Inoltre l’innegabile complessità della sua musica, non assimilabile ad altro che possa essere considerato pop o rock, rende difficili anche tutti quei paragoni che si è soliti fare nelle recensioni. Wyatt somiglia solo a se stesso e la sua musica è pressoché inimitata e inimitabile.
La musica di Robert Wyatt è solo sua, e questo "Cuckooland" credo avalli ulteriormente la mia affermazione.
Le tante partecipazioni, che già caratterizzavano il precedente e bellissimo "Shleep", sono aumentate in questo nuovo lavoro, che vede assoldati David Gilmour, Brian Eno, Paul Weller, il fido Phil Manzanera, Karen Mantler (la figlia di Carla Bley) e molti altri.
Basta un frammento dell’iniziale "Just A Bit" per capire che si è di fronte a Wyatt: il bordone etereo di tastiere, la tromba soffiata, la voce unica, che si fa strumento… il tutto ci catapulta nel suo mondo fatato, fatto di sogni zeppi di note musicali, nuvole e manifesti, le lingue di babilonia e le parole dei bambini. Sembra un mondo descritto da Lewis Carroll, con la differenza che il sogno lo si raggiunge con la musica. Chi conosce Wyatt sa che questo risultato lui è capace di raggiungerlo lavorando per sottrazione: basta davvero poco, e si è immersi in queste acque calme e calde, quasi ci si ritrovi in una condizione prenatale.
La musica scivola via e sembra che niente sia lasciato al caso: in "Old Europe" ci prende per mano per farci conoscere la vecchia Europa, cornice di una storia d’amore unica tra Juliette Greco e Miles Davis, ma i fiati sanno tanto di Dixieland e non capiamo quale sia la vecchia Europa, così persa e risucchiata dall’egemonia nella giovine America. A Wyatt piace scherzare, lo vedo lì mentre se la ride sulla sua sedia a dondolo di fronte a una finestra che dà sul mare.
C’è però un segnale negativo che si avverte man mano che il disco sfila: emerge una monotonia che era estranea al già citato "Shleep". Insomma, "Cuckooland" è un disco concepito con l’idea che esista ancora il vinile, al punto che il nostro ha pensato bene di dividerlo in due parti, aggiungendo una traccia con trenta secondi di silenzio. Ma a Wyatt è però sfuggito che i dischi di una volta, salvo rari casi, non superavano quasi mai i quaranta minuti di durata. L’eccessiva lunghezza è forse il difetto maggiore di "Cuckooland", che, concepito senza alcuni episodi che sanno di già sentito, sarebbe davvero un ottimo album. Il fatto che, in alcuni casi, Robert e Alfie abbiano scelto di posare la penna in favore di musica preesistente rende il tutto un po’ più movimentato regalando momenti molto alti: è il caso del delizioso pastiche pianistico di "Raining in my heart" o del sentito omaggio a Antonio Carlos Jobim nella emozionante "Insensatez".
Per contro alcuni episodi sanno di scontato, e in generale a "Cuckooland" sembra mancare una unità di fondo. Forse questa è sempre mancata a Wyatt, per sua natura eclettico spiazzante. In questo caso, però, la mancanza di una omogeneità stilistica inficia il giudizio complessivo. Probabilmente in "Cuckooland" ciò si avverte maggiormente proprio per via della pluralità di autori.
Ovviamente le perle non mancano, ma sono disseminate in un magma troppo poco unitario: commovente "Lullaby for Hamza", splendido il sax appena sussurrato della conclusiva "La Ahada Yalam", dove ancora una voltà è l’austerità wyattiana a farla da padrone.
Insomma, non solo luci, per questo "Cuckooland" che resta comunque un disco, complesso ed emozionante, al quale una durata inferiore e una maggiore omogeneità di scrittura avrebbero permesso sicuramente di diventare un altro piccolo capolavoro. Continueremo ad ascoltarlo, certo; del resto i dischi di Wyatt non sono prodotti usa e getta. Ma ci resta un senso di inappagamento che speriamo possa essere soddisfatto in tempi minori rispetto a quelli che hanno separato "Shleep" da "Cuckooland".
Un’ultima annotazione doverosa: sia chiaro che se questo disco l’avesse fatto qualcun altro noi avremmo gridato al miracolo… ma si sa, con i propri maestri si è sempre più benevolmente severi.
(copyright: Musicboom)
(30/10/2006)