Prologo
I Traffic sono probabilmente l’unica band nella storia in grado di pubblicare una pietra miliare del rock psichedelico e una del rock progressivo. La sola entità che potrebbe contendergli questo primato sono i Pink Floyd, che però rappresentano un discorso a parte, visto che ancora oggi molti mettono in discussione la loro effettiva appartenenza al prog, sia per un approccio compositivo alquanto distante dalle altre band del settore, sia per una maestria tecnica nettamente inferiore alla media.
La musica dei Traffic è invece più inquadrabile. Hanno avuto un'evoluzione rocambolesca, ma i loro continui cambiamenti hanno sempre spinto in una direzione perfettamente contestualizzabile nel proprio tempo. Si tratta di una delle band più rappresentative per le mutazioni che hanno interessato il rock più evoluto a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, eppure questo aspetto si è rivelato a doppio taglio. Se all’epoca la capacità di captare le vibrazioni contemporanee e darne un quadro preciso li rese alquanto popolari, oggi li fa apparire superati. Fra i tanti nomi classici dell’epoca i Traffic sono forse quello il cui fan ha l’età media più elevata.
I Genesis, gli Yes, ma anche i Jethro Tull, hanno goduto nel post-2000 di un culto sotterraneo non trascurabile fra gli appassionati di musica più giovani. Addirittura una band che all’epoca vendeva molto meno, quale i King Crimson, se la passa decisamente meglio. I Traffic sembrano invece rimasti prigionieri di un limbo, lontanissimi. Se in diretta molti ne seguirono le intuizioni, viceversa nel corso del tempo la loro influenza è andata restringendosi fino a svanire. In tempi recenti è quasi impossibile individuare un artista disposto a rielaborarne i suoni. Forse qualche jam band, come i Phish o la Dave Matthews Band, ma davvero poco altro.
Capirne il motivo non è semplice. I corsi e ricorsi storici della musica seguono dinamiche spesso senza logica apparente. Magari fra vent’anni i Traffic saranno celebratissimi, oppure saranno definitivamente sprofondati nell’oblio, chi può dirlo? Quel che è certo è che attualmente meriterebbero molta più attenzione. Perché fissi nel loro tempo quanto si vuole, i dischi dei Traffic rimangono particolarmente significativi. Il fatto che oggi riescano a comunicare con meno gente rispetto a quelli di altri loro contemporanei non rappresenta in alcun modo un demerito, e non ne diminuisce la portata creativa e artistica.
I primi singoli
L’avventura inizia con la velocità di un lampo. È il gennaio del 1967 quando Steve Winwood è ancora parte dello Spencer Davis Group per la promozione di uno dei singoli capolavoro del blues rock, “I’m A Man”. A maggio, più o meno in concomitanza col diciannovesimo compleanno di Winwood, esce “Paper Sun”, 45 giri di debutto dei Traffic. In quei quattro mesi Winwood ha: lasciato Spencer Davis, conosciuto tre talentuosi musicisti con cui ha formato la nuova band, affittato un cottage in cui ritirarsi per comporre e suonare, firmato un contratto con la Island. Gli altri tre membri dei Traffic sono il batterista Jim Capaldi, il fiatista Chris Wood e il polistrumentista Dave Mason, che si spartisce con Winwood tutto il resto, canto compreso.
“Paper Sun” è uno knock out immediato. Prodotta da Jimmy Miller, come tutte le loro incisioni fino al primo scioglimento, e scritta dalla coppia Winwood-Capaldi, si poggia su un groove che vede impegnati, oltre alla tradizionale sezione ritmica, il sitar di Mason, il sax pulsante di Wood e uno stuolo di tabla. Non tutti gli strumenti sono impegnati a sospingere il ritmo a ogni modo, come dimostrano i deliziosi ritocchi di flauto.
L’arrangiamento vocale è particolarmente complesso: Winwood è la voce solista, subito riconoscibile grazie al suo timbro screziato di soul. Una voce lontana gli fa eco nella strofa, mentre nel ritornello entra un coro etereo, non dissimile da quelli dei primi singoli dei Pink Floyd. Sul finale, mentre più linee vocali si sovrappongono sullo sfondo, Winwood si sposta inaspettatamente su un volume nettamente più alto rispetto al background strumentale e assume un tono quasi tragico. Per un attimo sembra di sentire Peter Gabriel con un paio d’anni di anticipo.
“Paper Sun” attecchisce subito, raggiungendo il quinto posto della classifica britannica. In agosto è nei negozi un altro singolo, “Hole In My Shoe”, che si spinge fino al numero 2, superato soltanto da “Massachusetts” dei Bee Gees.
Il brano, scritto e cantato da Mason, lascia però scontenti gli altri tre, e mette subito in luce la distanza di vedute che avrebbe di lì a qualche mese messo in crisi la band. La vera ingenuità non è tanto il testo, che descrive deliri in acido per il 1967 assolutamente comprensibili, quanto il monologo recitato da una bambina nell’intermezzo, forse l’unico momento fastidioso nella discografia dei Traffic, se mai ne hanno avuto uno. Tuttavia il tappeto di Mellotron e pianoforte che fa da sfondo alla vocina la dice lunga sulla caratura strumentale del brano, e a parte quel siparietto il resto è impeccabile: la melodia di flauto che risuona ossessiva, i cori in falsetto rigonfi d’eco, il finto finale, con la musica che riemerge per qualche istante dopo essere sfumata.
“Here We Go Round The Mulberry Bush”, tema portante nell’omonimo film di Hunter Davies, esce in novembre e si piazza al numero 8. Cantata tutti in coro, con qualche intervento solista di Winwood, è una funambolica marcetta densa di stop e ripartenze.
Mr. Fantasy (1967)
L’album di debutto vede la luce in dicembre, ma i tre singoli che l'hanno anticipato sono assenti dalla scaletta: troveranno spazio solo in seguito nelle antologie della band, oltre che come tracce bonus nelle numerose ristampe. Per questo motivo il risultato commerciale è inferiore alle aspettative e il disco non provoca l’euforia sperata: in patria si ferma al numero 16. È comunque un risultato sufficiente a generare la scintilla del loro culto, anche negli Stati Uniti, dove per quanto fortemente rimaneggiato nella scaletta, si affaccia fra i primi cento e fa da preludio a sei dischi consecutivi nella top 20.
Da prendere in considerazione è ovviamente la versione britannica. Le musiche sono firmate da Winwood col saltuario apporto di Wood, mentre Capaldi si assume il ruolo di paroliere. Fanno eccezione tre brani, partoriti da Mason in solitaria, a confermare che la frattura generata da “Hole In My Shoe” non è stata casuale.
“Heaven Is In Your Mind” è un brano emblematico, spiega i Traffic dei primi album come meglio non si potrebbe. Il mood è sì sovraeccitato, con il mixaggio stereo che genera sbalzi fra un canale e l’altro, gli effetti a cascata (la voce di Winwood sul ritornello è quasi spettrale), e i vocalizzi nonsense sul finale. A differenza di buona parte della musica psichedelica britannica, però, la base strumentale non è un pop stralunato con intermezzi circensi. Un solido pianoforte blues, un sax jazzato, una sezione ritmica serrata: al netto delle geniali sofisticazioni che li caratterizzavano, i Traffic avrebbero potuto essere la backing band di qualche cantante soul. Anzi di fatto lo erano, perché con quale altra parola si può catalogare Steve Winwood, se non soul?
La sua qualità di interprete trionfa in “No Face No Name No Number”, che pur rinunciando alla sezione ritmica, svela un denso arrangiamento di chitarra acustica, Mellotron, clavicembalo, organo e flauto. Su questo tappeto delicatissimo, la voce di Winwood si libra con un’intensità degna di Percy Sledge. Eppure non è black music cantata da un navigato professionista dell’Alabama, è una ballata di pop barocco ideata da un ragazzetto di Birmingham che ancora non ha vent’anni. L’età di Winwood andrebbe rimarcata in continuazione, perché per quanti geni precoci possano venirci in mente, non ne spunta nessun altro che appena diciannovenne avesse già segnato la storia del rock con due band differenti.
È a ogni modo “Dear Mr. Fantasy” la canzone destinata agli annali, divenuta uno standard delle jam band, e coverizzata fra i tanti da Grateful Dead, Crosby Stills Nash & Young, Jimi Hendrix e Gov’t Mule. Il brano è un possente blues elettrico, ma nella visione più eterodossa che se ne potesse dare nel 1967, con quei coretti femminei che fungono da intermezzo fra la prima e la seconda strofa. Non c’è un vero ritornello, in quanto la struttura viene dilaniata dagli aspri e incessanti assoli di Winwood (che mostra finalmente il suo pieno valore di chitarrista), dai saliscendi della tempestosa sezione ritmica (del tutto estranea al tipico andamento indolente del blues), dall’armonica di Mason che sbuffa come un vecchio treno a carbone. Nonostante si tratti di una piccola jam, nulla viene lasciato al caso, a partire dai numerosi trattamenti a cui è sottoposta la voce di Winwood, ora metallizzata ora al naturale, ora lontana ora in primo piano.
I Beatles ne prendono spunto l'anno successivo per “Hey Jude”, che nei fatti è una resa pop del pezzo dei Traffic, previa epurazione delle asperità chitarristiche. Fra coloro che coverizzano “Dear Mr. Fantasy” è ormai diventata tradizione farne sfociare il finale in “Hey Jude”, come fosse un unico, naturale flusso.
Mason nel frattempo si muove in un territorio tutto suo, fatto di frammenti lisergici come “Utterly Simple” o “House For Everyone”, che sembrano un antipasto dei Pretty Things del mitologico “S.F.Sorrow”. Sono filastrocche straordinarie, difficili da dimenticare una volta udite, ma dimostrano inappellabilmente quanto il poveretto sia fuori contesto lì in mezzo. Giunge così l’amara decisione di abbandonare la band, proprio quando ci sarebbe da promuovere l’album.
Traffic (1968)
Una roboante recensione di Rolling Stone e il crescente interesse da parte del mercato americano lo spingono tuttavia a ripensarci. Rientra così nei ranghi per registrare il secondo atto, dove firma addirittura metà dei brani.
Traffic è un disco molto celebrato, secondo alcuni anche superiore al debutto. Non per chi scrive, che pur stimando Mason gli preferisce il potere visionario di Winwood, qui lievemente soffocato. Il leader riesce comunque a piazzare “Pearly Queen” (nuova jam blues in cui le scansioni ritmiche della sua chitarra somigliano a quelle di Steve Cropper nei dischi della Stax) e soprattutto “40,000 Headmen”. Nonostante sia un brano alquanto breve, i ghirigori imprevedibili del flauto di Wood e l’ibridazione folk/jazz dell’arrangiamento lo rendono di fatto il primo significante passo della band in direzione di quello che di lì a breve si sarebbe chiamato rock progressivo.
Mason dal canto suo si è alla fine convinto che la stagione dei fiori sia terminata e si sposta in territori più vicini alla canzone pop rock radiofonica. Il brano che fa spiccare il volo al disco è la sua “Feelin’ Alright”, e ce n’è motivo: al crocevia fra folk bianco e soul, sfoggia uno dei ritornelli più appiccicosi dell’epoca. La perfezione di quella melodia contagia tutti e nel lustro successivo se ne conteranno una dozzina di cover illustri: Joe Cocker, Three Dog Night, David Ruffin, 5th Dimension, Gladys Knight, Jackson 5, Isaac Hayes, Undisputed Truth, Grand Funk Railroad e chi più ne ha più ne metta.
L’album è numero 9 in GB e numero 17 negli USA, i Traffic sembrano aver definitivamente spiccato il volo, ma il meccanismo si rompe di nuovo. Mason lascia e gli altri se ne vanno in tour in America come trio.
Più o meno in quel periodo raggiungono Jimi Hendrix, loro dichiarato ammiratore, e partecipano alla registrazione di “Electric Ladyland”. Wood suona il flauto in “1983”, Winwood l’organo in “Voodoo Chile”. Si scoprirà tempo dopo che lo stesso Mason aveva fatto parte di quelle sessioni, benché all’epoca non fosse stato accreditato: sua è la chitarra 12 corde di “All Along The Watchtower”.
A dicembre arriva la prima pubblicazione senza Mason, il singolo con “Medicated Goo” sul primo lato e “Shanghai Noodle Factory” sul retro. È difficile ascoltare la prima senza che un sorriso si stampi in faccia, in quanto rappresenta palesemente una sorta di risposta-dispetto di Winwood a “Feelin’ Alright”. Ne ricalca in pieno struttura e coralità, come se il giovane e dispotico musicista volesse ricordare a tutti che anche lui sa comporre canzoni contagiose. Decisamente più sua, “Shanghai Noodle Factory” è un nuovo possente folk blues con svolazzi di flauto e muro di organo elettrico. Nel complesso è uno dei migliori singoli britannici degli anni Sessanta, ma non riceve la giusta spinta mediatica e passa inosservato.
Last Exit (1969)
All’inizio del 1969 i Traffic non esistono più, con Winwood che ha in testa di formare una nuova band insieme a Eric Clapton e Ginger Baker. I discografici non vogliono però rinunciare al favore del mercato americano conquistato col disco precedente e fanno così uscire Last Exit, per metà registrato dal vivo nel 1968 e per metà contenente scarti dei primi due album o brani già usciti come singolo.
Trovano così spazio “Just For You” (potente r&b psichedelico pubblicato da Mason a proprio nome nel febbraio 1968, durante la prima pausa dai Traffic), “Shanghai Noodle Factory” e “Medicated Goo”. Decisamente meno interessante, il secondo lato è occupato da due opache jam dal vivo, per giunta neanche basate su composizioni della band. Gli Stati Uniti confermano la propria simpatia per i Traffic e il disco raggiunge il numero 19 senza alcuna promozione. Al contrario, in GB il pubblico sembra averli dimenticati in fretta e furia.
John Barleycorn Must Die (1970)
I Blind Faith nascono e muoiono in un soffio di vento, dopo aver pubblicato uno dei dischi più discussi del 1969, subito schizzato al numero 1 in Gb e Usa. Nel febbraio del 1970 Winwood decide così di riprendere un discorso interrotto forse troppo bruscamente. Wood e Capaldi sono con lui, Mason ovviamente no. Senza l'outsider a contrastarlo, il leader dilaga e firma un disco a sua immagine e somiglianza, per la prima volta curando la produzione in prima persona.
Winwood ha ormai la piena maturità per dare forma alle sue ambizioni e l’album che ne esce pone fine alla musica degli anni Sessanta quasi quanto a livello mediatico lo farà nel giro di un anno la morte della triade Hendrix-Morrison-Joplin. Ancora una volta i Traffic riescono a dare la perfetta fotografia del paesaggio che li circonda e immortalano il radicale cambiamento di gusto che sta interessando l’intellighenzia del rock britannico in quei mesi.
John Barleycorn Must Die è progressivo quanto i dischi che l’anno prima avevano cristallizzato la corrente (King Crimson, Moody Blues, Caravan, Nice), è folk in rappresentanza di quelle band che andavano riscoprendo la tradizione celtica (Pentangle, Fairport Convention), è jazz come alcuni fra i classici underground del periodo (Colosseum, Soft Machine), è soul perché Winwood non rinuncerebbe a quella componente per nessuno sconvolgimento epocale al mondo. Lo spettro del materiale padroneggiato dall’artista per mettere in piedi la più complessa delle sue architetture è insomma sterminato, parte da una ballata tradizionale del Settecento e arriva agli afroamericani suoi contemporanei, attraversando secoli, oceani e razze.
Lo strumentale d’apertura si intitola “Glad”. Un riff di piano indimenticabile, il contrappunto dell’Hammond, il lavoro ai fiati di Wood sia in veste ritmica, sia in veste solista. Un capolavoro jazz-rock di eleganza e pulizia assolute, perfettamente orecchiabile nonostante si tratti in sostanza di una lunga divagazione virtuosistica. “Freedom Rider” ne è la prosecuzione, ma incanala quelle suggestioni in una struttura con strofa, ritornello e finale epico in crescendo.
Quando la voce di Winwood compie il suo ingresso in “Empty Pages”, con il piano elettrico a pennellare rilassato, sembra già di sentire il soft rock che avrebbe fatto la fortuna di molte band americane durante il resto dei Settanta. L’esplosione di Hammond e il sapore teatrale del ritornello riportano poi il tutto nella progressiva terra d’Albione.
Suonata per intero da Winwood, con Wood assente e Capaldi in veste di seconda voce, “Stranger To Himself” è un rarissimo esempio di country rock britannico e perfettamente individuabile come tale, perché nonostante tutto mantiene un sentore pastorale e vagamente celtico.
Tocca quindi al traditional “John Barleycorn”, che ormai si è quasi imbarazzati a catalogare come tale. Con questa incisione i Traffic toccano uno degli apici nel folk di ogni tempo e luogo, rendendolo di fatto un proprio brano. La gentile chitarra arpeggiata, che saltuariamente segue il flusso emotivo delle voci e si inasprisce. Il tamburello suonato in punta dei piedi. Di nuovo la seconda voce di Capaldi, col suo tono basso e il suo colore antico, perfetta controparte di quella acuta e viva di Winwood, in un irripetibile unisono che gioca coi contrasti. Il flauto di Wood che trasporta i sensi direttamente nell’Inghilterra di qualche secolo fa. Dopo una simile resa, si deve essere incoscienti o particolarmente coraggiosi per tentare una nuova rilettura di questa ballata.
Il pubblico rock made in Usa rimane ammaliato e l’album raggiunge il numero 5 di Billboard pur senza alcun singolo di rilievo. Anche in Gb si riaccende per un attimo l’interesse, con picco al numero 11, ma è l’ultima volta. Da qui in avanti la band rimarrà affare esclusivo del nuovo continente.
The Low Spark Of High Heeled Boys (1971)
Nel settembre 1971 esce il live Welcome To The Canteen, che vede la formazione notevolmente ampliata: al trio di base si sono aggiunti Ric Grech (bassista dei Family, già con Winwood nei Blind Faith), il percussionista ghanese Rebop Kwaku Baah, il batterista Jim Gordon (ex Derek and the Dominos e coautore di “Layla”) e un ritrovato Dave Mason in veste di ospite. È di netto la più energica incisione dei Traffic in concerto, grazie in particolare alle torrenziali versioni di "Dear Mr. Fantasy" (undici minuti) e “Gimme Some Lovin’” (il grande hit dello Spencer Davis Group, nove minuti). Il tappeto ritmico è talmente dinamico e trascinante che quasi non si fa caso alle imperfezioni nel mixaggio delle tracce vocali.
Appena un paio di mesi dopo tocca al nuovo album, che mantiene la squadra di cui sopra, eccetto Mason. A sorpresa, sono Gordon e Grech a firmare il singolo di lancio, “Rock ‘N’ Roll Stew”, pur lasciando a Capaldi il compito di cantarlo. È un brano impeccabile, in cui tutto contribuisce a rafforzare la centralità dei Traffic nello sviluppo del sound da radio Fm (ringrazieranno sentitamente Doobie Brothers, Steely Dan, Ozark Mountain Daredevils e via dicendo). La vocalità che ormai si è fatta West Coast, la chitarra dura ma a volume contenuto, il tappeto suadente delle percussioni, il Rhodes: ogni ingrediente è già lì.
Winwood dal canto suo apporta alcuni fra i suoi brani più ispirati. “Many A Mile To Freedom” è un incanto a metà fra musica pop e jazz fusion, dove ormai la pacatezza e la liquidità del suono regnano sovrane. La melodia scorre come in catalessi sul tappeto delle tastiere e dell'ipnotica sezione ritmica, quello di Winwood è una sorta di moto perpetuo, potrebbe spegnersi dopo tre minuti o durare un quarto d’ora e non cambierebbe nulla. Con “Rainmaker” torna invece al folk e escogita un coro degno di un rito pagano, ibridandolo a perfezione con il nuovo sound.
Poi c’è la title track, affresco di dodici minuti, in cui la sua voce, raramente così pulita, guida un saliscendi di maestrie strumentali nel segno dell’eleganza. La parte del pianoforte è forse la migliore della carriera e rimanda vagamente allo stile del grande jazzista Horace Silver, così come particolarmente ispirato è l’assolo d’organo, filtrato a tal punto che al suo ingresso lo si scambia per uno strumento a fiato.
Il numero 7 della classifica americana a poche settimane dall’uscita certifica lo stato di salute della band a livello di popolarità.
Fine di un viaggio
Si comportano molto bene a livello commerciale anche i successivi Shoot Out At The Fantasy Factory (1973, numero 6) e When The Eagle Flies (1974, numero 9). Eppure la band si scioglie durante il tour in supporto a quest’ultimo, dopo essersi scoperta incapace di sostenere i ritmi da rockstar. Wood è ormai sommerso dalle droghe e Winwood, al tempo alquanto gracile, ha molto semplicemente serie difficoltà fisiche a reggere la pressione massacrante dell’ennesima tournée. Decide così di mollare tutto all’improvviso, senza farne parola con nessuno degli altri membri e lasciandoli con un palmo di naso. Comprendendo la situazione, Wood e Capaldi optano per uno scioglimento pacifico della storica sigla.
Se Shoot Out… ricalca un po’ stancamente il disco che lo ha preceduto (e sarà un caso, ma uno dei pezzi si intitola “Uninspired”), When The Eagle Flies riconsegna i Traffic ai livelli che gli competono e ci costringe a rimpiangerne la fine.
Scritta a quattro mani con Vivian Stanshall della Bonzo Dog Band, grande amico di Winwood, “Dream Gerrard” è il capolavoro di turno. Undici minuti di tastiere in danza, con Steve più istrionico che mai. Lo sforzo che mette in atto per non farsi sopravanzare dai tempi è titanico, ma quel che più conta, è vincente. Se il pianoforte acustico mostra una spigliatezza jazzata che è ormai marchio di fabbrica, viceversa l’utilizzo del Mellotron settato su un timbro orchestrale dal sapore cosmico è qualcosa di inedito per i Traffic. Più in sottofondo rispetto al Mellotron, si può udire un sintetizzatore prodigarsi in saltuari suoni distorti, mentre sax e organo ripetono un pattern dalla struttura minimalista. Nel finale, il nuovo bassista Rosko Gee estrae dal cilindro un assolo magistrale, dalle note insolitamente acute. L’unico difetto rimproverabile a un brano del genere è di essere troppo breve.
Per quanto non tutta la scaletta regga questi livelli, il disco vanta altri momenti di prestigio. “Graveyard People” contiene molto di ciò che avrebbe caratterizzato gli Alan Parsons Project, mentre “Walking In The Wind” è un contagioso funky midtempo, dove i più svariati suoni di tastiera finiscono a vagare in spazi incontaminati.
A ogni modo, benché giunta al termine dell’avventura, questa inedita vena space pop di Winwood non rappresenta un fuoco di paglia: due anni dopo lo si ritrova infatti a suonare in "Go", storico album del tastierista e percussionista giapponese Stomu Yamashta, in compagnia di Michael Shrieve e Klaus Schulze.
Dopodiché, a partire dal 1977, si getta quindi a capofitto in una carriera solista di grande successo, senza farsi mai mancare singoli di qualità, benché spesso fiaccati da arrangiamenti discutibili.
Decisamente meno sorridente il destino di Chris Wood, che verrà sconfitto da una polmonite nel 1983, neanche quarantenne, dopo aver a lungo sofferto di depressione.
Nel 1994 esce Far From Home, registrato in solitudine da Winwood e Capaldi. Non è affatto un brutto disco, ma risulta molto difficile considerare il pop-rock un po’ asettico di “Some Kinda Woman” e “Here Comes A Man” come parte effettiva del repertorio dei Traffic, nonostante il nome in copertina provi a convincerci del contrario. È musica che non ha nulla a che vedere con il calore del tempo che fu. Terminato il tour di supporto all’album, con tanto di esibizione trionfale al festival di Woodstock del 1994, il marchio viene messo definitivamente a riposo.
La morte di Capaldi nel 2005, per tumore allo stomaco, stronca di fatto qualsiasi possibilità di reunion. Come Winwood ha dichiarato pubblicamente: “I Traffic senza il mio storico partner non possono esistere”.