Bisogna anzitutto premettere che Wyatt non è mai stato un “politico” nel senso stretto del termine, non ha mai visto la politica come un lavoro; è stato semplicemente un'artista che, in una ristretta fase della sua vita, ha percepito con estrema urgenza la necessità di impegnarsi contro il razzismo, l’imperialismo occidentale, il capitalismo dilagante e in generale contro le enormi ingiustizie e diseguaglianze sociali. Per questo motivo si iscrive al Partito Comunista inglese - non come dirigente o come personaggio di spicco - bensì da semplice militante che amava parlare, scambiare opinioni, approfondire argomenti con altri iscritti al partito. Ma soprattutto per lui la politica è un potenziale strumento per difendere i più deboli, una missione ideale fatta senza mai pensare, neanche per un attimo, ai propri interessi personali.

Il giovane Wyatt comincia quindi con un semplice senso di protezione verso i musicisti che ama, discriminati per motivi razziali. Ma è solo un sentimento iniziale; Wyatt non pensa affatto alla politica, abbandona addirittura la scuola prima del diploma perché, dice lui stesso: “Ero troppo impegnato a vivere”. La sua vita è pienissima, suona con i Wilde Flowers, registra i primi quattro album dei Soft Machine, due con i Matching Mole e uno solista, partecipa a vari altri album tra i quali i solisti di Syd Barrett, suona dal vivo svariate volte con i Pink Floyd che insieme ai Soft Machine erano le band britanniche più famose della scena psichedelica di quegli anni. Partecipa al tour americano di Jimi Hendrix suonando insieme ai Soft Machine come gruppo di supporto. Finito il tour resta ospite di Hendrix in America, dove conosce, tra gli altri, Frank Zappa, al quale resta legato da un ottimo rapporto.
Nel 1972 pubblica il primo album in cui fa trapelare le sue idee politiche; lo splendido secondo album dei Matching Mole, la piccola registrazione rossa, “Little Red Record”. L’album - dalla copertina chiaramente ideologica - vede i quattro musicisti impegnati nella difesa di Taiwan. “Little Red Record” è un disco emblematico, che segna il superamento del periodo d’oro degli anni 60 e degli ideali della Summer of Love, che si sono scontrati contro un muro che appare indistruttibile, se non con cambiamenti radicali di mezzi e proposte. Il passo è breve ma segna il superamento di un’epoca: si passa dai fiori californiani a Robert Wyatt che imbraccia un mitra.

Dopo questa assurda esperienza i suoi amici organizzano un concerto in suo onore diffondendo manifesti dove sono tutti fotografati in sedia a rotelle per solidarietà (tra loro, vedete Mike Oldfield e Nick Mason).
Questo episodio fa rinascere in lui una forte avversione verso ogni tipo di discriminazione. Pochi mesi dopo un altro evento decisivo, la morte del suo migliore amico; il grande trombettista Mongezi Feza. Un evento che desta molti sospetti: è effettivamente molto strano pensare come un giovane di trent’anni che ha sempre goduto di buona salute sia potuto morire in un ospedale britannico senza che nessun medico si accorgesse delle sue gravi condizioni. Ecco cosa ci dice Wyatt: “La morte di Mongezi mi colpì molto drammaticamente. Il motivo reale della tragedia va ricercato nel fatto che era venuto in Inghilterra per sfuggire alla tirannia del razzismo e vi aveva invece trovato la madre e il padre dell’apartheid. Credeva di scappare dagli orrori del Sudafrica e venne a vivere in quello che continuiamo a chiamare ‘mondo libero’. In Inghilterra, anche se non esiste un razzismo ufficiale, è molto difficile adattarsi, se non si è bianchi. Nel suo caso, dovette rivolgersi a un ospedale psichiatrico, dove gli venne diagnosticata una forma di schizofrenia e dove morì inaspettatamente di polmonite doppia. È un fatto inaudito: la morte per polmonite doppia di una persona giovane che già si trova in ospedale è tutt’altro che inevitabile. Qualcosa mi dice che se fosse stato il principe Carlo non sarebbe morto; o anche, semplicemente, se fosse stato bianco. Credo che da ciò il mio processo di politicizzazione abbia ricevuto una forte spinta”.
Siamo nel 1975, Wyatt comincia a cambiare totalmente il suo modo di pensare: “A partire dalla metà degli anni 70, mi sentii molto confuso. La mia musica mi pareva totalmente inadeguata. Trovavo immensamente presuntuosa e ridicola l’idea della generazione degli anni 60 che si potesse migliorare il mondo con le sole canzoni di protesta. Cominciai a interessarmi maggiormente alla seria attività rivoluzionaria, cioè quella tesa al rovesciamento del potere”. Wyatt decide di riprendere e completare gli studi che aveva interrotto da giovanissimo, sono anni in cui la sua attività musicale si fa molto più sporadica: dal 1975 al 1982 non pubblica più alcun album solista. “In quegli anni ero molto più interessato a leggere, studiare e guardare in tv quelle bellissime lezioni universitarie di alcuni professori di storia, letteratura o filosofia. Ritenevo che farlo fosse molto più utile di suonare”.

Wyatt non sarà mai una figura di spicco del partito, la sua natura schiva, introversa glielo impedisce. Dobbiamo immaginarcelo come un semplice attivista che preferisce la compagnia di un operaio che legge i libri di Marx nel tempo libero, piuttosto che di un leader del partito. In ogni caso, si dedica con particolare attenzione ai problemi del Terzo Mondo e in particolare del Sudafrica, ha una fitta corrispondenza con prigionieri politici sparsi in tutto il mondo, organizza e partecipa a convegni, tra i quali Art against Racism and Fascism, oltre che a varie manifestazioni e dibattiti in difesa dell’African National Congress. Wyatt devolve gli utili di due Ep del 1984 ai minatori in sciopero contro il governo Thatcher e continua a farlo a ogni successiva tiratura, si occupa con grande passione della sanguinosa guerra del Guatemala, finanziata dagli Stati Uniti, della difesa della Namibia. Vede nell’Occidente ricco e prosperoso la causa principale del razzismo e della povertà dei paesi meno sviluppati: “Credo che l’Inghilterra sia particolarmente colpevole di quelle che succede in Sudafrica, cosi come lo sono i francesi nella parte orientale dell’Africa e il fatto che ora ci sono molti africani che vivono a Londra ci aiuta a parlare con questa gente e questa è un’occasione culturale importante”. Dell’America dice: “Io penso che se non fosse per il jazz, sarebbe stato meglio che l’America non fosse mai esistita. Ma poiché il jazz è esistito, personalmente gliene sono grato”.
Le sue iniziative sono innumerevoli, a volte come protagonista, a volte come semplice attivista: a Wyatt non sono mai interessate le luci della ribalta, così è possibile vederlo in foto in cui vende per le strade il giornale del suo partito, il Morning Star.
Negli anni Ottanta il musicista inglese pubblica, in formato 45 giri, varie reinterpretazioni di vecchie canzoni politiche che poi raccoglierà nell’album “Nothing Can Stop Us”. Tra i brani, c’è anche “Arauco”, canzone folk della songwriter cilena Violeta Parra, grido di disperazione dei capi indiani contro il colonialismo dei cristiani che, dice Wyatt, “prosegue da quattrocento anni”. “Red Flag” è un traditional irlandese, divenuta successivamente inno dei partiti laburisti. “Strange Fruit” è un grande classico degli anni 30, nonché una delle prime canzoni in cui si parlasse apertamente del razzismo in America. “Caimanera” è una versione della cubana “Guantanamera”, dedicata ai cubani che hanno deciso di restare a Cuba in contrapposizione ai politici inglesi e americani che elogiavano chi espatriava negli Stati Uniti. “Stalin Wasn’t Stallin” è il brano più ideologico; un elogio del regime sovietico, la reinterpretazione di un brano del 1943 scritto da un autore che è ancor oggi sconosciuto, o perlomeno quello che si crede essere l’autore, Bill Johnson, nega di esserlo: “Mi aveva divertito molto sapere che c’era questa canzone di cui non si riusciva a scoprire l’autore, perché lui stesso non osava confessarlo, neppure per riscuotere le proprie percentuali”. Il testo è uno sperticato elogio di Stalin, descritto come un grande orso che agguanta e uccide la bestia di Berlino, vale a dire ovviamente Adolf Hitler, sorta di essere demoniaco partorito dal diavolo in persona. “Shipbuilding” è un brano contro la guerra delle Falkland, composto per Wyatt da Elvis Costello. “Trade Unions” è un inno sindacale suonato per convincere gli operai inglesi a iscriversi al sindacato. “Born Again Cretin”, unico brano del lotto scritto da Wyatt stesso, suona come una rivendicazione della sua libertà di parola. Ma Wyatt sa benissimo che il suo diritto di espressione è solo una faccia della medaglia del capitalismo: lui può parlare ma Mandela marcisce in carcere; mentre il titolo ironizza sui “Born Again” americani, i rinati in Cristo, che rappresentano una faccia ambigua e inquietante di una società ormai allo sbando, che non ha niente in cui credere ed è quindi capace di credere a qualunque cosa.
Se esaminiamo questi anni e i suoi brani politici, Wyatt appare come un marxista ottimista che ha la vera speranza di cambiare la società. Questa, però, col tempo è destinata a svanire. A un certo punto il musicista inglese acquista la consapevolezza che le sue idee siano destinate a scontrarsi con la dura realtà. Wyatt è un'idealista che crede fermamente in tutto quello che fa, ma il mondo intorno a lui sta cambiando; soprattutto stanno cambiando le persone che gli stanno intorno. Una nuova generazione di giovani si sta facendo strada; siamo alla fine degli anni Ottanta e un personaggio come Wyatt sta diventando un vecchio arnese di cui disfarsi. Nel 1987, così, il musicista inglese esce dal partito: “Me ne sono andato dal Partito Comunista perché era ormai diventato solo un trampolino di lancio per sapientoni da tribune televisive o giornalistiche. Non vedo più alcuna differenza tra le posizioni del partito comunista-marxista e quelle dei socialdemocratici. Quando entrai nel partito, alla fine degli anni Settanta, le persone che mi piacevano davvero erano spesso i vecchi e gloriosi antifascisti che si erano iscritti negli anni Trenta e ne avevano viste tante. C’era un idraulico che, malgrado l’opportunità di fare carriera, aveva preferito rimanere un militante di base e viveva fino in fondo i propri ideali. Andavamo ai mercatini del Morning Star e mi innamorai perdutamente delle persone che li frequentavano. Ma poi rimasi deluso, quando arrivò un bel po’ di gente molto più alla moda, quelli della generazione post-Beatles; se ne stavano lì a fare battute sarcastiche sui vecchi che ascoltavano Paul Robeson (cantante e attivista civile americano). Non mi piaceva affatto quella gente! Mi trattavano con apparente simpatia, ma in realtà non avevano niente in comune con me: ‘Oh, abbiamo un musicista, un fiore all’occhiello per la nostra immagine!’. Non mi interessava unirmi allo scherno della destra verso i vecchi comunisti”.
Manca poco al crollo del comunismo, ma le idee di Wyatt non cambiano. “Molti di noi sono diventati bird-watcher, ma io non sono cambiato affatto. Morirò col marchio marxista-leninista impresso sulla mia spina dorsale. Non si tratta di quel che faccio o dico: è come il mondo mi appare, non mi aspetto che le altre persone mi seguano, ma io non abiurerò mai. Non vedo ancora alcuna altra seria analisi del mondo, per me l’abbandono del Marxismo sarebbe come se i creazionisti seguissero Darwin. Sono molto grato al Marxismo, lo considero inestimabile nella lotta contro l’apartheid. E penso che Joe Slovo (leader del partito comunista sudafricano), sia stato un vero gigante tra gli uomini, un comunista di successo che ha saputo guardare la realtà”.
La storia politica di Robert Wyatt, dunque, resterà sempre segnata dalla sincerità e dalla fortissima autonomia, le stesse caratteristiche che hanno contraddistinto la sua carriera musicale. Wyatt non è mai stato interessato a fare cose che avessero un seguito, non ha mai cercato proseliti, sia nella musica che nella politica, ha sempre fatto quello che riteneva giusto fare, il senso di competizione che esiste tra i musicisti non ha mai fatto parte della sua mentalità.
Chiudiamo con un passaggio da un’intervista che descrive perfettamente la personalità di Wyatt e che dovrebbe essere d’insegnamento a tanti giovani musicisti: “Non ho mai sopportato la divisione tra successo e fallimento di cui parla l’industria pop, per loro un disco è un successo o un completo fallimento. Il mondo della cultura da cui vengo, che ho nella mia testa, non ha niente a che fare con tutto questo. Si tratta solo di persone che fanno il loro lavoro giorno per giorno. Invece ho visto musicisti andare nel panico per avere venduto meno copie di un loro collega. Tutto questo non mi riguarda. Non significa nulla per me l’avere molto, la ricchezza, il grande profitto. Voglio solo avere abbastanza soldi per vivere e stare con i miei amici. Se una persona compra un mio disco, è molto gentile da parte sua e gliene sono molto grato. Se a una persona piace ciò che faccio, questo è meraviglioso. Altrimenti vuol dire che ascolterà qualcos’altro”.