Sul finire degli anni 60 la fusione tra le due anime predominanti della musica americana, il country e il rock, era considerata un miraggio, un sogno inseguito da decine di musicisti. Un’alchimia quasi impossibile da raggiungere. Ben difficilmente si sarebbe potuto ottenere un tutt’uno armonioso e compatto da ritmi diversi, strumenti diversi e tematiche differenti. Riuscire ad amalgamare i suoni classici del banjo, del fiddle e della pedal-steel con quelli moderni della chitarra elettrica, del basso e della batteria era considerato un’utopia. Inoltre la vita di frontiera, l’epopea western, la religione, argomenti tipicamente country, mal si adattavano ai tempi frenetici del rock cui si addicevano liriche più semplici, magari incentrate su belle ragazze, automobili veloci e divertimento. Pochi musicisti osavano sperimentare per ottenere questo tipo di suono nuovo e rivoluzionario. Tra i primi in assoluto a tentare una coraggiosa commistione tra generi diversi furono i californiani Byrds che, unendo la canzone di protesta (Pete Seeger e Bob Dylan su tutti) all’elettricità, contribuirono a forgiare il folk-rock. Ma la strada verso il country-rock ancora non era stata imboccata. Le cose cambiarono nel 1968 quando, nei Byrds, al posto dei dimissionari David Crosbye Michael Clarke, subentrò un giovane e oscuro musicista di nome Gram Parsons (Winter Heaven 5 novembre 1946- Joshua Tree 19 settembre 1973).
Parsons, abile strumentista e songwriter proveniente dalla Florida, riuscì, nell’arco di un solo anno, a imprimere un cambio di rotta senza precedenti tanto al gruppo californiano quanto all’intero panorama musicale statunitense. Col suo sound, ispirato ai vari Merle Haggard e Hank Williams, ma anche a Woody Guthrie e allo stesso Dylan, fu capace di infondere nuova linfa a una band pesantemente impantanata nella psichedelia e devastata da conflitti interni. L’album “Sweetheart Of The Rodeo”, pubblicato nel 1968, è considerato il primo vero vagito del county-rock. L’avventura con i Byrds, però, ebbe vita breve, e appena l’anno dopo Parsons, insieme al fuoriuscito Chris Hillman (Los Angeles - 4 dicembre 1944), diede vita ai Flying Burrito Brothers, “il primo gruppo country che suonava come un gruppo rock” (o il contrario, se preferite). In appena due anni, nei quali pubblicarono altrettanti album additati come capolavori del genere, “Gilded Palace Of Sin” e “Burrito Deluxe”, i Flying Burrito Bros. riuscirono nell’impresa impossibile di ottenere una sonorità completamente nuova da due generi diametralmente opposti. La personalità lunatica di Parsons, unita alla sua pesante tossicodipendenza (che lo stroncherà nel 1973 a soli 27 anni), mise ben presto la parola fine al periodo d’oro dei Flying Burrito, ma questa è un’altra storia. La strada era stata spianata. Non restava che seguirla.
Alla corte di Linda Ronstadt
In questo periodo di grande fermento artistico, i futuri membri degli Eagles si incontrarono quasi per caso. Già da anni attivi come sessionmen, autori, turnisti, nel panorama musicale californiano, aspettavano solo il momento giusto per sfoderare il loro talento e la loro abilità. L’occasione si presentò nella primavera del 1971, quando Linda Ronstadt (Tucson - 15 luglio 1946) , una delle performer americane più acclamate di sempre, insieme al manager John Boylan, reclutò due giovani musicisti per delle sessioni in studio: il batterista Don Henley (Gilmer - 22 luglio 1947) e il chitarrista Glenn Frey (Detroit - 6 novembre 1948). Il primo, proveniente dal Texas, si era trasferito a Los Angeles nel 1970 per incidere un album con la sua prima band: i Shiloh. Glenn Frey, invece, era arrivato in California dal Michigan nel 1969, al seguito della sua ragazza, aspirante cantante. Qui formò i Longbranch Pennywhistle, un anonimo gruppo folk-rock, e conobbe Jackson Browne (Heidelberg-9 ottobre 1948), famoso songwriter, con cui iniziò una prolifica collaborazione di fondamentale importanza per i destini della band. Frey e Henley si incontrarono per la prima volta nel 1970 al Troubadour di Los Angeles e scoprirono di lavorare per la stessa etichetta, la Amos Records. Quando la Ronstadt li convocò, i due erano già amici. Lavorarono con lei all’album omonimo pubblicato nel 1971 nel quale figurano, come semplici turnisti, anche i fratelli Michael e Richard Bowen, gli ex-Flying Burrito Brothers, nonché validi polistrumentisti, Bernie Leadon (Minneapolis- 19 luglio 1947) e “Sneaky Pete” Kleinow, e il bassista Randy Maisner (Scottsbluff- 8 marzo 1946) proveniente dai Poco di Ritchie Furay.
Il seguente tour estivo diede la possibilità ai musicisti di conoscersi meglio e di raggiungere un notevole affiatamento. Malgrado avessero suonato tutti insieme dal vivo una sola volta, durante la tappa di luglio a Disneyland, la qualità musicale raggiunta spinse i vari componenti a formare band parallele una volta finita la tournée. “Sneaky Pete” Kleinow e i fratelli Bowden confluirono nei Cold Steel, mentre Frey, Henley, Leadon e Maisner formarono gli Eagles.
La leggenda vuole che il nome sia venuto in mente a Bernie Leadon durante un “viaggio” collettivo, a base di Lsd e tequila, che il gruppo fece nel deserto del Mojave. Che la storia sia vera o meno ha poca importanza, perché il nome scelto, casualmente oppure no, denota un profondo legame con l’ideologia, la simbologia e la tradizione musicale del loro paese. Cosa c’è, infatti, di più americano dell’aquila reale che campeggia fiera e imponente in ogni angolo degli Stati Uniti, dalla bandiera a stelle e strisce alle monete da un dollaro?
A differenza di molti altri gruppi, gli Eagles, non faticarono a trovare un contratto discografico e, appena qualche mese dopo, firmarono per la neonata Asylum Records di David Geffen. Con l’auto del produttore Glyn Jones, nel febbraio del 1972 si recarono a Londra, agli Olympic Studios, per incidere l’album di debutto intitolato semplicemente Eagles. Pubblicato appena quattro mesi dopo, il 26 giugno del 1972, è un disco all’insegna dell’easy listening con tanto di chitarre acustiche, soffici impasti vocali e atmosfere rilassate. Il brano di apertura, “Take It Easy”, scritto per la maggior parte da Jackson Browne, è un vero gioiello di country-pop. La soffice voce di Frey e il suono leggero della sua chitarra acustica, rappresentano la spina dorsale del pezzo. I cori cristallini e il gran lavoro di Leadon al banjo e alla chitarra elettrica gli conferiscono forza ed energia, unitamente a un sapore vagamente retrò. Un leggero distorsore e la voce roca di Henley caratterizzano “Witchy Woman”, grande rock ballad in cui gli Eagles mettono in mostra tutte le loro qualità canore: le armonizzazioni a quattro voci nel ritornello e nel bridge centrale trascinano l’ascoltatore in una sorta d’incantesimo da cui viene bruscamente destato dal potente riff di chitarra. L’energica “Chug All Night” e la delicata “Must Of Us Are Sad”, cantata da Randy Maisner, introducono “Nightingale”, altro grosso “regalo” di Browne al gruppo di Los Angeles. La ruvida linea vocale di Henley si adatta alla perfezione al rock energico della melodia, mentre la precisa chitarra di Leadon disegna magnifici ricami sonori.
Il lato B contiene brani principalmente composti da Leadon e Maisner. Si parte con “Train Leaves Here This Morning”, pezzo acustico cantato da Leadon e scritto a quattro mani con l’ex-Byrds Gene Clark, per passare alla cupa e disperata “Take The Devil”, ottima prova d’autore di Maisner. Cinguettii di uccelli accompagnati da un banjo indiavolato introducono l’infuocata “Earlybird”, prima che Glenn Frey si rimpossessi del microfono per cantare “Peaceful Easy Feeling”, vera perla country e futuro cavallo di battaglia del gruppo: come suggerisce il titolo, le atmosfere si fanno rilassate e distese, mentre i cori, dominati dal falsetto di Maisner, aumentano la dolcezza e la godibilità del brano. Dopo tanta pacatezza arriva per l’ascoltatore una bella scarica d’adrenalina, rappresentata dal rock incandescente di “Tryin’”, opera di Maisner, che chiude la facciata.
Dopo l’uscita del disco, Glenn Frey dichiarò a Cameron Crowe, giornalista di Rolling Stone: “Ognuno doveva apparire, cantare, suonare e scrivere al meglio”. Aveva ragione. L’eccellente qualità dell’album, sia dal punto di vista tecnico che compositivo, ne fece un successo immediato. I tre singoli estratti, “Take It Easy”, “Witchy Woman” e “Peaceful Easy Feeling”, entrarono nella Top 40. Tuttavia, nonostante le vendite confortanti, numerosi critici stroncarono l’opera. Robert Christgau, ad esempio, dichiarò che, sebbene contenesse dell’ottimo materiale, il lavoro, nel suo complesso, suonava falso e forzato. Gli Eagles non fecero molto caso alle critiche: ormai erano pronti per la definitiva consacrazione.
Ad ali spiegate
Le ambizioni della band crebbero e, tra la fine del 1972 e i primi mesi del 1973, il gruppo si recò nuovamente a Londra, agli Island Studios, per incidere il degno seguito dell’album di debutto. Nell’aprile del 1973 vide la luce Desperado, l’ode degli Eagles al vecchio West e ai suoi scellerati protagonisti attraverso l’immedesimazione in una delle posse più feroci di sempre: la Dalton Gang. Il disco è segnato dalla crescente collaborazione tra Henley e Frey, i quali scrivono insieme otto delle undici canzoni in esso contenute. Bernie Leadon contribuisce con due soli brani mentre Randy Maisner rimane in posizione decisamente defilata. Già dalla copertina, che vede i musicisti nei panni di quattro sfiniti e minacciosi outlaw, le intenzioni della band sono più che evidenti. La conferma arriva dai microsolchi dove un’armonica a bocca di leoniana memoria apre l’epica “Doolin’ Dalton”, scritta in collaborazione con il solito Browne e J.D. Souther, sul tema della vita drammatica dei fuorilegge: la voce sofferente di Henley e la maestosità dei cori evidenziano l’ineluttabilità del loro destino. La perizia tecnica di Leadon emerge nella sua “Twenty-One”. Il saltellare frenetico del banjo e il suono inconfondibile della dobro fanno da cornice a un testo incentrato sulla libertà, unica ragione di vita da inseguire ad ogni costo. Il ritmo decisamente sostenuto di “Out Of Control”, in cui si descrive una rissa per una donna, prepara il terreno a uno dei più grandi successi del gruppo, quella “Tequila Sunrise” dolce come l’amore e amara come i postumi di una sbornia. Glenn Frey, alla voce e alla chitarra ritmica e Bernie Leadon, alla chitarra solista e al mandolino, fanno faville regalando al brano quella vena di tristezza tipica dei cow-boy.
La prima facciata si chiude con la title track, vero inno all’epoca d’oro del West e capolavoro assoluto: il pianoforte di Frey e il tappeto d’archi sottostante accentuano il pathos della canzone, su cui si innesta il cantato vigoroso di Henley; i cori si riducono ai minimi termini, facendone quasi una prova solista, accentuando così la solitudine e la malinconia del protagonista.
“Certain Kind Of Fool” apre il secondo lato. Cantata da Maisner, la canzone tratta dell’escalation criminale del fuorilegge, da povero ragazzo di umili origini, a pistolero, a bandito, costantemente braccato dalla legge. Il brano, inoltre, contiene un sottile riferimento alla vita delle rockstar soprattutto nei versi “he saw it in a window" in cui non è ben chiaro se si parli di una pistola o di una chitarra; “a poster on a storefront, the picture of a wanted man” che può essere interpretato indistintamente come ricercato dalla legge o ricercato dai fan; “he’s runnin everyday” che rievoca sia la fuga dai bounty killer che i continui tour con la band. Una breve ripresa di “Doolin Dalton”, eseguita dal solo banjo di Leadon, introduce “Outlaw Man”, di David Blue, il cui titolo non lascia nulla all’immaginazione: il suono duro e distorto del pezzo ben descrive la condizione del pistolero, spesso senza via d’uscita (“I am an outlaw, I was born an outlaw’s son), sempre in bilico tra peccato e redenzione (“In one hand I’ve a Bible, in the other I’ve got a gun”). Il mandolino di Leadon e la dodici corde di Frey danno vita alla tenera “Saturday Night”, mentre la scarna e allucinata “Bitter Creek” rievoca il sole del deserto e le visioni provocate dal peyote. Il finale è affidato al lungo medley “Doolin Dalton/ Desperado” , che culmina in un crescendo spettacolare.
L’album, pur non raggiungendo il successo del precedente, vendette due milioni di copie. I singoli estratti, “Tequila Sunrise” e “Outlaw Man”, entrarono nella Top 100 assestandosi intorno alla cinquantesima posizione. Stranamente non venne estratta come singolo la title track, diventata, col tempo, un marchio di fabbrica della band.
La tendenza palesatasi durante la lavorazione di Desperado trovò immediata conferma nel periodo successivo. Henley e Frey assunsero, man mano, una posizione predominante all’interno del gruppo, incrinandone parzialmente gli equilibri . Inoltre, data la tiepida accoglienza ricevuta dall’ultimo album, i due leader optarono per un radicale cambio di stile, abbandonando parzialmente il country per sonorità maggiormente orientate verso il rock. Queste tensioni non poterono non influenzare le sessioni per il successivo On The Border, pubblicato nel 1974. Registrato in parte agli Olympic Studios di Londra e in parte ai Record Plant Studios di Los Angeles, il disco ebbe una genesi particolarmente travagliata. Il fido produttore Glyn Jones, dichiaratamente ostile al cambio di rotta, fu licenziato subito dopo la registrazione di soli due brani per essere sostituito da Bill Szymczyk. In aggiunta a questo, al fine di rinvigorire un sound ormai antiquato, Glenn Frey chiese a Don Felder (Gainsville - 21 settembre 1947), già membro dei Flow, di unirsi alla band, dapprima come semplice turnista, poi come membro a tutti gli effetti. Amico di infanzia di Leadon e talentuoso chitarrista (tanto da essere soprannominato “Fingers” per la sua abilità), Felder, pur presente nei credits come “ultimo arrivato”, contribuì in minima parte alla registrazione di On The Border fornendo il suo apporto solamente in due brani.
È proprio uno di questi, “Already Gone”, ad aprire la prima facciata. Il suono poderoso fornito dal nuovo chitarrista è evidente soprattutto nei suoi duetti ad alto tasso tecnico con Bernie Leadon. Lo stile musicale delle origini non viene, però, accantonato del tutto e fa capolino nei cori melodiosi e nel tappeto sonoro a base di chitarra acustica che caratterizzano il brano. La power ballad “You Never Cry Like A Lover”, scritta con J.D. Souther, conferma l’accostamento a sonorità molto più “radiofoniche” e di facile presa, mentre le venature country tornano a manifestarsi in “Midnight Flyer”, che, grazie alle altissime armonie vocali, al banjo e alla slide guitar, corre veloce come un treno nella prateria.
“My Man” è la commovente dedica di Leadon a Gram Parsons, suo ex-compagno da poco scomparso. In essa le sonorità rock si spengono del tutto per omaggiare, attraverso l’uso sapiente della pedal-steel, i gloriosi Flying Burrito Brothers. Ma, non appena le ultime note di “My Man” si spengono, ecco che parte la title track in cui si arriva a sfiorare l’hard-rock. L’unica concessione allo stile Eagles sono le immancabili armonizzazioni a quattro voci, sebbene sovrastate da quintali di overdrive. La durezza di “On The Border” può essere fatta risalire anche a una latente indignazione per lo “scandalo Watergate” cui, sembra, la canzone sia ispirata; nella coda finale si può ascoltare Frey sussurrare: “Say goodnight Dick!” con evidente riferimento all’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon.
La scatenata “James Dean”, scritta in collaborazione con Browne e Souther, apre la seconda facciata. L’inno a un idolo di gioventù, ribelle e anarchico (“too fast to live, to young to die”) fornisce lo spunto per un brano dagli echi marcatamente rockabilly, evidenziati dal frenetico boogie del basso di Maisner. Ma la gemma dell’album è rappresentata dalla crepuscolare e dolente “Ol’ 55”, scritta da un ancor giovanissimo e semi-sconosciuto Tom Waits (gli Eagles contribuiranno in maniera essenziale al successo dell’artista proprio grazie a questa cover). La magistrale esecuzione del brano, che vede l’alternarsi della voce di Frey (nella strofa) e di Henley (nel ritornello) unitamente alla pedal steel di Al Perkins, rappresenta uno dei vertici della loro produzione e uno dei migliori esempi di sempre del West Coast sound. I toni pacati e suadenti proseguono nella successiva “Is It True”, scritta e cantata da Maisner, per poi spegnersi del tutto in “Good Day In Hell”, pezzo quasi southern-rock, impreziosito dalla vigorosa slide guitar di Don Felder.
Il country, tuttavia, scorreva ancora copiosamente nelle vene del gruppo e la dimostrazione più lampante è data dalla meravigliosa “Best Of My Love”, in cui gli Eagles, in gran forma, sfoderano tutto il loro repertorio fatto di chitarre a dodici corde, squillanti pedal steel e cori stratosferici.
L’album, pur essendo molto discontinuo e disomogeneo rispetto ai precedenti, riscosse un grande successo, vendendo oltre due milioni di copie e piazzandosi al diciassettesimo posto in classifica. I singoli estratti - “James Dean”, “Already Gone” e “Best Of My Love” - ottennero, anch’essi, ottimi riscontri commerciali. Quest’ultima, in particolare, regalò agli Eagles il loro primo n. 1.
La popolarità raggiunta fece si che il gruppo divenisse uno dei più richiesti dalle platee americane. Le esibizioni dal vivo aumentarono notevolmente e raggiunsero il culmine il 6 aprile del 1974, quando la band suonò al “California Jam” davanti a un pubblico stimato di trecentomila persone. Il mastodontico evento, soprannominato “la Woodstock della West Coast”, poté vantare la presenza di artisti di primissimo piano quali Black Sabbath, ELP, Deep Purple ed Earth, Wind & Fire, nonché la copertura mediatica della Abc, che permise agli Eagles di ottenere un’enorme visibilità. Il successo ormai indiscutibile, le tensioni interne mai sopite (dovute soprattutto alla leadership indiscussa del binomio Frey-Henley) non spensero, però, l’ispirazione.
Poco più di un anno dopo, il 10 giugno 1975, uscì One Of These Nights che confermò la direzione intrapresa dagli Eagles nell'album precedente. Registrato interamente negli Stati Uniti, ai Mac Emmermann’s Criteria Studios di Miami e ai Record Plant di Los Angeles, l’album vede la presenza, questa volta, costante di Don Felder durante la lavorazione. Il risultato è una di quelle miscele formidabili che, in genere, riescono una volta sola: le due anime del gruppo, country e pop, si amalgamano alla perfezione, esaltando la vena melodica del marchio Eagles e il canto, caldo e suadente, di Henley.
Spettacolare la title track che apre il lato A: parte con un gran giro di basso – con echi della beatlesiana “Come Together” – poi si apre radiosa in una perfetta pop-song, con il cantato confidenziale di Henley, falsetti e cori deliziosi, nonché energici, quanto calibratissimi solo chitarristici. Si narra di visioni notturne, di sogni febbrili da inseguire sotto la luna piena. Tutto è avvolgente, levigato, terribilmente struggente.
Le atmosfere western ritornano in “Too Many Hands” (i Bon Jovi di “Wanted Dead Or Alive” devono aver ringraziato sentitamente) in cui si segnalano l’ottima prova vocale di Maisner e il gran lavoro di Frey alla dodici corde: il testo è un’ode a una bellezza preziosa come un arcobaleno (“Sometimes hard to find/ Like a rainbow”), sulla quale però si posano troppe mani (“Too many hands/ Being laid on her/ Too many eyes will never see/ That it's dragging her down”).
L’ anima country di Leadon trova il suo spazio in “Hollywood Waltz”, dove la voce scura di Henley rievoca la decadenza di Desperado in un tripudio di mandolini e pedal steel, e nella magnifica suite strumental-psichedelica “Journey Of The Sorcerer”, estatico assolo di banjo, arricchito sia dal violino di David Bromberg che dagli archi della Royal Martian Orchestra.
Il pop torna a prendere il sopravvento nella sontuosa “Lyin’ Eyes” che inaugura il lato B raccontando le gesta di una ragazza di città, legata per convenienza a un vecchio riccastro dalle mani fredde come il ghiaccio (“a man with hands as cold as ice”), che è costretta dunque a mentire (“you can't hide your lyin' eyes”), ma che trova sollievo nel ricordo di un vecchio amore dei tempi della scuola. Ancora una volta la voce educata di Frey, i ricami chitarristici, i coretti struggenti e il drumming rilassato di Henley danno vita a un brano perfetto per gli standard radiofonici internazionali, caldo come il sole d’estate e dolce come lo zucchero. Con una di quelle melodie semplici e irresistibili, che vanno dritte al cuore. E a confermare l’abilità della band nel cesellare sonorità soffici e avvolgenti giunge anche il valzerone di “Take It To The Limit”: un Maisner, in gran spolvero, sia dal punto di vista vocale che compositivo, forgia abilmente questa trascinante power ballad destinata a far breccia nei cuori di nugoli di innamorati; il ritmo altalenante e l’uso del falsetto (specie nel finale) segnano la strada, mentre gli inserimenti del pianoforte e degli archi enfatizzano l’epos, suggellato anche da un testo che inneggia alla libertà: “So put me on a highway, show me a sign and take it to the limit one more time”.
Don Felder scrive e canta la potente “Visions”, in cui può mettere in mostra tutto il proprio talento chitarristico, caratterizzato dal timbro potente e preciso della sua Gibson. Dopo la sferzata rock, si torna a toni decisamente più tranquilli con la sognante “After The Thrill Is Gone”: interpretato da Frey nella strofa, per poi assumere forza nel ritornello grazie alla voce di Henley, il brano – altro saggio di classe immensa - vede una dolce dodici corde integrarsi con gli energici fraseggi di chitarra elettrica e con il suono lontano della pedal steel di Leadon. È proprio una canzone di Leadon a chiudere l’album, quell’“I Wish You Peace” scritta a quattro mani con la sua compagna dell’epoca Patti Davis, figlia del governatore della California e futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Definita da Don Henley “smarmy cocktail music” (“untuosa musica da cocktail”), si snoda su un ritmo indolente e strascicato, sfoderano l’ennesimo ritornello aggraziato, condito dai cori impeccabili.
L’album raggiunse la vetta delle classifiche aggiudicandosi, perfino, una nomination ai Grammy nella categoria “Album Of The Year”. I tre singoli estratti, “One Of These Nights”, “Lyin’Eyes” e “Take It To The Limit” raggiunsero, rispettivamente, la posizione n. 1, n. 2 e n. 4 della Billboard Top 100, diventando immediatamente dei bestseller. Eppure, secondo un consumato rituale, parte della critica storse il naso al cospetto della presunta “svolta pop”. Ci sarebbero voluti diversi anni per restituire la gloria a quello che rimane tuttora uno dei dischi più sottovalutati degli Eagles.
Il successivo tour mondiale, che vide i Fleetwood Mac in qualità di opening band, ne confermò lo status di superstar internazionali ma, nonostante la fama e le gratificazioni, la band si trovò ad affrontare cambiamenti sostanziali e irreversibili.
L’apoteosi e la fine
I ritmi vorticosi della tournée e lo stress accumulato acuirono le tensioni già presenti all’interno del gruppo. In particolar modo il controllo assoluto esercitato da Glenn Frey e Don Henley, in merito alle scelte artistico/musicali, cominciò a irritare gli altri componenti. Fu soprattutto Leadon a risentire di questa gestione quasi dittatoriale e del radicale mutamento di stile, mostrandosi sempre più insofferente nei confronti degli altri membri. Spiccatamente orientato verso il country, subì malvolentieri la svolta pop impressa agli ultimi due lavori. La sua presenza divenne, col tempo, sempre più marginale e la sua frustrazione ormai insostenibile, tanto da costringerlo a lasciare la band nel peggior modo possibile. Si narra che, durante un acceso confronto verbale, avesse rovesciato boccale di birra sulla testa di Frey. Evidentemente si era giunti a un punto di non ritorno e la separazione fu inevitabile.
La perdita fu pesante: Leadon, capace polistrumentista, aveva lasciato un vuoto tecnico/strumentale difficile da colmare, tanto che fu particolarmente complicato reperire un adeguato sostituto. Dopo mesi di indecisione e numerose audizioni, il 20 dicembre 1975, fu annunciato ufficialmente il nuovo acquisto. Si trattava di Joe Walsh (Wichita - 20 novembre 1947) un chitarrista di provata esperienza, con alle spalle la militanza in band di successo, quali la James Gang, e una discreta carriera solista. La scelta, tuttavia, non fu per niente facile, osteggiata soprattutto da Henley, che vedeva lo stile di vita “selvaggio” di Walsh poco adatto a una band come gli Eagles. Probabilmente il fatto che il nuovo candidato avesse in comune col gruppo sia il manager Azoff che il produttore Szymczyk fu un fattore fondamentale per la definitiva assunzione. A dispetto del periodo particolarmente movimentato, gli Eagles tornarono in sala di incisione per lavorare su del materiale inedito che sarebbe confluito nell’attesissimo seguito di One Of These Nights.
Nel frattempo, al fine di sfruttare quanto più possibile l’effetto traino fornito dall’ultimo album in studio, l’ Asylum Records, il 17 febbraio del 1976, pubblicò la prima raccolta ufficiale della band. Fu un’ottima mossa. Intitolata Their Greatest Hits (1971-1975), la compilation ottenne un successo sensazionale, arrivando a vendere oltre 29 milioni di copie nei soli Stati Uniti e più di 42 milioni di copie in tutto il mondo, e diventando così uno dei dischi più venduti di tutti i tempi, al pari di “Thriller” di Michael Jackson. Nonostante il loro status, ormai innegabile, di gruppo di maggior successo del decennio, gli Eagles non si lasciarono distrarre e il 20 dicembre successivo pubblicarono quello che è considerato il loro capolavoro e testamento spirituale: Hotel California. L’ingresso in organico del nuovo elemento, permise alla band di completare definitivamente la sua trasformazione musicale, affrancandosi totalmente dal country delle origini per abbracciare sonorità innegabilmente rock, incentrate sui virtuosismi di Felder e Walsh e su un timbro sempre più grezzo e potente, con un occhio di riguardo al mainstream.
Ideato e realizzato come una sorta di concept-album, Hotel California esplora la decadenza dell’America e il suo crescente materialismo. La title track, in apertura di lato A, è la chiave di volta del disco. Un potente affresco, sull’edonismo, sul lusso e sull’auto distruzione dell’ alta borghesia losangelina, mascherato da malinconica ballad a base di dodici corde. Il ritornello accattivante e lo strepitoso assolo finale rappresentano, senza dubbio, i momenti più riconoscibili del brano. La caducità dell’amore e del successo sono al centro di “New Kid In Town”, dolce canzone caratterizzata dalla pastosità dei cori, da un elegante piano elettrico e dal guitarròn mexicano di Maisner. Il contributo di Walsh all’album è rappresentato sia dalla stesura (in team con Henley e Frey) che dal potente riff di “Life In The Fast Lane”, palpitante rock sulla vita “al limite” di una benestante coppia californiana, tra feste oltraggiose, pillole giuste e corse a tutta velocità.
La bellezza malinconica di “Wasted Time”, letteralmente “tempo perso”, chiude la prima facciata: è la fine di un amore descritta dalla sofferta voce di Henley, accompagnata prevalentemente da pianoforte e archi, un arrangiamento che rimanda direttamente alla più nota “Desperado”.
Una ripresa strumentale di “Wasted Time” apre il lato B, prima dell’incendiaria “Victim Of Love”, in cui le chitarre distorte mascherano la vicenda di un amore violento e disperato. L’ottima ballad “Pretty Maids All In A Row”, opera di Walsh (qui anche in veste di cantante), prosegue il cammino lungo il filone della malinconia, attraverso una sentita riflessione sul tempo che scorre inesorabilmente, portando via persone e cose, lasciando dietro di sé solo l’ombra di un ricordo. Maisner scrive e canta “Try And Love Again”, canzone di matrice vagamente country, arricchita dalle note di una slide guitar, prima della salva finale affidata alla meravigliosa “The Last Resort” ideale seguito di “Hotel California”. Delicata e struggente, la canzone, affidata all’interpretazione di Henley, affronta il problema della distruzione delle bellezze della natura e dell’ecosistema. Un’insospettabile vena ecologista e un velato nichilismo permeano questa elegia sulla fine del sogno americano e sull’avvento di una nuova era piena di cupidigia e arrivismo.
Il disco, grazie all’impegno nei testi e alla qualità musicale, mise d’accordo critica e pubblico. Nei primi mesi del 1977 vendette oltre sedici milioni di copie solamente negli Stati Uniti, volando in testa alle classifiche e restandoci per otto settimane. I singoli estratti, “Hotel California” e “New Kid In Town”, balzarono in testa alla Billboard Hot 100, mentre “Life In The Fast Lane” raggiunse un buon undicesimo posto. Ottenne diverse nomination ai Grammy vincendone due, una nella categoria Record Of The Year e una nella categoria Best Arrangement For Voices (per “New Kid In Town”), arrivando, inoltre, secondo nella categoria Album Of The Year preceduto solo dall’epocale “Rumours” dei Fleetwood Mac.
Il colossale tour mondiale a supporto dell’album ebbe riscontri entusiastici, ma contribuì anche ad allontanare progressivamente i membri della band, acuendo le loro divergenze artistiche e personali. Alla fine della tournée, Maisner abbandonò il gruppo. La motivazione ufficiale fu l’esaurimento dovuto ai vorticosi ritmi di lavoro. Ma la sua incapacità di gestire lo stress fu solo una spiegazione di facciata, volta a nascondere le reali cause della separazione, ovvero i crescenti dissapori con Henley e Frey per la loro, ormai incondizionata, leadership. A sostituirlo fu chiamato, ironia della sorte, lo stesso bassista che lo aveva rimpiazzato nei Poco: Timothy B. Schmit (Oakland - 30 ottobre 1947). Questa volta non fu difficile trovare un musicista adeguato, dal momento che, a quanto pare, Schmit fu l’unico a candidarsi.
Con una line-up nuovamente stravolta, la band tornò in studio nel 1977 senza, però, trovare l’antica alchimia. Il nuovo album, The Long Run, richiese, infatti, due anni di lavoro e un milione di dollari di spese. Concepito originariamente come doppio album, uscì invece come Lp singolo, confermando la crescente stanchezza e un netto calo d’ispirazione (nel Natale 1978 pubblicarono persino il singolo “Please Come Home For Christmas”/ “Funky New Year”). Registrato in cinque posti differenti - il Record Plant Studios, il Britannia Recording Studios, il Love ‘n Comfort Recording Studios, lo One Step Up Recording Studios e il Bayshore Recording Studios - fu anche l’ultimo prodotto dall’Asylum Records.
Pubblicato nel settembre del 1979, The Long Run vide un ulteriore accostamento degli Eagles a sonorità tipicamente rock e soft-pop. Il brano omonimo, in apertura di lato A, rispecchia in pieno questa tendenza, grazie all’innegabile orecchiabilità, alla pulizia del suono e a una ritmica vicina al rhythm and blues (da notare la sezione fiati sullo sfondo). Anche le tematiche si alleggeriscono, passando da una cupa riflessione sulla società americana a liriche improntate a un maggiore disimpegno, in questo caso la celebrazione della pluriennale amicizia tra Henley e Frey.
Timothy B. Schmit sfodera la sua classe contribuendo in maniera decisiva (suoi sia il cantato, sia gran parte della stesura) alla realizzazione di “I Can’t Tell You Why”, destinata a divenire negli anni un grande classico. Le sofferenze amorose, un melodico arrangiamento a base di piano e organo, i falsetti celestiali ne fanno un brano di grande impatto emotivo e dall’indubbio appeal radiofonico. Walsh, la personalità più sanguigna della band, dà voce alla sua anima rock scrivendo e cantando la potente “In The City”. Inclusa nella colonna sonora del film “The Warriors” di Walter Hill (in italiano “I Guerrieri della Notte”), il pezzo è un’energica power ballad, a base di overdrive e slide guitar, sulla crudezza della vita nelle periferie metropolitane.
A dispetto del titolo, “The Disco Strangler” non è un’incursione degli Eagles nei territori dell’imperante disco-music, ma un’ineguale avventura nel regno del funk, con tanto di controtempi e basso pulsante. Le atmosfere rarefatte e dolenti di Hotel California tornano in “King Of Hollywood”, realistico ritratto di un produttore cinematografico ormai in declino. In questo caso, anche il suono riflette quello del lavoro precedente, soprattutto nei complessi dialoghi chitarristici tra Felder e Walsh.
Il lato B inizia con “Heartache Tonight”, un grezzo blues di stampo southern composto con l’aiuto del fido J.D. Souther e di Bob Seger: ruvido, sporco, volutamente scarno, il brano è un’interessante commistione tra il sound degli Allman Brothers, incarnato dalla dominante slide guitar di Walsh, e lo stile tipicamente melodico degli Eagles, fatto di armonie a più voci tra Henley, Frey e Schmit. “Those Shoes” è, se possibile, ancora più essenziale, contraddistinta com’è da una batteria palpitante e dal miagolio del talk box. Il dramma dei ragazzi rinchiusi in riformatorio emerge prepotentemente nella spettrale e dilatata “Teenage Jail”, capace di rievocare, con le sue atmosfere cupe e con il suo ritmo cadenzato, le più disperate “prison songs” della tradizione americana.
La spensieratezza torna nella divertente “The Greeks Don’t Want No Freaks” che anticipa significativamente gli imminenti anni 80, grazie all’uso massiccio del sintetizzatore. La facciata si chiude con la pop ballad “The Sad Cafè”, tenero ricordo dei primi concerti del gruppo al Troubadour’s di Los Angeles, impreziosita dal sax contralto di David Sanborn.
Pubblicato nel settembre 1979, l’album si piazzò subito al secondo posto della Billboard’s Pop Album Charts, scalzando, una settimana più tardi, l’ultimo album dei Led Zeppelin,“In Through The Out Door”, dalla prima posizione. The Long Run rimase in vetta alle classifiche per ben otto settimane e i tre singoli estratti entrarono nella Top 10 raggiungendo rispettivamente l’ottavo (la title track e “I Can’t Tell You Why”) e il primo posto (“Heartache Tonight”).
Il successivo tour promozionale fu, tuttavia, fatale alla band. Le tensioni interne crebbero a dismisura tanto da raggiungere l’apice il 31 luglio 1980 quando, durante una tappa a Long Beach (rinominata in seguito “Long Night In Wrong Beach”) Felder e Frey discussero animatamente durante tutto il concerto. Gli Eagles si sciolsero inevitabilmente subito dopo, sebbene l’Elektra Records, nuova casa discografica del gruppo, avesse già in mente di pubblicare un live album tratto dall’ultima tournée. Eagles Live risentì del clima avvelenato in cui fu concepito. Le tracce in esso contenute furono mixate a distanza da Frey e da Henley che, arrivati ormai al punto di non voler condividere né la stessa città né, tanto meno, lo stesso studio, risiedevano in due luoghi opposti degli Stati Uniti. Il produttore Bill Szymczyk ebbe a dire: “La perfetta registrazione delle armonie vocali a tre parti fu gentilmente concessa della Federal Express”. Nei crediti di copertina, inoltre, appare un lapidario “Grazie e buonanotte”, che lascia ben poche speranze riguardo il destino degli Eagles. Nonostante ciò, il disco raggiunse un buon ventunesimo posto in classifica, forte della presenza di una quantità incredibile di evergreen. Unico inedito, “Seven Bridges Road” di Steve Young, brano solitamente usato dalla band nel back-stage per riscaldarsi prima di salire sul palco.
Gli Eagles ufficialmente non esistevano più. Il gruppo di maggior successo discografico degli anni 70 era finito nella maniera peggiore, dilaniato da continui scontri tra personalità opposte. Ma non era ancora detta l’ultima parola...
Ancora in volo
Dopo lo scioglimento i vari membri proseguirono le loro carriere soliste con alterne fortune. Fu Don Henley a ottenere maggior successo grazie alla pubblicazione di ottimi album come I Can’t Stand Still (contenente l’hit “Dirty Laundry”) del 1982, Building The Perfect Beast del 1984 (con il grande hit “The Boys Of Summer”) e The End Of The Innocence del 1989.
Glenn Frey, da parte sua, raggiunse buoni risultati grazie a No Fun Aloud del 1982 e a The Allnighter del 1984, unitamente a numerose partecipazioni con vari brani in numerose soundtrack (“Beverly Hills Cop”, “Miami Vice”, “Ghostbuster II”, “Thelma e Louise”).
Molto più deludente fu il percorso di Joe Walsh che, sebbene avesse cominciato a pubblicare lavori solisti già dai primi anni 70, dopo gli Eagles non fu più in grado di rinverdire gli antichi fasti, se si esclude l’album There Goes The Neghborhood del 1981. Preferì, quindi, virare verso prestigiose collaborazioni, da session-man di lusso, con artisti di fama internazionale quali Steve Winwood, Ringo Starr ed ELP. Anche Don Felder rimase nell’ombra, partecipando con due canzoni - “Heavy Metal (Taking A Ride)” e “All Of You” - alla colonna sonora del misconosciuto “Heavy Metal” e pubblicando il solo “Airborne” nel 1983.
Timothy B. Schmit si diede parecchio da fare, partecipando ad album di artisti del calibro di CS&N, Toto, Jimmy Buffett, Richard Marx e Ringo Starr. Ottenne anche una hit con “So Much In Love”, tratta dalla colonna sonora di “Fast Times At Ridgemont High”. Gli ex-membri Randy Maisner e Bernie Leadon rimasero nell’ambito musicale diventando ricercatissimi turnisti, a fronte di una carriera solista avara di soddisfazioni.
Intanto l’interesse del pubblico intorno allo storico marchio venne mantenuto alto dalle case discografiche che, durante tutto il decennio, pubblicarono periodicamente varie antologie. Eagles Greatest Hits Vol. 2, The Best Of Eagles, The Legend Of Eagles si susseguirono a ritmo serrato, ottenendo puntualmente vendite eccellenti. Le cose presero una piega inaspettata nel 1993 quando, a seguito della pubblicazione di “Common Thread:The Song Of The Eagles”, un degno album-tributo, il musicista Travis Tritt chiese e ottenne di avere nel video di “Take It Easy” gli ex-membri della storica band californiana nella line-up con la quale incisero The Long Run.
Dopo oltre quattordici anni di silenzio e di speculazioni, gli Eagles tornarono insieme ufficialmente l’anno successivo. Nell’aprile del 1994 tennero il loro primo concerto dai tempi della triste serata di Long Beach, coadiuvati da un team di ottimi musicisti quali Scott Crago, John Corey, Timothy Dury e Al Garth. Dalla tournée fu ricavato l’album Hell Freezes Over, che esordì direttamente al primo posto nella classifica di Billboard. Arricchito da quattro pezzi inediti incisi in studio (“Get Over It”, “Love Will Keep Us Alive”, “The Girl From Yesterday”, “Learn To Be Still”), il disco è principalmente composto da fantastiche rivisitazioni dei loro più grandi successi (una su tutte, la spettacolare versione “unplugged” di “Hotel California”).
La serie di concerti fu improvvisamente interrotta per una diverticolite che colpì Glenn Frey, ma fu prontamente ripresa nel 1995 e proseguì per buona parte del 1996.
Gli Eagles erano di nuovo sulla cresta dell’onda e nel 1998 ottennero il massimo riconoscimento in carriera, venendo inclusi nella Rock And Roll Hall Of Fame. Fu un momento veramente speciale, perché durante la cerimonia, per la prima volta nella storia, tutti i membri degli Eagles, Maisner e Leadon inclusi, suonarono insieme sullo stesso palco. I concerti continuarono incessanti, caratterizzandosi per il prezzo sempre più alto dei biglietti. Il gruppo salutò il nuovo millennio con uno spettacolo sold-out allo Staples Center di Los Angeles il 31 dicembre 1999 e con la pubblicazione, il 14 novembre del 2000, del monumentale cofanetto Selcted Works: 1972-1999, comprendente le maggiori hit, varie rarità e una registrazione del “Millennium Concert”.
Il periodò estremamente felice dal punto di vista professionale, non bastò a far dimenticare i vecchi rancori. Il 6 febbraio del 2001 fu inaspettatamente licenziato Don Felder, il quale prontamente intraprese un’azione legale nei confronti di Don Henley, di Glenn Frey e della Eagles Ltd California Corporation, chiedendo un risarcimento danni pari a cinquanta milioni di dollari. Felder accusò i colleghi di pretendere una percentuale maggiore sulle royalties relative agli album Hell Freezes Over e Selected Works quando queste avrebbero dovuto essere divise in parti uguali. Henley e Frey denunciarono a loro volta il chitarrista per violazione contrattuale, legata alla scrittura del libro biografico intitolato “Heaven And Hell: My Life In The Eagles (1974-2001)”. Quest’opera, la cui pubblicazione fu continuamente ostacolata e viziata da numerosi tagli e correzioni, vide la luce nella sua versione definitiva il 28 aprile 2008.
La controversia legale venne finalmente risolta in maniera extra-giudiziale attraverso il pagamento di una cifra mai resa nota. Intanto la band pubblicò, nell’ottobre del 2003, il greatest hits The Very Best Of Eagles, contenente il nuovo singolo “Hole In The World”, ispirato agli attacchi terroristici dell’11 settembre.
Ormai destinati a vivere di rendita, gli Eagles sfruttarono al massimo l’appeal commerciale dei brani di punta della loro discografia, pubblicando, il 14 giugno del 2005, il doppio Dvd “Farewell 1 Tour- Live From Melbourne”, in cui ripercorsero i momenti essenziali della loro carriera, impreziosendoli sapientemente con due inediti: “No More Cloudy Days” di Frey e “One Day At Time” di Walsh.
Dopo due anni di silenzio la band, il 30 ottobre del 2007, pubblicò The Road Out Of Eden, primo album di inediti a ventott’anni di distanza da The Long Run. Un buon disco in cui gli Eagles appaiono in gran forma, capaci di spaziare dal canto “a cappella” di “No More Walks In The Wood”, al country-rock di “How Long” e “Busy Being Fabulous”, da morbide ballad come “No More Cloudy Days” al rock di “Fast Company”. Il disco toccò i vertici delle classifiche, vendendo tre milioni e mezzo di copie solo negli Stati Uniti, vincendo due Grammy per “How Long” e per la strumentale “I Dreamed There Was No War”. Risultato strepitoso, visto che, durante il primo anno di pubblicazione, fu reperibile in Nord America solo attraverso il sito ufficiale della band o nei soli negozi Wal-Mart e Sam’s Club. Il tour promozionale partì il 20 marzo 2008 dall’Arena O2 di Londra per toccare le maggiori città del mondo.
A tutt’oggi gli Eagles rimangono una delle band più acclamate del pianeta, capace di raccogliere ovunque sold-out nonostante i prezzi elevatissimi dei biglietti. Intervistati più volte in merito a una possibile nuova uscita discografica, Schmit, Frey, Walsh e Henley hanno sempre, però, risposto evasivamente. Comunque vadano le cose, ci sarà sempre una schiera di fan adoranti pronta a seguirne i capricci, le liti, le riappacificazioni ma, soprattutto, la grande musica, a dimostrazione che le Aquile sanno volare ancora alto.
Nel 2016, però, a porre probabilmente la parola fine alla storia degli Eagles giunge la notizia della morte di Glenn Frey, in seguito alle complicazioni di una artrite reumatoide e di una polmonite. "È con il cuore pesante che annunciamo la morte del nostro compagno e fondatore degli Eagles Glenn Frey, a New York City il 18 gennaio 2016", così recita il testo dell’annuncio sul sito del gruppo. Un lutto pesante da assorbire non solo per tutti i fan della band californiana, ma per l'intera storia del rock.
Contributi di Claudio Fabretti ("One Of These Nights")
EAGLES | ||
Eagles (Asylum, 1972) | 7 | |
Desperado (Asylum, 1973) | 8 | |
On The Border (Asylum, 1974) | 6,5 | |
One Of These Nights (Asylum, 1975) | 8 | |
Greatest Hits (anthology, Asylum, 1976) | ||
Hotel California (Asylum, 1976) | 8,5 | |
The Long Run (Asylum, 1979) | 6 | |
Eagles Live (live, Asylum, 1980) | 7 | |
Greatest Hits vol. II (anthology, Asylum, 1982) | ||
The Best Of The Eagles (Asylum, 1985) | ||
The Legend Of Eagles (WEA, 1988) | ||
The Very Best Of Eagles (Asylum, 1994) | ||
Hell Freezes Over (Geffen, 1994) | 6,5 | |
Selected Works 1972-1999 (antologia, Elektra, 2000) | ||
The Very Best Of Eagles (Warner Bros., 2001) | ||
The Very Best Of (Warner Bros., 2003) | ||
Eagles (box set, Warner Bros., 2005) | ||
Long Road Out Of Eden (ERC/Lost Highway Records, 2007) | 7 | |
DON HENLEY | ||
I Can’t Stand Still (Asylum, 1982) | 6 | |
Building The Perfect Beast (Geffen, 1984) | 8 | |
The End Of The Innocence (Geffen, 1989) | 7 | |
Inside Job (Warner Bros., 2000) | 6,5 | |
GLENN FREY | ||
No Fun Aloud (Asylum, 1982) | 6,5 | |
The Allnighter (MCA, 1984) | 7 | |
Soul Serchin (MCA, 1988) | 4,5 | |
Strange Weather (MCA, 1992) | 5,5 | |
After Hours (MCA, 2012) | 5,5 |
Witchy Woman | |
Tequila Sunrise | |
Best Of My Love | |
One Of These Nights | |
Hotel California | |
The Long Run | |
Hell Freezes Over - Backstage |
Sito ufficiale | |
Testi |