra un disco o un tour e l'altro. Non c'è da stupirsi, allora, che il sesto disco degli Eels si presenti come un ambizioso doppio album, che raccoglie ben 33 nuove composizioni per oltre un'ora e mezza di musica. Questo nuovo, mastodontico lavoro, pur non raggiungendo i vertici di intensità di un album capace di inchiodare l'anima come Electro-Shock Blues, appare sin da subito come il più brillante disco degli Eels dai tempi di Daisies Of The Galaxy, di cui suona a tutti gli effetti come il diretto successore.

Sono una vera e propria enciclopedia eelsiana i due cd di Blinking Lights And Other Revelations. Ci sono i classici accordi di chitarra acustica, fatti apposta per accarezzare la ruvida voce di Mr. E nei suoi più intimi sussurri. Ci sono le inconfondibili giostre indie-pop di cui gli Eels sono sempre stati maestri, piene di voci filtrate, tastiere allegramente vintage, rintocchi di batteria e giocattoli elettronici, con persino una escursione dalle parti di Beautiful Freak in "Sweet Li'l Thing". E ci sono le ballate pianistiche alla Randy Newman, il cui campionario è stavolta migliore che mai, dalla vecchia "Suicide Life" a "The Stars Shine In The Sky Tonight", alle quali si aggiunge una serie di brevi brani strumentali, leggeri e ariosi come le composizioni scritte da Badly Drawn Boy per la colonna sonora di "About A Boy". Tutti elementi che conducono gli Eels a raggiungere il loro suono perfetto, con quella luccicante pulizia di archi, fiati, tastiere e campanellini che riesce a essere sempre misurata e non sovrabbondante. L'unico limite di un'opera del genere, semmai, è proprio quello di fare da perfetto "bignami" di una carriera, spingendosi a volte ai limiti dell'autoplagio.
Ma quello che conta è che in Blinking Lights And Other Revelations di ispirazione ce n'è a bizzeffe: basta ascoltare il party nella casa dei fantasmi di "Old Shit / New Shit", che con la sua spigliatezza si libra tra gli ululati di qualche amichevole spettro. Come resistere allo spregiudicato incontro tra Van Morrison e Smash Mouth di "Hey Man (Now You're Really Living)" o alla sarabanda di organo e tastiere che nasce in coda all'incalzante ticchettio di "Trouble With Dreams"? Oppure, nel lato più intimistico, come non innamorarsi del delicato country-folk di "Railroad Man" o del blues scavato di amarezza di "I'm Going To Stop Pretending That I Didn't Break Your Heart"?
Accanto ad E, come di consueto, oltre ai batteristi Butch e Puddin', al bassista Kool G Murder e al chitarrista The Chet, c'è un lista di ospiti illustri: da Peter Buck, che contribuisce a rendere dolcemente remmiana la splendida "To Lick Your Boots", a Tom Waits, che latra da par suo in "Going Fetal", fino a John Sebastian dei Lovin' Spoonful, che suona l'autoharp nella strumentale "Dusk: A Peach In The Orchard".

Quella alla base di Blinking Lights And Other Revelations è un'intuizione semplice e perfetta: la vita funziona proprio come le luci intermittenti del titolo, è fatta di un incessante alternarsi di momenti in cui ogni cosa sembra svelare il suo significato e di momenti in cui tutto sembra ripiombare nell'oscurità. L'unica cosa che conta è rimanere attaccati a quegli istanti di rivelazione, lasciando che diventino la strada da seguire.
Non bastano i sogni, a sostenere la vita. Il guaio con i sogni, ammoniscono gli Eels in "Trouble With Dreams", è che non si realizzano, e quando si avverano ormai non possono più raggiungerti. Piuttosto, è l'aspirazione a un luogo a cui appartenere che può riaprire il cuore alla realtà: un luogo dove lasciare che l'acqua lavi ogni menzogna, come canta E nella fluttuante e soffusa "In The Yard, Behind The Church". Allora la vita ritrova la sua verità e puoi dire finalmente, come in "Hey Man (Now You're Really Living)", di "stare davvero vivendo", sia quando ti ritrovi disteso sul pavimento a gridare fino a quando non ce la fai più, sia quando sei innamorato di una ragazza che ti fa sentire come se il mondo non fosse cattivo. Solo così il destino può diventare una strada da percorrere, e non più una maledizione incombente: "It's not where you're coming from, it's where you're going to / And I just wanna go with you", è la conclusione di "The Stars Shine In The Sky Tonight".

Blinking Lights And Other Revelations spazza via tutte le incertezze sollevate dalla critica rispetto ai precedenti Souljacker e Shootenanny!, conquistando recensioni entusiastiche. Sempre nel 2005, gli Eels pubblicano un Ep contenente, oltre al singolo "Hey Man (Now You're Really Living)", due brani inediti e una versione live di "Love Of The Loveless" ed offrono in esclusiva ai clienti di iTunes la possibilità di scaricare una compilation di b-sides e rarità.
Nell'album tributo a Daniel Johnston, "Discovered Covered", si possono poi ascoltare gli Eels affrontare con il loro caratteristico stile "Living Life". Inevitabile, infine, l'appuntamento con il secondo capitolo di "Shrek", nella cui colonna sonora gli Eels compaiono con l'inedita "I Need Some Sleep". Un altro inedito, "I Want To Protect You", finisce invece ad accompagnare le immagini del film "The Big White".

Mentre le volute di fumo del suo sigaro volteggiano nella penombra del portico di casa, nella mente di E si materializza una nuova idea. "Perché non fare un concerto in cui poter fumare liberamente il sigaro durante lo spettacolo?", racconta di essersi chiesto. Fulminato da una tale intuizione, E comincia ad immaginare la sua entrata in scena appoggiato ad un bastone da passeggio ed avvolto in una fitta coltre di fumo. Intorno a lui ci sono violini, violoncelli, pianoforti, tastiere d'antiquariato… e una sega. A quel punto il sogno è talmente vivido da imporre al leader degli Eels di realizzarlo senza esitazioni.
Così, Mr. E affronta nel 2005 un nuovo giro del mondo con l'inedito progetto Eels With String: un'avventura che viene immortalata l'anno successivo nel primo vero album dal vivo della band, Live At Town Hall, che finalmente non riserva soltanto ai fedelissimi la possibilità di catturare la più intima essenza della creatura di Mr. E nel suo esprimersi di fronte al pubblico.
Registrato nel giugno del 2005 sul palco dello storico teatro newyorchese già calcato da nomi del calibro di Leonard Bernstein, Miles Davis e Billie Holiday, Live At Town Hall presenta gli Eels nella formazione più affollata della loro storia, con l'accompagnamento di un quartetto d'archi al femminile e con i due strabilianti polistrumentisti The Chet e Big Al ad alternarsi tra chitarra, contrabbasso, pianoforte, celesta, organo a pompa, lap steel, autoharp, melodica e un'infinità di altri ammennicoli, tra cui un bidone della spazzatura ed una valigia da viaggio che consentono a The Chet di dare vita a ritmiche dal pulsante calore.
La dimensione teatrale si rivela il contesto ideale per le atmosfere di Blinking Lights And Other Revelations, riuscendo a suggerire nuove sfumature anche alle trame di classici come "My Beloved Monster". Perché per Mr. E un concerto non è quella sorta di mortificante "greatest hits con applausi" che sempre più spesso viene propinato al pubblico, ma è davvero, secondo la lezione dylaniana, un'occasione sempre nuova per ricreare i propri brani, per dipingere un quadro in continuo movimento. "È una sofferenza ascoltare una vecchia canzone", confessa E. "Senti tutte le cose che vorresti cambiare. La bellezza di una performance dal vivo, invece, sta nel fatto che quelle cose le puoi cambiare davvero e riadattarle al presente".

Lungo tutta la durata di Live At Town Hall, la musica degli Eels si libra come un'unica, incantata suite cameristica, accarezzando ogni brano con orchestrazioni misurate su cui la voce di E scava un solco di lacrime e sorrisi. Dalla giocosità contagiosa di "I Like Birds", "Losing Streak" e "Trouble With Dreams" all'afflato drammatico di "Bus Stop Boxer", passando attraverso lo zucchero filato beatlesiano di "Dirty Girl" e la briosa dolcezza della cover di "Pretty Ballerina" dei Left Banke, fino al sognante omaggio al Dylan di "Girl From The North Country", ascoltare Live At Town Hall è come immergersi trattenendo il fiato in quel mondo bizzarro e commovente che gli Eels hanno saputo creare nel corso degli anni. Quasi non ci si accorge di essere arrivati all'epilogo del disco, che riassume nei versi di "Things The Grandchildren Should Know" tutto il senso di quell'ostinata positività dello sguardo con cui E va incontro al groviglio di gioia e sofferenza della vita: "So in the end I'd like to say / That I'm a very thankful man / I tried to make the most of my situations / And enjoy what I had/ I knew true love and I knew passion / And the difference between the two / And I had some regrets / But if I had to do it all again / Well, it's something I'd like to do".

A very thankful man


Useless TrinketsPer E un solo tour non è sufficiente a rendere degnamente onore ad un doppio album come Blinking Lights And Other Revelations. Lasciati da parte gli Eels With Strings, Everett e soci si imbarcano così nel 2006 in un nuovo tour, che si proclama sin dal titolo “No Strings Attached”: a presentarsi in scena è un trio rock robusto e senza compromessi, quasi a una versione dei White Stripes dalla vena più cantautorale. Una vera e propria parodia dei luoghi comuni del concerto rock, come suggeriscono la spavalda ripresa di “Rock Show” di Peaches e Iggy Pop e la costante presenza sul palco del bassista Krazy Al (già Big Al), impegnato a fare di tutto tranne che suonare il basso: si finge bodyguard, mima mosse di kung-fu, boxe e body building e tra un brano e l’altro snocciola i più retorici proclami da rockstar... “Eels define coolness”, titola Rolling Stone dopo l’esibizione della band a Lollapalooza.
Ancora una volta, a documentare il tour viene pubblicato nel 2008 un live semi-ufficiale, Live And In Person!, che parte con un’impetuosa e roboante resa di “Old Shit / New Shit” e “Eyes Down” per poi sfoderare l’immancabile “My Beloved Monster”, aggiornata in frenetica sarabanda soul, ed una distorta e onirica “Not Ready Yet”, fino al finale con una rilettura di “That’s Life” di Frank Sinatra che sembra fatta apposta per adattarsi allo sghembo sorriso di E.

Nel 2007, le uniche note provenienti dal pianeta Eels sono quelle della scalpitante “Royal Pain” inserita nella colonna sonora di “Shrek Terzo”. Ma questo non significa certo che E rimanga inattivo: alla fine dell’anno, la BBC manda in onda un documentario sulla vita e gli studi del padre di E, dal titolo "Parallel Worlds, Parallel Lives". Il documentario vede come protagonista E stesso, che intraprende un emozionante viaggio a ritroso alla ricerca della memoria del padre, accompagnato ovviamente dalla musica degli Eels.
All’inizio del 2008, poi, i fan degli Eels rischiano addirittura l’indigestione: anzitutto, Mr. E pubblica la propria autobiografia con il titolo programmatico di “Things The Grandchildren Should Know”, che viene iperbolicamente presentata da Pete Townshend come “uno dei migliori libri mai scritti da un artista contemporaneo”. Con il suo consueto stile piano e diretto, E racconta a cuore aperto le esperienze tragiche e felici della sua vita: “attraversare le sofferenze della mia vita ha reso gli altri momenti qualcosa in cui potevo davvero andare in profondità e che potevo essere capace di stimare”.

Come se non bastasse, poi, sempre nel gennaio del 2008, ecco arrivare in contemporanea due nuovi dischi: Meet The Eels, il primo greatest hits della band dopo dieci anni di carriera, e Useless Trinkets, una monumentale raccolta di ben 50 brani tra b-sides, cover e rarità varie. Uno sguardo all’indietro che sembra voler fissare un punto fermo dopo i fasti di Blinking Lights And Other Revelations, prima che gli Eels si cimentino con un nuovo capitolo della loro avventura. “Non ho mai amato guardare indietro perché è troppo doloroso. Ma farlo mi ha dato la sensazione di un peso sollevato dalle mie spalle. Credo che si possa chiamare catarsi”.

Come sempre in questi casi, la scelta dei brani di Meet The Eels (corredato da un dvd che raccoglie i video girati dagli Eels nel corso degli anni) non riesce a soddisfare le preferenze di tutti: non convince, ad esempio, l’esclusione di classici come “My Descent Into Madness” e “Bus Stop Boxer” per fare spazio ad episodi minori come “That’s Not Really Funny” o la tamarra cover di “Get Ur Freak On”.
Ma il piatto più ricco è rappresentato ovviamente dai gingilli inutili di Useless Trinkets: chi conosce gli Eels, infatti, sa perfettamente che è proprio tra i brani esclusi dai dischi ufficiali che si nascondono alcuni dei tesori più preziosi di Mr. E. Niente di più sbagliato, quindi, che liquidare questi due cd (più un dvd che raccoglie sei brani eseguiti a Lollapalooza nel 2006) come un semplice prodotto per fan di stretta osservanza: al contrario, si tratta di un’imperdibile occasione per ripercorre la storia dell'"Everettian rock", come E ha ribattezzato ironicamente la sua musica, giocando con il nome della scuola di pensiero nata dalle teorie del padre.

Nell’universo parallelo di Useless Trinkets si ritrovano allora quelle miniature cristalline di chitarre acustiche capaci di lasciare a bocca aperta per la loro disarmante semplicità; si viene trascinati ancora una volta dalle irresistibili slabbrature indie-pop di prodigiosi giocattoli come “Rotten World Blues” e “Eyes Down”; si incontrano i tratti familiari delle ballate pianistiche dall’impianto più classicamente cantautorale, tra cui la vecchia “Manchester Girl”.
Con un morso amaro, la solitudine ritorna sulle proprie cicatrici nella lettera d’amore di “Fucker”, una delle più perfette sintesi della poetica di Mr. E: “Looking for a simple life / But life ain’t simple”. È un sentirsi perennemente al posto sbagliato come in “Bad News”, è un sognare di poter sfuggire alla angosce della vita come in “Dog’s Life” (già utilizzata come sample ai tempi di Electro-Shock Blues per “Efil’s God”, che altro non è se non il titolo di “Dog’s Life” scritto al contrario…). A rendere più radicali le domande è l’esperienza che la realtà impone: dalla morte dei propri cari, su cui E torna nella gelida “Funeral Parlor”, all’evidenza della propria fragilità, sorpresa nella routine quotidiana di “After The Operation”. Ed ecco allora l’affacciarsi di una possibilità di risposta: non è una condanna, il succedersi apparentemente incomprensibile di dolore e felicità della vita, ma un’occasione misteriosa di compimento. Come scrive E nella sua autobiografia, celebrare la vita significa abbracciarla nei suoi alti e bassi.

Le versioni alternative dei vecchi brani raccontano di un mondo in cui “My Beloved Monster” può diventare una passeggiata intimista ed un attimo dopo una scorribanda piena di groove; un mondo in cui “Souljacker Part I” e “Dog Faced Boy” possono immergersi in un blues scuro ed inquietante ed in cui “I Like Birds” può travestirsi di uno sfrenato punk. I remix rendono più beckiane che mai hit “alternative” come “Susan’s House” e “Novocaine For The Soul”. Le cover rivelano la folle passione di E per Prince, da una distorta “If I Was Your Girlfriend” alla spumeggiante “I Could Never Take The Place Of Your Man” esclusa da Live At Town Hall. Il processo di appropriazione è tale da rendere quasi impossibile credere che quella “Open The Door” rubata ai Magnapop non appartenga alla penna di E: “Everything is good these days / But all of my friends are dying”.

Per il suo ritorno on the road con “An evening with Eels”, E adotta ancora una volta una nuova formula, presentando una sorta di autobiografia in musica e parole con l’accompagnamento del solo The Chet, che si alterna tra chitarra, batteria, pianoforte, sega, pedal steel e organo. Prima di ogni concerto viene proiettato il documentario della BBC sulla vita del padre ed E inframmezza i brani con sketch umoristici e letture da “Things The Grandchildren Should Know”. Una deviazione dal classico canone del concerto rock che potrebbe apparire facilmente pretenziosa, ma che invece mette al centro ancora una volta il racconto puro e semplice dell’esperienza. A lasciare il segno, però, è soprattutto l’esplosiva versione di “Flyswatter”, in cui E e The Chet si scambiano di posto tra pianoforte e batteria nel bel mezzo del brano, permettendo a Mr. E di riesumare il suo passato da batterista provetto.
Nel 2008, E collabora con il drammaturgo americano James Lapine, già vincitore del premio Pulitzer, alla scrittura della pièce teatrale "Mrs. Miller Does Her Thing", ispirata alla vita dell'eccentrica cantante Elva Miller.

Great pain over great beauty


End TimesQuattro anni: praticamente un’era geologica per i frenetici ritmi compositivi di Mr. E. Ma, al momento di dare un seguito a Blinking Lights And Other Revelations, E è pronto a recuperare il tempo perduto con una vera e propria trilogia di dischi, dedicata al cuore dell'uomo nelle sue più elementari esperienze: desiderio, perdita, speranza. Roba che solo uno come lui potrebbe maneggiare in maniera credibile...
Senza perdersi in dichiarazioni d'intenti, E approfitta dell'effetto sorpresa e, nel giro di un anno e mezzo, realizza un ciclo di album di cui solo alla fine si riesce a cogliere fino in fondo il respiro.
 

È il desiderio il tema da cui E decide di ripartire per il ritorno in scena degli Eels, "quel terribile, intenso bisogno che ti spinge in ogni sorta di situazioni che possono cambiare la tua vita in grandi modi": "12 songs of desire", recita senza mezzi termini il sottotitolo di Hombre Lobo, pubblicato dall'inizio del mese di giugno del 2009. Un disco irsuto, e non solo per la barba sfoggiata sin dalla copertina in stile scatola di sigari: Hombre Lobo suona ruvido e schietto come un nuovo Shotenanny!, fin dal blues dall’impronta quasi springsteeniana con cui “Prizefighter” apre le danze, passando per le fantasie in punta di arpeggi di “In My Dreams”. Non a caso, l’album è stato composto e registrato interamente in un pugno di settimane nello scantinato di casa Everett, con il senso di immediatezza di un live e con l’ausilio dei soli Knuckles alla batteria e Kool G Murder al basso (con cui E ha firmato a quattro mani buona parte dei brani).
Atteso come il disco del ritorno al futuro degli Eels, dopo il lungo periodo trascorso da E a guardare al passato, Hombre Lobo in realtà si presenta più come un variegato catalogo di stili dell’artigianato eelsiano, in cui la classica delicatezza tintinnante di “All The Beautiful Things” convive con il passo svelto e i coretti di “Beginner’s Luck”.
Come confessa lo stesso E, “c’è un po’ di Dr. Jekyll e Mr. Hyde in Hombre Lobo, a volte è più gentile, a volte più aggressivo”. Quando è il licantropo a prendere il sopravvento, “Fresh Blood” sfodera un tardo Beck in salsa teen-horror con ululati da antologia, mentre “Tremendous Dynamite” mette in scena un rauco hard-blues alla Black Keys (sulla falsariga del tour “No Strings Attached”). Tramontata la luna piena, ecco invece farsi strada il palpitare dolente di “The Longing” ed il romanticismo di “That Look You Give That Guy”, con una melodia che si avviluppa al cuore come un impossibile “Tempo delle mele” per beautiful freaks. In più di un’occasione, però, la scrittura istintiva di Hombre Lobo sa di già sentito, dal gingillo pop uptempo “Lilac Breeze” alla canonica “My Timing Is Off”.

Il concept di Hombre Lobo (“uomo lupo” in spagnolo) prende le mosse da una vecchia conoscenza: il protagonista di “Dog Faced Boy”. “Che cosa gli succede crescendo?”, si chiede E. “Cerca di funzionare nella società. Ma non può lasciarsi alle spalle il fatto di essere ancora considerato come un animale. Il meglio che può fare è diventare un vecchio, dignitoso licantropo”. Ma è solo uno spunto per arrivare del vero soggetto del disco.
È un insopprimibile pensiero dominante, l’ossessione che accomuna l’eterogenea collezione di brani di Hombre Lobo: la solitudine e l’abbandono non lo cancellano, ma lo rendono ancora più acuto. “The longing is a pain / A heavy pressure on my chest / It rarely leaves”, mormora E in “The Longing”. Il desiderio è come l’acqua di una sorgente che, invece di saziare la sete, continua a zampillare senza sosta, spingendoti a risalire fino al punto misterioso da cui sgorga. La stra-ordinarietà dell’uomo – confessa E nell’elegia finale di “Ordinary Man”, lasciando trapelare per un attimo il proprio volto dietro la maschera lupesca – sta proprio nel non rinnegare mai quello struggimento: “No one has a right until they’ve fought my fight / To understand just where I’m coming from / And it’s that fight that brought me here today, exactly as I am / No ordinary man”.

A soli sei mesi di distanza da Hombre Lobo, E si ripresenta con il disco più solitario e cantautorale della sua carriera, End Times. Mai come stavolta, l'etichetta Eels finisce per coincidere con il semplice nom de plume di Mark Oliver Everett: chiuso nel suo scantinato losangeleno ("OneHitsville, U.S.A.", come l'ha ribattezzato...), l'uomo chiamato E riprende in mano il suo vecchio registratore a quattro tracce e si mette a suonare canzoni nude, intime, sofferte.
Il punto di partenza di End Times è lo stesso su cui si chiudeva Hombre Lobo: il desiderio, "la scintilla che accende ogni cosa". La voce di E sembra emergere dall'ombra, mormorando sul chiaroscuro appena arpeggiato di "The Beginning": è un abbraccio che vuole allontanare il gelo, una fessura di luce che filtra dalla finestra. Lei indossa un abito da sera, lui sfiora le sue labbra. La purezza di ogni inizio è la corrispondenza, l'esperienza che il desiderio possa compiersi davvero. "Everything was beautiful and free / In the beginning".
Ma quando la realtà tradisce la promessa, quando la vita contraddice l'attesa, tutto sembra dissolversi in un istante. "That's gone, man, gone", annuncia subito il blues dall'accento dylaniano di "Gone Man". Sembrano rimanere solo il rimpianto e l'abbandono. Svegliarsi nel cuore della notte senza nessuno accanto, parlare con il proprio cane per ricordarsi di essere ancora vivi. Fardelli che il tempo rende sempre più difficili da portare: "In my younger days / This wouldn't have been so hard". Ma lo sfarfallio di "In My Younger Days" svanisce sullo sfondo come una fotografia ingiallita. "Qui giace un uomo che voleva soltanto rimanere solo", è l'amaro epitaffio amaro che E immagina per la propria lapide.

Baluginii di chitarra, sfumature di organo e tastiere: il senso di déjà vu è dietro l'angolo. Un effetto quasi inevitabile, del resto, con canzoni così essenziali come quelle di End Times. Ma per ogni episodio che scivola troppo facilmente nell'anonimato (il passo rauco di "Paradise Blues", i contorni grezzi della rancorosa "Unhinged"), ce ne sono altrettanti che aspirano alla statura dei classici eelsiani, dalla celestiale malinconia di "Little Bird" al sapore lieve di "Mansions Of Los Feliz".
La perdita dell'amore diventa segno di una ferita più profonda: l'apparente condanna del desiderio alla delusione, come una sorta di fine dei tempi interiore. Eppure la domanda non si spegne mai. Non c'è disillusione che riesca a metterla a tacere. Anzi, la disillusione è come un pungolo a non smettere di cercare, a spingersi sempre più in là, verso qualcosa in cui il cuore possa trovare compimento. "Tell me my heart somehow, dear God, it's gonna mend", è l'invocazione attorno a cui gravita "Little Bird".
Come già era accaduto in Blinking Lights And Other Revelations, anche l'epilogo di End Times è affidato ad una sorta di confessione/manifesto: "On My Feet" ha l'andamento riflessivo di certe ballate del tunnel dell'amore springsteeniano, un flusso di coscienza in cui E si scopre di nuovo in cammino: "One sweet day I'll be back on my feet / And I'll be alright / I just gotta get back on my feet". Un passo dopo l'altro. Ed è un ritratto che suona molto più vero dell'autoepitaffio iniziale: "I am a man in great pain over great beauty". Perché la bellezza, alla fine, è sempre più grande della solitudine.
 

Ma è con l'uscita dell'ultima parte del trittico, Tomorrow Morning, nell'estate del 2010, che tutto assume una nuova prospettiva.
Ci pensa lo stesso E a tracciare il riassunto delle puntate precedenti: "Hombre Lobo è il prima, la fame che dà inizio a ogni cosa. End Times rappresenta il dopo, e come fare i conti con le conseguenze. Tomorrow Morning è lo sbocciare di una nuova possibilità, la speranza che giunge a compimento". Fin dal titolo, insomma, il nuovo disco degli Eels getta una luce diversa sui diretti predecessori: "L'accostamento a Tomorrow Morning", spiega sempre E, "cambia il significato del titolo di End Times: come potrebbe essere davvero la fine se domani c'è un nuovo mattino?".
La sfida di Tomorrow Morning è semplice: realizzare un disco luminoso dalla prima all'ultima nota, a dispetto di chi è convinto che la profondità debba per forza coincidere con il tormento interiore. Per riuscire nell'impresa, E recupera il lato degli Eels più incline alle manipolazioni - quello di cui si sentiva maggiormente la mancanza negli ultimi lavori: giocattoli elettronici e drum machine, insomma, ma con il calore di una sorta di celebrazione della misteriosa essenza della vita.
Ecco allora il beat rotondo di "This Is Where It Gets Good" srotolarsi per oltre sei minuti tra scampoli di orchestrazioni e liquide punteggiature: il caro, vecchio Beck, stavolta, sembra aver voglia di andare a fare un giro nello scantinato di Casiotone For The Painfully Alone per mettersi ad armeggiare con le sue tastiere.

La felicità non ha niente di stucchevole, quando la brezza pop di "The Man" la riveste di ironia. L'amore non ha niente di lezioso, quando sul passo morbido di "Spectacular Girl" arriva a coincidere con un nuovo modo di guardare ogni cosa: "She sees the beauty in things we all miss". Ed il minuetto di "Oh So Lovely", con gli archi della "Tomorrow Morning Orchestra" a svaporare lungo i bordi, si apre alla gratitudine di un seme che germoglia.
Ogni nuovo giorno che inizia può essere il più grande, sussurra E nell'aria sospesa e carica di promessa di "The Morning". Alla fine, le voci dell'Amy Davies Choir che lo accompagnano in "Mystery Of Life" calano la spensieratezza un po' garrula dei Simon & Garfunkel di "Feelin' Groovy" nella realtà di chi ha guardato in faccia i propri fantasmi.
Qualcuno dice che in un viaggio non conti tanto la mèta, quanto la strada per raggiungerla: ma prima o poi arriva un momento in cui diventa chiaro che è proprio il punto d'arrivo a dare senso al cammino. "I went about my way, unsteady and afraid / How could I know I was headed for this day?". "I'm A Hummingbird" è il riverbero di un sospiro rapito dal vento, è l'ode soffusa di chi ha ancora gli occhi per riconoscere la bellezza anche attraverso le lacrime. "It was all worth it / To be here now". Nulla è destinato ad andare perduto.

Sia per End Times che per Tomorrow Morning viene offerta anche un'edizione limitata con un Ep di bonus track: se nel corredo di End Times spiccano gli accenti più movimentati di "Walking Cloud", i brani aggiuntivi di Tomorrow Morning (dalla delicata "Swimming Lesson" alla briosa "Let's Ruin Julie's Birthday") sembrano fatti apposta per rendere felici i nostalgici di Daisies Of The Galaxy.
Non può mancare, poi, la consueta testimonianza live: Tremendous Dynamite - Live In 2011+2012 documenta su un doppio cd due concerti tenuti nello stesso locale di Minneapolis a distanza di un anno l'uno dall'altro. In entrambi casi è l'estate a fare da tema conduttore del concerto, con E ad affrontare il palco in tuta bianca da gelataio e una serie di cover che vanno da "Summer In The City" dei Lovin' Spoonful a "Hot Fun In The Summertime" di Sly And The Family Stone, senza trascurare una "Summertime" più vicina all'istrionica versione di Billy Stewart che non all'originale. Ma se il primo lato mette in mostra una sfavillante macchina da rock 'n' roll sintonizzata sulle frequenze Sixties, il secondo sfodera una sezione di fiati capace di gettare inediti riflessi Motown su brani come "Fresh Feeling" o l'immancabile "My Beloved Monster".

Make a new alphabet


Wonderful Glorious“Now what?”. Così si intitolava l’ultimo capitolo di “Things The Grandchildren Should Know”. Ed è questa la domanda a cui E si trova di fronte dopo aver realizzato la trilogia formata da Hombre Lobo, End Times e Tomorrow Morning.
“Una volta che la polvere si è posata, mi sono ritrovato a chiedermi: e adesso?”, confessa E. “Non avevo una risposta. Ma sono un lottatore e sapevo che non mi sarei arreso facilmente. Alla fine, la risposta l’ho trovata nei quattro tizi che condividevano il palco con me”. The Chet e P-Boo alle chitarre, Kool G Murder al basso e Knuckles alla batteria: ovvero la prima formazione stabile degli Eels in oltre quindici anni di carriera. Ecco il punto da cui ripartire. Dopo oltre un anno di tour insieme in giro per il mondo, la cosa più naturale per Mr. E è chiamarli a raccolta con un piano completamente nuovo: non avere nessun piano.
A differenza dei suoi più recenti predecessori, “Wonderful, Glorious” nasce così senza un concept definito alle spalle, un po’ come era accaduto un decennio prima con “Shootenanny!”. Ed è proprio questo, esattamente come allora, il punto debole del disco: il fatto di non essere animato da quell’urgenza e da quella forza evocativa per cui gli Eels hanno saputo farsi amare.

A prevalere, stavolta, è piuttosto il gusto della condivisione, dell’affiatamento. Tanto che la scrittura stessa dei brani diventa un processo collettivo, all’opposto del songwriting solitario a cui E era abituato. Anche l’ambiente cambia radicalmente: non più il classico scantinato di casa Everett, ma un vero e proprio studio di registrazione, realizzato da E con l’ausilio del fido The Chet e immediatamente ribattezzato “The Compound”. “Dopo dodici anni a registrare nello stesso scantinato ingombro di strumenti, ho sentito il bisogno di espandermi e concedermi più spazio per respirare e sperimentare”, spiega E. “Dal tetto alle fondamenta, tutto è pensato per realizzare i nostri sogni musicali. È il posto più felice sulla faccia della terra”.
L’elettricità slabbrata e sinuosa dell’iniziale “Bombs Away”, con l’ombra di Tom Waits a fare da nume tutelare, evoca suggestioni più vicine a “Beautiful Freak” che non a “Souljacker”. Ma la direzione in cui si inoltrano i brani di “Wonderful, Glorious” riporta ancora più indietro le lancette dell’orologio, direttamente al cuore degli anni Settanta: basta sentire gli incastri di tastiere e chitarre dal sapore funky di “Kinda Fuzzy” o il rock-blues contagioso di “New Alphabet”, da qualche parte tra Todd Rundgren e i Fleetwood Mac. Per non parlare della title track, che traccia la morale del disco con un trionfo di ancheggiamenti stonesiani. Un’inclinazione già mostrata dal vivo negli ultimi tour del gruppo e che porta a costruire una manciata di brani dal solido impianto classico.
Gli Eels giocano a combinare all’interno dei brani vampate elettriche e improvvise aperture, rimescolando gli ingredienti più familiari a partire dal singolo “Peach Blossom”, che sembra voler aggiornare gli Stranglers di “Peaches” al presente dei Black Keys. A mancare, però, sono le fulminanti intuizioni melodiche del vecchio canzoniere eelsiano, quelle capaci di conquistare all’istante semplicemente con un paio di accordi.

Una volta tanto, non c’è bisogno di scomodare le tragedie familiari di E per rispecchiarsi nelle sue canzoni. “Molti brani del disco hanno a che vedere con il fatto di trovarsi intrappolati all’angolo e lottare per cercare la propria via d’uscita. Così, quella lotta è diventata la storia dell’album”. Sin dal grido di battaglia di “Kinda Fuzzy” (“Don’t mess with me, I’m up for a fight”), è un E più combattivo che mai quello che traspare dalle canzoni di “Wonderful, Glorious”. Risoluto e carico di vitalità proprio come il brillante arancione scelto per la copertina.
Ecco allora il lirismo in chiaroscuro di “The Turnaround” farsi strada su uno sfondo di baluginii, lo sguardo sempre aperto alla possibilità di un nuovo inizio. Fino ad arrivare al vertice dell’album con la solennità vaporosa di “I Am Bulding A Shrine”, erede diretta delle atmosfere di Tomorrow Morning. Mr. E torna a fare i conti da par suo con lo spettro della mortalità, dando voce a un’elegia funebre tutt’altro che fatalista: “Deep down in the cold ground, such a sad place to be/ But I’ll be fine with all the little things that I’m taking with me”. La lista delle cose da portare con sé nel viaggio è fatta di parole, di sguardi, della carezza di un sorriso. Ma, alla fine, una cosa sola è quella indispensabile: “All the love that never dies”. Quella scintilla di eternità in fondo al cuore che può rendere la vita una meravigliosa, gloriosa avventura.

La deluxe edition del disco riserva un corposo bonus di inediti e versioni dal vivo, tra cui una coppia di brani risalenti rispettivamente all’era di Daisies Of The Galaxy (“I'm Your Brave Little Soldier”) e a quella di Souljacker (“Happy Hour (We're Gonna Rock)”). Proprio “I'm Your Brave Little Soldier” è l’episodio più significativo tra gli inediti, che per il resto inanellano un paio di anonime outtake da Wonderful, Glorious. Sul versante live, i fiati di “That's Not Really Funny” provano a riscattare un brano da sempre poco centrato. Ma a brillare è soprattutto la cover spoglia e rallentata di “Summer In The City”, posta in chiusura del set registrato per l’emittente radiofonica KEXP.

I thought I'd have some answers by now


The Cautionary TalesFacile dire che l’importante è imparare dai propri errori. Anche un po’ consolatorio, tutto sommato. Il fatto è che, con il passare del tempo, si finisce per costruirsi forme di autogiustificazione sempre più impenetrabili. Tanto da non essere nemmeno più capaci di guardarli negli occhi, i propri errori.
Ecco perché, una volta tanto, l’uomo chiamato E decide di mettere la sua faccia in copertina, con tanto di nome e cognome: The Cautionary Tales Of Mark Oliver Everett è il suo modo di mettere da parte le scuse e di assumersi in prima persona la responsabilità degli sbagli della vita. Ripartendo dalla verità dell’esperienza per restituire gli Eels alla loro vena più essenziale.

Gli Everett, ormai lo sappiamo, non erano dei genitori esattamente tradizionali: avevano deciso di non dare ai figli nessuna regola. Di lasciare che fosse la vita a insegnare loro come cavarsela. “È come se fossi cresciuto allo stato brado”, ricorda E. “Ho dovuto imparare tutto nella maniera più difficile: andando per tentativi ed errori”. Ed è proprio al racconto di questi errori che è dedicato nel 2014 l'undicesimo album targato Eels. Per fare da monito agli altri, ma prima di tutto a sé stessi.
Volti e luoghi sono i medesimi del precedente Wonderful, Glorious: The Chet, P-Boo, Kool G Murder e Knuckles impegnati a suonare tra il vecchio scantinato di E ed il suo studio di registrazione nuovo di zecca. Le similitudini tra i due dischi, però, si fermano qui. Il suono di The Cautionary Tales Of Mark Oliver Everett prende nettamente le distanze dal classicismo rock del predecessore per puntare alle atmosfere acustiche più spoglie di End Times, coniugate con il timbro cameristico degli Eels With Strings del 2006. O, meglio ancora, con le fantasie della Eels Orchestra del 2000, come mostra subito l’ouverture per pianoforte, fiati e flauto traverso che introduce il disco.

In realtà, le canzoni di The Cautionary Tales Of Mark Oliver Everett sono nate addirittura prima di quelle di Wonderful, Glorious. Ma per E mancava ancora qualcosa: “Riascoltarle mi faceva sentire a disagio, ma non abbastanza a disagio. Se non mi sento a disagio, vuol dire che le canzoni non sono abbastanza vere. Dovevo scavare più a fondo”.
Una riscrittura che di brano in brano acuisce il senso del rimpianto. Mr. E rivede il sé stesso ragazzino vagare in sella alla propria bici nel video di “Mistakes Of My Youth”, attraverso il grigiore di una periferia senz’anima: l’ennesima gemma che va ad aggiungersi al campionario di sognanti pop song degli Eels, ma soprattutto l’imperativo di spezzare la catena di recriminazione per gli errori del passato. “All the stupid things I said/ The people I hurt and let down/ Well, I hope that it’s not my fate/ To keep defeating my own self/ And keep repeating yesterday”.

Per riuscirci occorre una semplice certezza: la certezza che, da qualche parte, la vita abbia ancora in serbo qualcosa per noi. Del resto, non era stato proprio Everett senior a teorizzare la possibilità di un’infinita serie di universi paralleli? Proprio dal riflesso del padre E prende le mosse in “Parallels”, ballata agrodolce capace di dare del tu alla speranza: “Something down inside me makes thing there’s something more/ And I don’t have any proof but I’m sure/ And I know you’re out there somewhere/ And I know that you are well/ Looking for an answer but only time can tell”.
L’ouverture iniziale si trasforma così nelle note dell’epilogo. Ma non è il chiudersi di un cerchio: piuttosto, è la retta misteriosa di una strada che si perde all’orizzonte. Dove sono, da dove vengo, dove vado. “I can't say if the flowers will keep on growing/ But I've got a good feeling about where I'm going”.
Come ogni cautionary tale che si rispetti, anche la favola di Mark Oliver Everett ha insomma la sua morale. Potremmo riassumerla così: l’esperienza coincide con il giudizio. Perché non possiamo sottrarci dal chiamare gli sbagli con il loro nome. Ma non possiamo sottrarci nemmeno dall’intuizione che ci sia qualcosa di più, là fuori.

Sul modello di Wonderful, Glorious, anche la deluxe edition di The Cautionary Tales Of Mark Oliver Everett riserva un secondo cd di bonus track. Ancora una volta, però, si tratta di una collezione tutt'altro che imprescindibile, divisa tra inediti (tra cui una "Millicent Don't Blame Yourself" già presentata più volte dal vivo) e registrazioni radiofoniche (con un'azzeccata rilettura di "Fresh Feeling").
Per portare in scena le canzoni del disco, gli Eels scelgono un formato a base di “sweet soft bummer rock”, ovvero la versione per inguaribili beautiful freak dell’America di Fleetwood Mac e dintorni. Lo testimonia nel 2015 il doppio live (più dvd) Royal Albert Hall, in cui i fidatissimi The Chet, Knuckles, P-Boo e Al (anzi, Royal Al per l’occasione) accompagnano con impeccabile eleganza quello che E stesso definisce un “gentlemen’s Eels concert”, fatto apposta per esaltare il lato più cameristico del gruppo. Tra pedal steel, tromba, contrabbasso e glockenspiel, il quintetto non fa mistero dell’ambizione di dare vita a una sorta di orchestra senza orchestra, un gruppo capace di offrire ai brani vesti più elaborate anche senza necessità di ricorrere ad apporti esterni.

Rispetto alle innumerevoli incarnazioni assunte dagli Eels dal vivo, viene da pensare a un connubio tra la Eels Orchestra del 2000 e gli Eels With Strings del 2006. Il trasformismo sfoggiato in passato lascia insomma il posto a una maggiore fedeltà agli originali, in cui a prevalere sono soprattutto le sfumature (come nelle versioni rallentate di “My Timing Is Off” e “I Like The Way This Is Going”). Una scelta capace di far riscoprire alcuni dei momenti più ispirati degli Eels recenti, ma che finisce per avere come effetto collaterale quello di rendere sin troppo omogenea la declinazione in chiave soft-rock delle canzoni di Mr. E e soci.
I vecchi brani riprendono il sopravvento nel secondo (e più brillante) dei due cd, da una “I Like Birds” in chiave agreste all’immancabile “My Beloved Monster”, stavolta rivisitata come gemma old-fashioned. L’epilogo, però, è riservato alle cover, con la classicissima “Can’t Help Falling In Love” e una “Turn On Your Radio” firmata Harry Nilsson che mette più che mai in evidenza gli intarsi della chitarra di The Chet.

Are we alright again?

The DeconstructionPer presentare The Deconstruction, il dodicesimo disco dei suoi Eels dopo quattro anni di silenzio discografico, Mark Oliver Everett si rivolge confidenzialmente ai fan, spronandoli ad essere gentili con se stessi e con il prossimo – del quale, sottolinea E, non conosciamo il privato e non dobbiamo mai sottovalutarlo. Così facendo, continua Everett, partendo dal nostro orticello, potremo aggiustare, pezzetto dopo pezzetto, questo gran casino di mondo che ci ritroviamo. È proprio questo quanto si percepisce per i quarantadue minuti di The Deconstruction, un ottimismo assonnato, ancora non pronto ad aprire del tutto gli occhi e a mettersi al lavoro per sistemare le cose, un po’ timido ma pronto a darsi una mossa. A parte la rassegnata title track, posta ad inizio scaletta come a raffigurare la realtà che ci troviamo a dover affrontare, le tracce emanano una serenità che raramente abbiamo incontrato nella musica nei dischi di Everett.
Le chitarre, comunque presenti e suonate con gran gusto e delicatezza, hanno lasciato il ruolo di protagoniste a leggere partiture per archi, fiati e cori, che creano un’atmosfera perfetta per gli inviti gentili che E recita con insistenza (“Be Hurt”, “Sweet Scorched Earth”). Questa scelta da una parte devitalizza il disco, rendendone i ritmi costantemente bassi, ma talvolta crea suggestioni forti. È il caso del sample di fiati che danza sullo sfondo di “Rusty Pipes” – probabilmente il brano più riuscito del lotto – o del coro profumato di incenso che fluttua nel vuoto luminoso di “In Our Cathedral”. Non manca anche qualche momento più arzillo. “Today Is The Day” è agitata da un bel riff solare e pimpante, mentre le più ruvide “Bone Dry” e “You Are The Shining Light” ricordano, sebbene in una versione più temperata, le incazzature chitarristiche di “Souljacker”. Gli episodi non appaiono comunque fuori luogo nell’economia generale del disco, merito anche della sapiente produzione per la quale Everett si è fatto aiutare da Mickey Petralia, con il quale non lavorava dai tempi del capolavoro Electro-Shock Blues.

A soli due anni di distanza Mr. E ritorna sulle scene con Earth To Dora, una meditabonda raccolta di canzoni pacate e accorate, in cui il rock sanguigno e le giocose stravaganze elettroniche vengono messi da parte. Eppure il tredicesimo disco in studio della band suona dalla prima all’ultima nota come un classico del loro repertorio: ci sono le melodie immediate, gli arrangiamenti delicati ed essenziali con il suono cristallino e rotondo delle chitarre e i preziosi contrappunti delle tastiere; c'è l’apparente semplicità delle liriche, capaci di descrivere e veicolare con disinvoltura emozioni universali. E poi c’è di nuovo un concept che lega fra loro i brani o, meglio, il susseguirsi di questi permette il dispiegarsi di una struttura narrativa. In queste dodici canzoni viene raccontata la storia di una relazione amorosa in cui al felice idillio iniziale si sostituiscono in breve tempo tensioni e rancori che andranno a logorarla rovinosamente. Il protagonista si ritrova così in uno stato tragicamente pensoso durante il quale scorgerà lampeggiare il barlume della speranza e della rinascita. 
In Earth To Dora memoria e inventio poetica si intersecano e agiscono contemporaneamente nella rielaborazione di spunti letterari, fonti concrete o ideali, esperienze personali. L’autobiografismo e la fantasia di Mr. E si intrecciano in una maniera così salda che diviene difficile capire dove si nascondano i riferimenti alla sua disastrosa e breve esperienza matrimoniale (da cui è nato il figlio Archie) o al suo sfortunatissimo percorso esistenziale e dove invece operi la finzione narrativa nella creazione di una parabola esemplare e idealizzata.
“Anything For Boo”, “Are We Alright Again” e “Earth To Dora”, tutte poste nella prima parte della raccolta, recuperano la spontanea innocenza e l’ottimismo incantato di Daisies Of The Galaxy, senza però riuscire ad eguagliarne la brillantezza melodica. I dubbi iniziano subito ad assalire l’io lirico che in “Who You Say You Are” arriva a chiedersi se il proprio partner meriti davvero che le venga dedicata una canzone. E se in “Dark And Dramatic” si ha l’accettazione della mancanza di una vera sintonia con la donna amata, la vibrante “Are You Fucking Your Ex”, memore delle pulsioni veneree di Hombre Lobo, confessa un cupo vortice di pensieri ossessivi. In “The Gentle Souls” la penna di Everett commuove e ritrova il perfetto mix tra ironia e nostalgia. L’accoppiata di “I Got Hurt” e “OK” costituisce invece il momento di svolta: dalla notte scurissima che avvolge chi si trova intrappolato nel baratro del proprio dolore, si riemerge all’improvviso e ci si sveglia da un sogno in cui ci si ostinava a rimanere intrappolati (“Waking Up”).
Come in altri dischi degli Eels, la negatività, vissuta e sentita, interiorizzata ed esteriorizzata, analizzata e superata poi con coraggio, fa da contraltare a un messaggio profondamente ottimistico. Non siamo vicini ai vertici artistici ed emotivi della straziante catarsi narrata in Electro-Shock Blues, ma il dono probabilmente divino di Mr. E di scrivere canzoni con cui gli ascoltatori possono rapportarsi è qualcosa che bisognerebbe continuare a custodire gelosamente.

I'm learning while I lose

Extreme WitchcraftDopo la parabola matrimonio-paternità-divorzio raccontata in Earth To Dora e la pandemia che ha paralizzato il globo, E riparte nel 2022 da un vecchio amico: John Parish. Quasi come Dumas, i due ritornano sul luogo del delitto un ventennio dopo Souljacker. Un connubio a distanza, stavolta, come impongono le circostanze. A Los Angeles, E scrive canzoni mentre il piccolo Archie dorme, cercando di destreggiarsi nei panni del genitore in lockdown. A Bristol, Parish passa tutto nel suo frullatore e lo rispedisce dall’altra parte dell’Oceano.
Il risultato, intitolato Extreme Witchcraft, non sarà il gemello di Souljacker, ma di sicuro è un suo parente prossimo: basta sentire i riff sfrigolanti di “Good Night On Earth” e “The Magic”, che potrebbero appartenere benissimo agli Eels più barbuti del 2001. Ma anche le spigolosità elettriche di brani come “Amateur Hour” mettono in bella vista il marchio di Parish (accreditato come coautore, produttore e chitarrista), coniugandolo con le inclinazioni un po’ passatiste dei tardi Eels.

Parliamoci chiaro: è l’aurea mediocritas la cifra delle ultime prove di Mr. E e soci (perfettamente riassunta nel secondo volume del loro best of, Eels So Good, che vede la luce nel 2023). Ed anche Extreme Witchcraft non fa eccezione. Una buona metà dell’album fa ben sperare, dal ruvido rock-blues ferroviario di “Steam Engine” allo zucchero filato pop di “Strawberries & Popcorn”, passando per il funkeggiante apocrifo beckiano di “Grandfather Clock Strikes Twelve”. L’altra metà, però, scivola via senza lasciare il segno, tra ballate scialbe (“So Anyway”, “Stumbling Bee”), rimasticature con il pilota automatico (“I Know You’re Right”) ed esperimenti poco riusciti (“What It Isn’t”). Anche i consueti temi della disillusione amorosa, della solitudine, del bisogno di continuare a sperare, stavolta sembrano seguire un copione già scritto.
Il meglio del disco resta la svelta malinconia in stile Daisies Of The Galaxy di “Learning While I Lose”, in cui E prende spunto dalle sue sconfitte a Words With Friends (un gioco online stile Scrabble) per travestirsi da novello De Coubertin: “Play to win or don’t play at all/ Take the game and don’t bring the ball/ But I don’t care what you say/ I just wanna play”. In fondo, è da sempre la sua filosofia di vita. Anche quando non gioca per vincere, come si fa a non provare simpatia per quell’inconfondibile armamentario di tastierine, scampanellii e sorrisi con il groppo in gola?

Dopo un tour che riconsegna finalmente gli Eels al loro pubblico (archiviata la pausa obbligata del Covid-19), E deve fare i conti nientemeno che con un’operazione a cuore aperto: “Mi hanno segato lo sterno, mi hanno fermato il cuore e lo hanno messo su un tavolo”. Ancora una volta, gli intrecci del destino giocano un ruolo fondamentale nella sua vita: è il fatto di avere perso il padre per un infarto, quando E era ancora un ragazzo, a fargli fare i controlli grazie a cui scopre di avere un aneurisma all’aorta. “O ce l’ho fatta, oppure adesso mi trovo davvero in un universo parallelo”, chiosa con il suo solito sorriso dolceamaro.
Insomma, ripresentarsi nel 2024 con un disco incentrato sul tempo come Eels Time! assume un significato tutto particolare, in un contesto del genere. “Time, there isn’t much time now”, annuncia subito la quasi-title track “Time”, una ballata super eelsiana come da copione (gli accordi della chitarra acustica a tratteggiare un cielo terso attraversato da refoli di archi). “Maybe there’s just some way, dеar God/ I can stay”. Teniamocelo stretto, il nostro Mark Oliver Everett, viene spontaneo pensare dopo una dichiarazione come questa, che costringe a misurarsi immediatamente con la brevità del tempo che ci è dato da vivere. Intanto, nel video del brano scorrono le immagini di tre generazioni di Everett: dal fisico quantistico Hugh a Mr. E, fino al futuro ancora tutto da scrivere dell’ultimo nato Archie (a cui è dedicata la leggerezza di “I Can’t Believe It’s True”, con la sua parabola sulla scoperta dell’amore incondizionato).

Secondo la regola aurea della discografia degli Eels, dopo un disco elettrico come Extreme Witchcraft dovrebbe essere la volta di un disco intimista: e la madeleine profumata di Beatles di “We Won’t See Her Like Again” sembra confermarlo in pieno, evocando l’aura di una visione quasi mistica (“A supernatural love/ With no below or above”). Accanto a quest’anima, però, il disco n. 15 degli Eels ne ha anche un’altra, che nasce dall’incontro tra E e Tyson Ritter degli All-American Rejects. I due, dopo essersi conosciuti collaborando a una canzone per la colonna sonora del film “La figlia del prigioniero”, hanno scoperto di essere vicini di casa a Los Angeles e hanno deciso di provare a scrivere qualcos’altro insieme. Ed è qui che cominciano le note un po’ meno positive.
In pratica, tra testi e musica, la metà dei brani di Eels Time! porta la firma di Ritter (accreditato anche come co-produttore) accanto a quella di E. Un connubio che conduce l’album verso territori pop-rock un po’ più scontati, tra i contorni spessi di episodi come “If I’m Gonna Go Anywhere” e “Goldy” (ode a un pesce rosso, nuovo ingresso nel bestiario degli Eels) e l’ottimismo motivazionale della conclusiva “Let’s Be Lucky”. Non è un caso che la più riuscita tra le canzoni targate Everett-Ritter sia anche quella dall’aria più frastagliata e polverosa (“Lay With The Lambs”), in cui riaffiora un po’ della sana misantropia di E.
Se “Sweet Smile” si propone di tradurre l’umore lieve di “Georgy Girl” dei Seekers secondo il canone degli Eels, “And You Run” va a pescare direttamente nel passato remoto del gruppo: merito di Sean Coleman, amico d’infanzia di E, che gli ha suggerito di riprendere in mano uno dei suoi primissimi demo, spogliandolo dalla patina anni Ottanta della registrazione originale. Ingenuità adolescenziali a parte, calza alla perfezione in un disco dedicato al tempo. Perché per vivere pienamente i giorni che ci restano dobbiamo prima di tutto fare i conti con quello che ci siamo lasciati alle spalle: “Time passes slowly and then it speeds up”, canta E sul morbido intreccio di arpeggi di “Song For You Know Who”, “You’ve gotta forgive and that is enough”.

* * *

Gli Eels hanno sintetizzato alla perfezione quel suono a metà strada tra Beck ed Elliott Smith (non a caso, altri due dei più geniali protagonisti della Los Angeles degli anni Novanta) che è diventato un vero e proprio marchio di fabbrica.
Non è una musica che vuole inseguire le mode del momento, la loro, ma non è neppure una musica difficile: non ha pretese rivoluzionarie, eppure riesce a trovare una freschezza inconfondibile. Il suo segreto è la capacità di far vibrare le corde del cuore nella loro misteriosa alchimia: impossibile carpirne la formula magica. "Chiedersi che cosa cerchi nella musica è come chiedersi che cosa cerchi in un tramonto: quella indefinibile cosa che lo rende speciale", riflette E.
Eppure, l'uomo chiamato E non cessa di dichiararsi perennemente insoddisfatto del proprio lavoro, nell'infinita ed ossessiva ricerca di un continuo superamento di sé stesso. In fondo, è il minimo che ci si possa aspettare dal figlio di uno scienziato che ha dedicato la propria ricerca alla teoria degli universi paralleli: "mio padre era un genio, io sono solo un grande lavoratore", sostiene E. "Vivo la 'Many Albums Theory': è per questo che non ho il tempo per pensare a cosa devo indossare la mattina": chissà che la vera missione degli Eels non sia proprio quella di scrivere abbastanza canzoni da poter raggiungere tutti i misteriosi mondi teorizzati da Hugh Everett III…


Contributi di Michele Corrado ("The Deconstruction") e Daniel Moor ("Earth To Dora")

Eels

Discografia

EELS

Beautiful Freak (Dreamworks, 1996)

7,5

Electro-Shock Blues (Dreamworks, 1998)

8

Daisies Of The Galaxy (Dreamworks, 2000)

7,5

Oh What A Beautiful Morning (live, E Works, 2000)

7

Souljacker (Dreamworks, 2001 / 2002)

6,5

Electro-Shock Blues Show (live, E Works, 2002)

7

Shootenanny! (Dreamworks, 2003)

7

Sixteen Tons (Ten Songs) (live, E Works, 2005)

6,5

Blinking Lights And Other Revelations (Vagrant, 2005)

7,5

Live At Town Hall (live, Vagrant, 2006)

7,5

Meet The Eels (anthology, Universal / Geffen, 2008)
Useless Trinkets (anthology, Universal / Geffen, 2008)

7

Live And In Person! (live, E Works, 2008)

6,5

Hombre Lobo (Vagrant, 2009)

7

End Times (Vagrant, 2010)

7

Tomorrow Morning (E Works, 2010)

7

Wonderful, Glorious (Vagrant, 2013)

6,5

Tremendous Dynamite - Live In 2010+2011 (live, E Works, 2013)

6,5

The Cautionary Tales Of Mark Oliver Everett (E Works, 2014)

7

Royal Albert Hall (live, E Works / Pias, 2015)

6,5

The Deconstruction(E Works, 2018)

6,5

Earth To Dora (E Works / PIAS, 2020)6,5
Extreme Witchcraft (E Works / PIAS, 2022)6,5
Eels Time! (E Works / PIAS, 2024)6,5
E

A Man Called E (Polydor, 1992)

6

Broken Toy Shop (Polydor, 1993)

6

MC HONKY

I Am The Messiah (Spin Art, 2003)

6,5

MARK OLIVER EVERETT

Bad Dude In Love (Joe Mama, 1985)
5
Music From The Film Levity (Plexy Music, 2003)

6,5

Pietra miliare
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