Pataphysical Introduction: il rock psichedelico degli esordi (1966-1969)
L'antropologo russo Vladimir Propp, analizzando migliaia di fiabe, riscontrò che avevano quasi tutte una morfologia comune. Tra eroi, antagonisti e donatori, la favola dei Soft Machine non si discosta molto dagli schemi narrativi di quei racconti capaci di tenere il lettore con il fiato sospeso. Come ogni fiaba che si rispetti, quella della "macchina morbida" inizia in maniera del tutto inaspettata. Dalla scissione dei Wilde Flowers, gruppo capostipite della scena di
Canterbury, nascono i
Caravan e gli effimerissimi Mister Head, che fuggono dalla città natìa. Siamo in una calda giornata del 1966, ci troviamo sull'isola di Maiorca e
Robert Wyatt,
Daevid Allen e
Kevin Ayers stanno prendendo il sole sulla spiaggia, alla ricerca della scintilla per la loro nuova band. Proprio qui succede qualcosa di impensabile: secondo la versione di Gilli Smyth, compagna di Allen, si presenta il milionario Wes Brunson, proclamando al gruppo che "per servire Dio deve regalare un sacco di soldi a persone che annuncino la nuova era". Stando a Daevid Allen, invece, succede semplicemente che "Kevin Ayers gli fa una testa così finché non riesce a convincerlo a finanziare un complesso". Comunque siano andate le cose, è proprio grazie al finanziamento di quest’uomo che il quartetto decide di ripartire alla volta di Londra, nell’appartamento della madre di Wyatt a Dalmore Street.
Dopo un fugace cambio di nome (Bishops Of Canterbury) e l'annessione del vecchio sodale Mike Ratledge, il gruppo trova poi la propria sigla definitiva nel titolo di un romanzo dell’amico di Allen, William Burroughs. Riprendendo le parole dello scrittore, il termine allude al "corpo umano sotto
l'assedio continuo di un'immensa schiera di parassiti dai molti nomi ma con un'unica natura famelica e un unico intento: mangiare”. Un nome estremamente appropriato, se si pensa agli insaziabili interessi del quartetto, tra cui la musica pop, il minimalismo, il jazz e l'arte moderna. L'anima del gruppo è il chitarrista Daevid Allen, eccentrico australiano poco più vecchio dei suoi compagni. Non è tuttavia l'unico straniero in formazione: nei suoi primi mesi di vita, fino allo scadere del 1966, i Soft Machine si esibiscono infatti con un secondo chitarrista aggiunto, l'americano Larry
Nowlin, prima che questi sparisca misteriosamente nel nulla. Il pubblico è nello stesso tempo sconcertato e attratto dalla loro musica a trazione integrale, che centrifuga jazz, psichedelia e beat in un’unica messinscena dada-rock. Non a caso, nel 1967 la band riceve perfino una menzione speciale da parte del Collegio di Patafisica, dovuta al suo spiccato gusto per l’avanguardia e per la partecipazione a un allestimento
teatrale dell'"Ubu incatenato” di Alfred Jarry. Quanto i Soft Machine fossero legati all'arte extra-musicale è chiaro anche nell'invito a suonare per la
piéce "Desire Caught By The Tail", prodotta da nientemeno che Picasso.L'esperienza con Daevid Allen dura però molto poco, giusto in tempo per registrare alcuni demo. Nel febbraio del 1967 i quattro Soft Machine esordiscono ufficialmente con il 45 giri di "Love Makes Sweet Music/ Feelin' Reelin' Squeelin'", prodotto da Chas Chandler e
Kim Fowley. Il successo è tale che ad aprile iniziano i preparativi per l'Lp di debutto, sotto la supervisione di Giorgio Gomelsky, ma nei fatti l'album vedrà la luce soltanto nel 1972 con il titolo
Faces And Places Vol. 7. Per qualche strana ragione, il disco verrà poi ristampato con diversi nomi, tra cui
Jet-Propelled Photographs e
At The Beginning.
Al di là della confusione sul titolo, una cosa è certa: queste tracce, che avrebbero dovuto essere il primo album dei Soft Machine, rimangono l'unica testimonianza incisa della formazione composta da Daevid Allen (chitarra, voce), Kevin Ayers (basso, voce), Mike Ratledge (tastiere) e Robert Wyatt (batteria, voce). Nel 1967 Daevid Allen, in tour con i Soft Machine, non riuscirà infatti a rientrare nel Regno Unito, si vocifera per problemi legati al traffico di droga o per il visto scaduto; probabilmente la sua vita avrebbe imboccato una strada molto diversa se, a causa di questo ostacolo burocratico, non fosse stato costretto a ripiegare a Parigi, dove la stampa lo considera un piccolo eroe alternativo. Da qui, la sua carriera artistica prenderà vie siderali con i
Gong, tra teiere volanti,
radio invisibili e amicizie extraterrestri con "folletti-fumati" dediti alla vita più edonistica.
Eravamo quattro futuri bandleader e per la maggior parte del tempo eravamo in guerra gli uni con gli altri per questioni di ego: una grande lotta per il potere. Avevamo tutti opinioni molto precise.
(Daevid Allen)
Quello a cui i Soft Machine approdano nel giro di un anno in
Faces And Places Vol. 7 è una musica più solida e matura rispetto alle ballabili canzoni jazz-pop dei Wilde Flowers; sono però ancora ad anni luce di distanza dal disco d'esordio, sviluppato dopo la partenza di Allen. Solo allora, infatti, i giovani componenti della band riusciranno a trovare la loro estetica musicale, "uccidendo" metaforicamente il loro idolo australiano.
In questa incarnazione, i Soft Machine sono chiaramente in via di definizione del proprio stile e mostrano ancora l'influenza delle band coeve, soprattutto dei
Beatles. Un'altra cosa che colpisce sono i testi, molto più semplici e diretti di quelli che scriveranno negli anni a venire: la maggior parte del repertorio è infatti composto da canzoni d'amore abbastanza tradizionali. L'esempio lampante è quello di "I Should've Known", che in seguito sarebbe divenuta "Why I Am So Short?/ So Boot If At All" sul loro debutto ufficiale. La versione qui contenuta parla di un ragazzo che avrebbe dovuto capire che la sua ragazza lo avrebbe lasciato, mentre quella del disco d'esordio descrive la vita di un batterista ubriaco (lo stesso Wyatt) con dettagli tragicomici.
Nonostante la buona qualità dei nastri, Allen ha dichiarato più volte di non essere molto felice dell'uscita di questa raccolta di demo, in quanto non era soddisfatto della resa della sua chitarra nell'album. Non si può negare che essa suoni piuttosto amatoriale in "She's Gone" e "I'd Rather Be With You", ma è al contrario godibile in "Memories", brano risalente ai tempi dei Wilde Flowers che Allen avrebbe poi incluso nel suo album "Banana Moon" (1971). Inoltre, la psichedelica chitarra con effetto
fuzz che avrebbe impiegato su alcuni dischi dei Gong è già immediatamente riconoscibile. Molti passaggi saranno inoltre utilizzati come temi nei primi album dei Soft Machine, ad esempio l'immortale "
Moon In June", che troviamo in forma embrionale nei testi di "You Don't Remember" e "That's How Much I Need You Now", dove spicca un già talentuoso Mike Ratledge al pianoforte.
Segnaliamo infine anche un’altra vecchia conoscenza: si tratta di "Jet-Propelled Photograph", che Robert Wyatt e Kevin Ayers cantano qui insieme e che il biondo bassista avrebbe successivamente sviluppato e rinominato "
Shooting At The Moon" per il suo secondo album da solista.
Nel corso del 1967, i Soft Machine vedono accrescere il loro successo e diventano in breve tempo una band di culto, grazie agli spettacolari
light show di Mark
Boyle. Suonano inoltre diverse volte con i
Pink Floyd, riscuotendo un notevole consenso tra il pubblico dell'Ufo Club e al celeberrimo festival
del 14 Hour Technicolor Dream, davanti a qualcosa come diecimila spettatori. Purtroppo di queste vecchie esibizioni poco e nulla ci è rimasto, ad eccezione dei nastri di Middle Earth Masters (2006), registrati poco dopo l'abbandono di Daevid Allen. Come accennato in precedenza, al ritorno da un tour francese la macchina morbida perde infatti il folletto australiano e il trio superstite vola verso gli Stati Uniti, dove hanno inizio i lavori per il debutto ufficiale in
long playing.
Soft Machine (1968) contiene i germogli di qualcosa che sta ancora nascendo: il
progressive rock e il
sound di
Canterbury. Pur ancora legato ai gruppi beat del momento, l'album se ne allontana per l'eclettismo dei tre componenti, che creano un tumultuoso accavallarsi di assoli. Nonostante Allen sia assente, se ne può ancora percepire lo spirito
freak, anche grazie alla libertà lasciata dai due produttori Chas Chandler e Tom Wilson, che non interferiscono col naturale decorso dell’espressività dei musicisti; viceversa, secondo il racconto di Ayers, Wilson "passava le giornate al telefono con la sua ragazza".
Lasciata a se stessa, in soli quattro giorni la macchina morbida mette su nastro una serie di canzoni a presa diretta, con i dovuti errori del caso. Oltre alla spontaneità delle composizioni, un'altra caratteristica del disco è l'utilizzo della tecnica del
collage, di piccoli frammenti sonori posti insieme in una suite: le note di copertina dell’album descrivono alla perfezione lo scopo della musica dei Soft Machine, ovvero porre la mente in un viaggio, come fosse una qualche forma di stimolazione cerebrale. Questa formidabile colonna sonora per dervisci rotanti ha il suo abbrivio con le prime tre tracce - “Hope For Happiness“, "Joy Of A Toy" e “Hope For Happiness (Reprise)” - dove è già in evidenza tutto il gioioso moto dell’anima di Ayers, mentre “Why Am I So Short?“ e “A Certain Kind” illustrano lo stile di canto
scat di Wyatt, che recita il testo quasi in maniera passiva.
C'è spazio anche per numeri pop-psichedelici come “Save Yourself” e “Lullabye Letter”, ma altrove è chiaro come i Softs si discostino molto dalla
Swinging London. Se la distopica "Why Are We Sleeping?", debitrice della filosofia di Georges Gurdjieff, si rivela infatti uno
spoken work infernale guidato da organo e basso, nell'ipnotica “We Did It Again” l'ascendente indiretto è quello dei
loop di
Terry Riley. Il brano, nonostante contenesse solo quattro parole e un
riff similare a quello di “You Really Got Me” dei
Kinks, veniva spesso esteso nei live fino a oltre 60 minuti, come accadde a St. Tropez in una festa privata per Brigitte Bardot, con Allen ancora in formazione.
Dopo le registrazioni del primo album, i Soft Machine partono per lo storico tour americano di supporto a
Jimi Hendrix. Terminate le date, i tre si separano. Ayers non riesce a tollerare lo stress dei lunghi viaggi e si rifugia alle Baleari. Ratledge torna a Londra dalla moglie Marsha Hunt e continua i suoi studi musicali. Wyatt resta invece in California ospite di Hendrix, dove compone alcuni brani tra cui il primo abbozzo di "Moon In June" e lo
sketch blues di "Slow Walkin' Talk" (con Hendrix al basso!), entrambi ascoltabili nella sua
compilation "'68" (2013). Oltre a bazzicare nei
Ttg Studios, elettrizzato come un ragazzino in gita scolastica, Wyatt ha anche l’opportunità di conoscere
Frank Zappa, dal quale riceverà preziosi consigli che saranno applicati su
Volume Two.
Di fatto, quando esce
Soft Machine il gruppo è ormai già sciolto. La separazione sembra definitiva: il trio si trova in due continenti e in tre stati diversi. Tuttavia l’etichetta non è affatto d’accordo; l’esordio è considerato di ottimo livello, non solo a livello artistico ma anche commerciale, dato l’inaspettato ingresso nella top 40 statunitense. C'è pertanto una notevole spinta per la registrazione di un seguito discografico e così Wyatt e Ratledge si ritrovano a Canterbury, chiamando il loro amico e
roadie Hugh Hopper come sostituto di un esule Ayers. La scelta non poteva che avere delle conseguenze: lo spirito infantile e
dandy del vecchio bassista, riscontrabile chiaramente in tutti i suoi album solisti, viene sostituito da un più serioso Hugh Hopper, che porta in dote la sua passione per il jazz modale e per una musica più impegnata. Se Ayers guardava al beat e alla psichedelia, con un approccio allegro e spensierato, Hopper riflette una visione della musica molto più intellettuale. Hopper apporta in aggiunta una differente amplificazione del basso, il
fuzz, che diventerà uno dei suoi marchi di fabbrica, una distorsione poi largamente adottata anche da Mike Ratledge per il suo organo Lowrey.
La perdita di Ayers ha però anche un altro effetto, lasciando Wyatt come unico
vocalist: proprio per questo, l’album vede una notevole espansione dell'uso della sua voce come strumento - importante quanto la sua batteria - e suoi lamenti vocali forniscono una struttura ulteriore alla canzone. Se alcune parti di questo album contengono ancora gli ingredienti delle psichedeliche
jam del disco d’esordio, il suono generale è tuttavia più disciplinato. L'influenza di Wyatt è ancora forte nei testi patafisici, con una spiccata tendenza all'assurdo e al
nonsense. Anche Hopper si ritaglia una buona fetta del
songwriting e, conoscendo le sue composizioni più serie degli anni a venire, è inaspettatamente responsabile di molti brevi brani divertenti. D’altra parte, Ratledge si fa portavoce della tracce più complesse ed è il firmatario delle due composizioni più lunghe del disco.
In
Volume Two (1969) sono presenti ben diciassette canzoni, per una durata di poco più di mezz’ora; tuttavia, può essere ascoltato come una composizione unica, divisa in almeno in due parti, dato che ogni lato del disco ha il proprio titolo. La prima metà si intitola “Melodie Rivmic“ e porta la firma di Hopper e Wyatt; la seconda, “Esther’s Nose Job“, è invece più orientata verso il jazz e viene composta quasi interamente da Ratledge.
Come per il primo album, non ci sono pause tra le canzoni e ogni pezzo contribuisce così a plasmare un insieme, permettendo a
Volume Two di essere apprezzato come un’unica grande suite, in cui la frivolezza di alcuni brani si amalgama con le parti più sperimentali degli altri, sempre con una buona dose di divertimento, come si può evincere anche dai curiosi titoli della
tracklist. Insomma, l'unica cosa poco originale dei Soft Machine sembrano essere i nomi dei loro album.
La stravaganza si esercita a tutto gas già nelle prime due brevi composizioni, convertendosi nella giocosità infantile di “Pataphysical Introduction (Part I)” e “A Concise British Alphabet (Part I)”, mentre la prima traccia degna di nota è “Hibou, Anemone And Bear”, 6 minuti di infatuazione dada-rock, con una buona sintonia tra piano, organo, batteria e basso. La musica cambia poi drasticamente e alcuni brani durano appena una manciata di secondi, come frammenti di un pandemonico
continuum che tesse insieme tutto il lato A; così, a forma libera, “A Concise British Alphabet (Part II)” e “Hulloder” suonano come uno strambo matrimonio tra il rock canterburiano e il pop psichedelico, mentre “Dada Was Here” si caratterizza per il suo testo spagnolo, in memoria delle estati trascorse da Wyatt con la famiglia a Maiorca, dando vita ad armonie e pause abbastanza accattivanti.
Dopo il mistero languido di “Thank You Pierrot Lunaire”, in “Have You Ever Bean Green?” i Soft Machine omaggiano Hendrix e la sua band, che aveva permesso loro di aprire il tour statunitense con conseguente, notevole esposizione mediatica. Un altro punto culminante è rappresentato da “As Long As He Lies Perfectly Still”, in cui ancora la voce di Wyatt viene usata come uno strumento
tout court, mentre alla nenia acustica di “Dedicated To You But You Weren’t Listening” fa da contraltare “Esther’s Nose Job”, precursore diretto di
Third, una suite suddivisa in cinque sezioni jazz con l'ospite Brian Hopper (fratello di Hugh) al sax. Il punto di non ritorno è ormai stato raggiunto.
On A Dilemma: la svolta jazz-rock, l'abbandono di Wyatt e Hopper (1970-1973)
Nel 1969 i Soft Machine vengono chiamati a supporto di una rappresentazione multimediale intitolata
Spaced,
diretta da Peter Dockley al Roundhouse di Londra. Dopo quella
performance, i nastri vengono dimenticati per decenni fino a essere riscoperti e finalmente pubblicati dalla Cuneiform nel 1996. Anche se la qualità del suono non è delle migliori - essendo la parte musicale registrata in un magazzino! - si tratta di un'opera d'archivio fondamentale nel capire lo sviluppo futuro della band e, specialmente, delle opere soliste di Hugh Hopper. Secondo le note di copertina, scritte proprio dal bassista, il nastro originale durava ben 90 minuti, ma nel mezzo c'erano lunghe sezioni di silenzio scenico che potevano essere tranquillamente eliminate. La versione commercializzata dura quindi poco più di un'ora di orologio, contrassegnata da un jazz strumentale con esplosioni rumoriste. Alla fine lo spettacolo non venne trasferito a Broadway, come era nelle intenzioni originali, ma un programma della Bbc pubblicò un breve estratto per pubblicizzarlo, usando tuttavia i
Pink Floyd come base musicale.
Accantonata anche questa esperienza, i Soft Machine ritornano in studio. Se i primi due album erano stati spinti da Ayers e Wyatt, il
doppio
Third (1970) vede il dominio assoluto del tastierista Ratledge, con il suo organo che diviene il marchio di fabbrica di questo terzo disco. Col senno di poi, si può dire che
Third sia stato la prima avvisaglia di quelli che saranno le incomprensioni e i disaccordi sul futuro percorso musicale che i Soft Machine avrebbero dovuto intraprendere: a confermarlo, è la foto all'interno della copertina, che mostra i membri della band divisi e pensieriosi.
Mentre nella prima parte della loro carriera tutti i musicisti avevano collaborato alla composizione dei brani, creando dischi molto compatti, con il
leit-motiv di un dadaismo folle e delirante, in
Third Wyatt, Ratledge e Hooper si separano formalmente. In pratica, preferiscono mantenere disintinte le proprie personalità e le proprie idee, che ritengono ormai difficilmente conciliabili.
I quattro brani sono tutti solisti; due di Ratledge, uno di Wyatt e uno di Hopper. Ognuno si prende la massima libertà e sforna una suite di circa 20 minuti. Sembrerà strano, viste le premesse, ma la macchina morbida registra così il suo capolavoro, l’album più maturo, complesso e articolato della sua straordinaria carriera. La svolta è verso un jazz-rock che prende spunto dai nuovi dischi di Miles Davis ("
In A Silent Way", "
Bitches Brew"). Per questo, alla classica formazione triangolare si aggiungono Elton Dean al sax contralto, Lyn Dobson al sax soprano, Nick Evans al trombone, Rab Spall al violino e Jimmy Hastings (Caravan) al flauto e clarinetto basso. Alcuni di questi personaggi - come vedremo - avranno un ruolo di primo piano nei Soft Machine del futuro.
Sembra passato un secolo rispetto all’esordio, che risentiva ancora moltissimo della musica beat; qui la maturità è davvero ai vertici, pur perdendo qualcosa della
naïveté dei primi giorni. La storia successiva del gruppo è invece segnata dalla personalità di Ratledge, che inizia a fare ombra sulle idee di Wyatt, dando vita a un processo che porterà inevitabilmente alla separazione del batterista dai Soft Machine. In effetti, si può dire che la continuazione ideale dei Soft Machine non sia
Fourth, ma piuttosto i due album dei Matching Mole. Il ruolo di Wyatt in
Third è stato infatti ridimensionato a quello di mero batterista, salvo in “
Moon In June”, l’ultimo suo contributo, in cui è stato lasciato libero di esprimersi come meglio crede. Confesserà più avanti: "Ero molto più interessato di loro all’assurdità come elemento liberatorio".
Questo malessere porterà Wyatt a creare il suo primo album solista lo stesso anno, "The End Of An Ear". Robert sarà presente anche in
Fourth (1971), ma si capisce fin da subito che il suo ruolo non è più quello del batterista a petto nudo capace di ammaliare le masse, bensì quello di un semplice turnista.
L’apripista “Facelift“, composta dal bassista Hugh Hopper, è frutto di un intelligente lavoro di manipolazione dei nastri, che unisce varie parti di registrazioni dal vivo al Fairfield Hall di Croydon (4 gennaio 1970) e al Mothers Club di Birmingham (11 gennaio 1970). Il
fuzz assassino di Ratledge strappa poi la melodia tra folli deflagrazioni sperimentali, in un’atmosfera inquietante, scossa da un orecchiabile motivo jazzistico che emerge all’improvviso. Ci sono grandi momenti, tra cui l’assolo del flauto di Jimmy Hastings, rimbalzante direttamente dalle canzoni dei Caravan, bilanciato dal pesante abbaiare del sax di Elton Dean e del basso funky di Hugh Hopper. “Slightly All The Time” è d'altro canto un brano molto più intricato, un tema jazz soggetto a continue mutazioni ritmiche e dominato dai fiati, che dal punto di vista compositivo è una sorta di
medley tra le vecchie "Noisette"" e "Backwards", già nel repertorio live della band. Le atmosfere sono quelle di una notte fredda in una grande metropoli. Cupo ed elegante, ancor più dopo il dodicesimo minuto dove il ritmo rallenta e diventa più onirico e surreale, fino al grido solistico del saxello di Dean.
Nelle cinque sezioni di "Out-Bloody-Rageous" Ratledge mostra poi la sua passione per i
loop e per il minimalismo di
Steve Reich e
Philip Glass, accumulando il pathos con molta calma: si tratta di una traccia che inganna l’ascoltatore in un primo momento, salvo poi evolversi dal nulla in una fluttuante improvvisazione free-jazz, con
uno straordinario assolo di organo nella sua sezione centrale, capace di regalare una miriade di stati d'animo che potrebbero provocare la sindrome di Stendhal.
Apre il secondo lato del disco “
Moon In June”, fulgido esempio di
Wort-Ton-Drama, ossia un'opera d’arte totale. Si tratta di un ibrido unico di jazz, avanguardia, psichedelia, dadaismo e un clima malinconico che non manca mai quando c’è la voce di Wyatt (“la voce più triste del mondo
”, secondo la stampa inglese). La cosa che differenzia "Moon In June" dagli altri brani è proprio la geniale personalità dell’autore, che qui suona in solitudine la batteria e le tastiere. Svincolandosi da ogni barriera di genere, Wyatt firma così uno dei suoi più grandi capolavori, facendo collidere lo spirito dionisiaco e quello apollineo
come nella più perfetta delle tragedie greche. Dopo un inizio più melodico, in cui Wyatt confessa i suoi tradimenti alla prima moglie Pam, si arriva a una seconda parte strumentale con momenti duri e rabbiosi. Come ci avvisa Wyatt nella prima metà, guardando sardonico in camera quasi fosse il protagonista di un film
nouvelle vague, ci raggiunge in seguito un "rumore di fondo per persone che tramano, seducono, insorgono e insegnano". Il
poltergeist del violino di Rab Spall infesta l’atmosfera con qualcosa di vagamente sinistro, a causa del suono manipolato dai nastri. Per alleggerire i toni, sul finale Wyatt canticchia alcune parole di due brani dell'amico Kevin Ayers (“Singing A Song In The Morning” e “Hat Song”). Nelle versioni dal vivo il testo viene spesso improvvisato, come accade nel programma "Top Gear" della Bbc, in cui viene citata persino la macchinetta del tè posta in corridoio, nel crescente fastidio dei suoi seriosi compagni.
Il risultato complessivo di “Moon In June” non è jazz, non è rock, non è nulla di quello che si è ascoltato finora: è una catarsi senza genere che, proprio per questo, aspira all’eternità.
Io e Mike non sopportavamo il modo di cantare di Robert. Le sue parti cantate erano state eliminate e lui era sempre meno contento della scarsa considerazione in cui io, Mike ed Elton tenevamo le sue idee. Noi non lo sopportavamo proprio più e lui si scoraggiò parecchio: non osando presentarci sue composizioni perché sarebbero state canzoni, cominciò a fare altro.
(Hugh Hopper)
Per un certo periodo i Soft Machine si esibiscono in una formazione a sei - che ricorda quella dei Weather Report - assieme a Elton Dean, Nick Evans e Mark Charing, prestati al gruppo dall'orchestra di Keith Tippett. Il vertice della loro carriera lo raggiungono tuttavia il 13 agosto del 1970, quando diventano il primo gruppo rock chiamato a esibirsi ai Proms, uno dei più importanti festival mondiali di musica classica con sede alla Royal Albert Hall. Quella sera sul palco sono in quattro, l'esibizione non è delle migliori e Wyatt viene visto piangere nei camerini. I problemi non possono più essere nascosti.
Dopo Third, appare evidente fin dall’emblematica copertina di Fourth un deciso cambio dei rapporti esistenti nel trio. Nella fotografia spicca in primo piano Ratledge, sempre più leader dei Soft Machine; Wyatt è in disparte, dietro la figura dominante del tastierista, addirittura Hopper e il sassofonista aggiuntosi Elton Dean non sono pervenuti, ma appaiono solo nel retro. Wyatt confessa a proposito di questa svolta: "La scelta tra essere un onesto e bravo batterista di jazz-rock o imboccare una strada più personale e meno inflazionata in realtà non avvenne; in quel periodo ero abbastanza intrattabile: bevevo molto e più bevevo più diventavo nevrotico. Alla fine fui invitato ad abbandonare il gruppo, anche se 'Fourth' lo suonai, si può dire, con spirito da session-man". La separazione è figlia anche dell’eterno problema dell’alcolismo, oltre alle divergenze musicali.
Wyatt ha solo due possibilità: o diventare uno scrupoloso batterista jazz à-la Billy Cobham o Jack DeJohnette, oppure intraprendere strade nuove e personali. È sorprendente pensare quanto questo sia potuto succedere dopo che il contributo di Wyatt ai Soft Machine aveva portato alla creazione di brani immortali quali “Moon In June”. Ma il cambio ormai c’è stato e non solo nei rapporti umani: è in primo luogo musicale. In Fourth le velleità sperimentali e giocose dei primi tre album sono soltanto un ricordo sbiadito. La rigidità di Ratledge porta Wyatt a lasciare la band per intraprendere una nuova avventura con i Matching Mole e poi come solista, dove troverà maggiori spazi di libertà creativa, soprattutto dopo il tragico incidente che lo costringerà a inventarsi una nuova vita. Fourth rimane comunque un buon album jazz-rock, egregiamente eseguito, con spunti sempre interessanti; in particolare, la lunga e complessa suite “Virtuality” - divisa in quattro parti sulla falsariga di “Slightly All The Time” - che copre interamente la seconda facciata, resta una delle composizioni più ambiziose scritte da Hugh Hopper.
I restanti brani - l’energica “Teeth”, la sognante “Kings And Queens” e la frenetica “Fletcher's Blemish” - sono invece ottimi esempi di un impeccabile jazz-rock d’accademia.
Da 1971 in poi, tutta la scena di Canterbury inizia a esplorare nuovi suoni e sperimentazioni. Nei Soft Machine questo si traduce in una drastica riduzione della precedente democrazia interna, persa a causa dell’egemonia delle idee di Ratledge, che cerca di avvicinarsi il più possibile agli album di Miles Davis. Wyatt, sbattuto fuori dalla sua band, fonda i Matching Mole e viene sostituito in Fifth (1972) da Phil Howard sul primo lato e John Marshall sul secondo: due batteristi diametralmente opposti, che dividono il disco a metà in due compartimenti stagni. Il risultato è un'opera molto ambigua e per certi versi più affine agli atti dei Nucleus, i cui componenti saranno pressoché gli stessi dei nuovi Soft Machine.
Come la copertina dell'album, la musica tende a essere piuttosto oscura e minimale, soprattutto grazie all'apporto del sax di Elton Dean, che entra in corsa nella macchina come co-pilota di Ratledge. L'unico fil rouge col passato è quello di "Pigling Bland", in origine composta da Ratledge nel 1969 come coda per "Esther's Nosejob" del secondo album. Il contributo di Hugh Hopper è ridotto al minimo e, dopo l'inclusione del sassofonista Karl Jenkins che domina di fatto il doppio e fortunatissimo Six (1973), decide anche lui di avviare una propria carriera solista. Hugh ne ha abbastanza di suonare musica sempre più scritta e pensa che che la band sia diventata troppo seria, mancando del divertimento degli anni precedenti. L'annuncio definitivo del suo abbandono è racchiuso nei suoni infestati di "1983", canzone che si collega all'esordio solista di Hopper con "1984", avvenuto nello stesso anno.
Six si compone di un album live e uno in studio; nel secondo possiamo trovare le tracce migliori, tra cui "The Soft-Weed Factor" (in allusione al titolo del romanzo di John Barth) che avanza come un ipnotico slow motion di tastiere intrecciate, la già citata "1983" e soprattutto "Chloe And The Pirates", che si distringue per una atipica introduzione spaziale del piano elettrico e per i volteggi dell'oboe di Jenkins. Se nell'album in studio i Softs si prendono la loro licenza poetica sperimentando nuove sonorità più minimaliste, nel disco live la parola d'ordine è un jazz-rock assai virtuosistico ma non eccessivamente originale.
The Floating World: ai confini della musica fusion (1973-1981)
Il 1973 è un anno di grandi cambiamenti. Lo è innanzitutto per Robert Wyatt, che il 1° giugno vede rovinosamente finire la propria vita da "bipede batterista" quando cade dalla finestra della casa di Lady June, rimanendo paralizzato dalla cintola in giù. Al concerto organizzato in suo onore al teatro Drury Lane di Londra partecipa anche Hugh Hopper, che in Seven (1973) viene sostituito da Roy Babbington, un bassista che conosce bene la band avendo già collaborato come ospite in Fourth e Fifth.
Con l'innesto di Babbington, Seven vira verso un jazz-rock meno anarchico e più compatto, con i titoli che fluiscono l'uno dentro l'altro senza soluzione di continuità. Seven è di fatto l'ultimo album dei Soft Machine numerato, il primo con un nuovo bassista e anche il definitivo addio al suono "classico". È Jenkins a risolvere l'impasse in cui si era arenata la macchina morbida, prendendo il posto di guida come principale compositore della band. La maggior parte delle tracce esce proprio dalla sua penna; Ratledge è invece il firmatario di una mini-suite in tre parti ("Day's Eye", "Bone Fire", "Tarabos"), ma la vera novità è l'introduzione del synth ("Nettle Bed") e l'abbandono dei suoni preponderanti e tenebrosi del suo organo, che comunque si prende il suo canto del cigno nel bellissimo assolo di "Day's Eye". L'approccio della band rimane il medesimo, cambia però il sottobosco sonoro anche grazie all'uso del basso elettrico a sei corde di Roy Babbington, sempre in perfetta simbiosi ritmica con John Marshall.
Seven porta a compimento la rivoluzione avviata con Six, in cui l'eccentrica parte strumentale registrata in studio "bilanciava" l'ortodosso lavoro effettuato nel disco dal vivo, in cui l'ensemble affacciava già le sue composizioni verso le sonorità fusion. Il risultato è un disco ben strutturato, piacevole seppur senza grandissime emozioni, visto l'abbandono ormai definitivo delle candide sperimentazione dei primi album.
Bundles (1975) vede diverse novità importanti. Innanzitutto, il passaggio dalla Columbia alla Harvest e l'abbandono della denominazione numerica degli album; in secondo luogo, l'entrata nella macchina di Allan Holdsworth, ennesimo ex-Nucleus destinato a riscrivere le cronache canterburiane. Proprio il grande ritorno della chitarra, assente dal primo inedito album con Daevid Allen e dai pochissimi live con Andy Summers alla fine degli anni Sessanta, vede un ribaltamento non solo dei suoni (come era stato con Seven) ma anche dell'approccio strumentale della band. Holdsworth fornisce infatti un tocco più rock, contribuendo anche a regalare all'unico membro fondatore rimasto, Mike Ratledge, molti più momenti di ispirazione. Nel momento in cui la musica fusion era al suo apice commerciale, non stupisce che con Bundles i Soft Machine raggiungano un discreto successo di vendite.
L'album inizia con la suite in cinque parti di "Hazard Profile", composizione di Jenkins basata sul riff di un precedente brano dei Nucleus ("Song Of The Bearded Lady"). Se qui l'interazione tra i legati della chitarra di Holdsworth con le tastiere è pura estasi sonora, anche per merito dell'encomiabile pattern della batteria, altrove sono tuttavia le parti soliste a interessare maggiormente, come è il caso degli assoli chitarristici di "Land Of The Bag Snake" o quelli di batteria in "Four Gongs Two Drums" e, soprattutto, della sofisticata sezione dei fiati di "The Man Who Waved At Trains". Nel novero vale la pena menzionare anche "The Floating World", lunga meditazione per flauto e tastiere di Jenkins, che sembra preludere all'imponente lavoro che il compositore avrebbe fatto sulla sua serie "Adiemus" a partire dal 1995.
Pochi mesi dopo l'uscita di Bundles, il nuovo chitarrista se ne va, lasciando la band ancora nelle mani di Jenkins e di nuovo in una fase di transizione. Le uniche testimonianze dal vivo della formazione con Holdsworth sono gli album postumi di un concerto a Brema (Floating Word Live) e al prestigioso Montreux Jazz Festival (Switzerland 1974). Per mantenere in moto la macchina non basta tuttavia rimpiazzare Holdsworth con il suo epigono John Etheridge in Softs (1976), specialmente se a metà delle sessioni di registrazione se ne va anche Mike Ratledge, il cui ultimo contributo - ironia della sorte - è il suo sintetizzatore su "The Tale Of Taliesin" e "Ban-Ban Caliban". Le tastiere vengono suonate tutte da Karl Jenkins, ormai leader indiscusso anche sul mediocre Rubber Riff (1978), che inizialmente esce addirittura a suo nome. La premonizione di Kevin Ayers in "Why Are We Sleeping?" si era avverata: "It begins with a blessing/ but it ends with a curse". La storia dei Soft Machine, cominciata nella benedizione del mecenate Wes Brunson, si stava concludendo come una maledizione nella mani di Jenkins. In fondo, era un po' come la versione terrestre del paradosso della nave di Teseo: anche se la band si era conservata intatta nel corso degli anni, con le sue varie parti danneggiate via via sostituite, la macchina era ormai diventata completamente irriconoscibile.
Mike non sapeva dire di no. Una volta mi confidò che avrebbe voluto mollare il complesso tre o quattro anni prima. Lo lasciò spegnere lentamente. Rimase lì senza trarne alcun piacere. Non fece nulla per impedirlo e questo incise sulla sua musica fin quando suonare non gli risultò odioso.
(Elton Dean)
Alla fine degli anni Settanta, Mike Ratledge compone la colonna sonora del misterioso "Riddles Of The Sphinx" (1977), mentre i Soft Machine continuano ad avanzare senza membri fondatori nelle mani degli ex-Nucleus, salvo poi separarsi dopo il concerto parigino di Alive And Well (luglio 1978). Un fugace tentativo di reunion diretto da Marshall e Jenkins, con Jack Bruce al basso e Allan Holdsworth alla chitarra, viene tentato con Land Of Cockayne (1981) ma il risultato è un album soft-fusion piuttosto sottotono, quasi da cocktail-bar. La storia più interessante del gruppo continuerà nella pubblicazione di numerosi live e antologie, prima che Elton Dean, Hugh Hopper, John Etheridge e John Marshall rispolverino la sigla dal garage nel 2004, ribattezzandosi Soft Machine Legacy. Il quartetto - che non aveva mai suonato assieme nello stesso periodo - fa appena in tempo a pubblicare l'album omonimo prima della morte di Elton Dean (2006) e di Hugh Hopper (2009). La recente reincarnazione si esibisce in un accademico jazz-rock con Theo Travis (fiati, tastiere), John Etheridge (chitarra), John Marshall (batteria) e Roy Babbington (basso), che nel 2018 si riapproriano del nome originale e pubblicano Hidden Details. Si tratta di un disco di pregevole fattura, che rielabora temi del passato con un occhio al presente, dimostrando come dopo tanti anni e tanti chilometri percorsi la macchina morbida sappia ancora guardare avanti.
Alcuni contributi provengono dal libro scritto con Valerio D'Onofrio (I 101 Racconti di Canterbury)