Paul Weller - Jam - Style Council

Paul Weller - Jam - Style Council

L'ultimo dei mod

Dall'avventura gloriosa dei Jam, in bilico tra punk e revival mod, al soul-pop da caffè parigino degli Style Council, fino a una carriera solista proseguita senza interruzioni fino ad oggi: la saga di un songwriter intelligente, interprete autentico del malessere infido della propria generazione

di Claudio Lancia e Michele Camillò

Paul Weller, l'uomo col viso da eterno ragazzo, il Cappuccino Kid per eccellenza, colui che ha riportato l'attenzione europea sul movimento mod, è nato il 25 maggio 1958 a Woking, contea del Surrey, Inghilterra, in una famiglia della middle-class. La sua carriera, iniziata in piena era punk, ha progressivamente virato verso un gustoso mix di rock bianco e sonorità "soul" nere, con venature funk-jazzy. Sempre elegante ed impeccabile, si è affermato come uno dei personaggi cardine degli ultimi trent'anni di pop britannico e un tangibile riferimento per molti protagonisti della scena attuale.

The Jam: Quadrophenia al tempo del punk

La trentennale avventura di Weller nasce nel bel mezzo dell'esplosione punk, quando, non ancora ventenne, diventa il leader dei Jam, destinati a essere consacrati come una delle formazioni più influenti nel panorama musicale britannico dei tardi anni 70. La loro ricetta è un intelligente e personale incrocio fra punk-rock e pop, tra beat e rhythm'n'blues, che conquisterà il rispetto della critica e un considerevole seguito di pubblico.
Paul Weller è chitarrista, voce, leader incontrastato e principale compositore del gruppo.
Da veri mod, i Jam sfoggiano camicia bianca, giacca e cravatta nere, un ottimo taglio di capelli e, a differenza di tanti colleghi del periodo, dimostrano di saper suonare sul serio.

La loro storia ha inizio nel 1975 quando quattro compagni di scuola si incontrano dopo le lezioni per strimpellare insieme i propri strumenti; oltre a Weller, c'è il bassista Bruce Foxton, il batterista Rick Buckler e il chitarrista Steve Brookes, che presto però abbandonerà la partita.
I principali punti di riferimento musicali sono da un lato la scena underground punk che stava per esplodere con inimmaginabile furore, dall'altro il revival mod anni 60, con in testa gli Who (soprattutto quelli di "Quadrophenia") e gli Small Faces, più una spruzzatina di soul Tamla Motown style.
La miscela così prodotta inizialmente è più indirizzata verso un orecchiabile punk-rock, ma, disco dopo disco, si va ammorbidendo, strizzando sempre più l'occhio al pop e a testi impegnati: in questa fase il punto di riferimento più concreto diviene quello dei Kinks. In un'epoca in cui il singolo, il 45 giri, è ancora un prodotto di successo, Weller e compagni riescono a imbroccare una sequenza di canzoni d'oro che varrà loro l'eterno culto dei fan.

La "marcia su Londra" dei tre prende il via in modo piuttosto insolito, con una gig all'aperto, a Soho Market. Poi, il vero e proprio esordio, al leggendario 100 Club. Nel febbraio del 1977 i Jam hanno già firmato un contratto con la Polydor, che porta al primo singolo "In The City", personale tributo alla vivace scena punk del periodo, con un prepotente giro armonico di chitarra e basso che verrà carpito dai Sex Pistols in "Holidays In The Sun".
In The City (1977) è anche il titolo dell'album d'esordio, buona combinazione fra numeri rhythm'n'blues e un approccio punk-rock che cerca di riproporre più fedelmente possibile la vitalità delle esibizioni dal vivo. Il tutto nel formato tipico della canzone breve, di tre minuti al massimo, come da filosofia punk (e il modello sono soprattutto i Clash).
Spiccano quei racconti metropolitani e quelle gustose vedute cittadine ("Sounds From The Street", "Bricks And Mortar") che saranno una costante nel repertorio Jam. Musicalmente, si delinea subito una fresca miscela di melodia e aggressività. Il suono è ancora ruvido, imperniato principalmente sul confronto tra la chitarra nervosa e i riff à-la Townshend di Weller e una sezione ritmica di notevole impatto, incentrata sulle dinamiche linee di basso di Foxton e sul possente drumming di Buckler. La ballata di "Away From The Numbers", invece, strizza l'occhio al cantautorato à-la Elvis Costello.

Con il secondo singolo "All Around The World", che sfiora l'ingresso nella top ten inglese, la band prende per la prima volta le distanze dal movimento punk ("what's the point in saying destroy"). Una svolta controcorrente anticipata da un'altra dichiarazione ad effetto: "Tutta questa storia di cambiare il mondo sta diventando una moda, alle prossime elezioni voteremo conservatore", dichiara Weller al settimanale inglese New Musical Express. In molti non gradiscono: Joe Strummer dei Clash se la lega al dito e, dopo l'avvento dei Tory al potere, scrive a Weller un sarcastico telegramma: "Maggie Thatcher vi aspetta per la messa a punto degli obiettivi la prossima settimana".
Nel frattempo, il grande successo spinge i Jam a imbarcarsi in un fortunato tour inglese.

In quei mesi i cambiamenti si susseguono veloci, Clash e Sex Pistols incendiano Londra, non c'è tempo da perdere e i Jam entro la fine dell'anno danno alle stampe il secondo album, This Is Modern World, che offre loro una visibilità ancora superiore, facendoli divenire il gruppo di riferimento del rinato movimento mod.
Il disco si pone in maniera più aggressiva del predecessore, con l'energetica "The Modern World" sugli scudi. Oltre al "ribellismo" di stampo Who, emerge in modo più limpido la vocazione soul di Weller, la sua passione per i suoni di casa Motown. In questa ottica, la cover di "In The Midnight Hour" di Wilson Pickett suona come un vero e proprio omaggio. I testi si fanno più sottili e taglienti: attraverso le corde della sua Rickembacker, Weller dà sfogo al malessere infido della sua generazione.
Nel 1978 viene pubblicato come singolo il più melodico "News Of The World", primo accenno verso le successive svolte pop, nonché aperta critica verso il mondo dei tabloid britannici e della stampa in generale; il singolo successivo è invece "David Watts", una cover dei Kinks, interpretata da Weller con verve pungente.

Se in patria tutto procede a gonfie vele, oltre oceano i Jam non riescono (e non riusciranno quasi mai) a conquistare i favori del pubblico, nonostante una serie di tour, alcuni come opening act di formazioni ben note in America, quali i Blue Oyster Cult. La loro "inglesità" d'altronde è talmente marcata da rendere quasi proibitiva l'impresa.

Weller continua a crescere come compositore e la band è smaniosa di guadagnare ulteriori consensi. Nel 1979, esce l'album della consacrazione, All Mod Cons, che consolida i Jam come capofila del movimento mod nell'immaginario collettivo.
L'album, più maturo anche dal punto di vista degli arrangiamenti e dei suoni (che annoverano anche alcune parti di piano dello stesso Weller), raggiunge la sesta piazza nelle chart britanniche e registra la crescente attenzione della band verso tematiche di tipo sociale e politico. Ne sono testimonianza la storia di violenza urbana di "Down In The Tube Station At Midnight" (censurata dalla Bbc perché contraria alla svolta anti-immigrazione del governo di Londra) e il graffiante sketch in veste jazzy di "Mr. Clean", oltre alla raffinata "In The Crowd", che sfuma in un assolo di chitarra su un mantra acid-rock (diverrà anche uno dei cavalli di battaglia di Weller dal vivo).
Se le sonorità punk degli esordi rivivono in assalti frontali come la title track e "A Bomb In Wardour Street", a emergere è soprattutto la vena melodica del gruppo, che illumina dolci ballate come "Fly" ed "English Rose", dai risvolti quasi beatlesiani, e brillanti episodi folk-pop quali "The Place I Love" e "To Be Someone (Didn't We Have A Nice Time?)".

Il successivo singolo "The Eton Rifles", apologo rock sulla lotta di classe, entra per la prima volta nella top ten, raggiungendo il terzo posto: per la prima volta una canzone dei Jam viene regolarmente trasmessa dalle emittenti radiofoniche britanniche e raggiunge un bacino di ascolto che supera il confine dei fan della prim'ora. Alle tastiere, appare un tal Mick Talbot, che dopo pochi anni sarà compagno di Weller nella fortunata avventura Style Council.
Servono ancora nuove idee, che possano proiettare il gruppo oltre i confini del fedele ma ristretto seguito garantito dalla tribù mod, che li ha ormai designati unici eredi degli Who. L'obiettivo è raggiunto pochi mesi dopo con il quarto album Setting Sons (1979), trascinato dalla stessa "The Eton Rifles" e dall'altro singolo "Going Underground", invettiva nei confronti dei trattati nucleari che raggiunge il numero uno delle classifiche inglesi. Per presentare il pezzo al celebre programma televisivo Top Of The Pops, i Jam accorceranno l'ennesima sfortunata tournée americana.
Nel complesso, il disco si presenta più ricco ed eterogeneo dei precedenti, spaziando da protest-song proletarie alla Kinks ("Private Hell"; "Little Boy Soldiers") a recuperi di sonorità beat (la beatlesiana "Wasteland" e l'uptempo di "Smithers-Jones", firmato Foxton, con arrangiamento per quartetto d'archi), da cronache di ordinaria desolazione urbana ("Private Hell", "Saturdays Kids") ad anthem giovanilisti ("Thick As Thieves"), senza dimenticare nuovi omaggi alla Motown (la cover di "Heat Wave"), in una carrellata che ripercorre tutte le tappe salienti del percorso musicale della band.

Nel 1980 esce Sound Affects contenente fra le altre cose il number one single "Start" (numero quasi ska, ispirato a George Orwell) e la famosissima ballata "That's Enterteinment", da molti definita la "Yesterday" dei Jam, perfetta istantanea sardonica di "English life" del periodo. Hit album dei Jam, Sound Affects propone un repertorio accattivante, che inizia a farsi più smaccatamente pop, con frequenti inserti di fiati, parti di synth e inedite aperture alla danzabilità. Lo ska strumentale di "Music For The Last Couple" sembra quasi una jam in studio degli Xtc, mentre "Man In The Corner Shop" si colora di tonalità folk-rock, sfoderando uno dei più brillanti refrain di Weller. Non mancano, tuttavia, residui dell'aggressività degli esordi, dalla vibrante "Going Underground" alla protest-song di "Pretty Green" fino a quella "Set The House Ablaze" che mescola sapientemente luce e tenebre, chitarrismo dissonante e aperture briose, culminando in una coda strumentale di grande suggestione.

Nel 1981 vengono pubblicati due singoli non contenuti in alcun album, "Funeral Pyre" e "Absolute Beginners", esperimenti melodici che allontanano ulteriormente i Jam dalle sonorità degli esordi, pur consolidandone la fama in patria.
All'inizio del 1982 è la volta del singolo "A Town Called Malice/ Precious" (un doppio a-side che resta in vetta alle classifiche per tre settimane) e del primo album a raggiungere la vetta della top ten, The Gift, che mostra però una band incerta, alla ricerca di nuovi orizzonti da esplorare, sospesa tra le tentazioni dance di "Precious" e il solito soul di ascendenza Motown di "Town Called Malice" e "Beat Surrender".

Nonostante il crescente successo il giocattolo si sta rompendo: Weller è sempre più preso dalle sue influenze soul, inizia a progettare svolte cool jazzy e la situazione del trio sembra ormai andargli stretta; "The Bitterest Pill" già all'epoca viene considerato dai fan una sorta di singolo solista del leader.
Del resto la prima ondata punk, quella verace, si è esaurita da tempo e gli artifizi elettro-wave non stuzzicano la curiosità di Paul, smanioso di mettersi alla prova su nuovi territori.

Nell'ottobre del 1982 i Jam annunciano il proprio scioglimento, facendolo seguire a un trionfale tour inglese di addio (concluso con cinque date alla Wembley Arena di Londra), dal quarto number one single ("Beat Surrender") e da un "greatest hits" dal vivo di enorme successo (Dig The New Breed). Uscite che testimoniano la prolificità del gruppo perfino negli ultimi giorni di vita.

La scelta di sciogliere i Jam fu senza dubbio coraggiosa, anche perché presa nel momento in cui la fama del gruppo era in procinto di diventare mondiale, ma è solo uno dei tasselli che da sempre testimoniano la versatilità e l'imprevedibilità di Weller, il quale troverà in seguito ampi consensi nell'avventura Style Council, e nell'altrettanto interessante carriera solista che tuttora continua a portare avanti brillantemente. Meno fortunati i destini dei suoi due compari: Foxton inciderà un disco solista prima di entrare come bassista nella line-up dei riformati Stiff Little Fingers, mentre Buckler, dopo un'infruttuosa militanza nei Time Uk, abbandonerà del tutto le scene musicali.
Vista col senno di poi, la scelta di Weller fu lungimirante perché l'estetica a tutti i costi che si stava affermando negli anni 80 avrebbe certamente stritolato una formazione punk oriented come quella dei Jam: meglio scioglierla, dunque, e dar vita a una nuova situazione più adeguata ai rinnovati gusti del momento.

I Jam lasciano sei album importanti, fotografie fedeli dell'adolescenza inglese meno di frontiera degli anni a cavallo fra i 70 e gli 80, e una serie di hit single tali da farli rimanere con merito nel firmamento delle band inglesi più importanti nella storia del pop. In un breve arco di tempo (1977-1982) hanno saputo costruire una valida alternativa al "no future" dei cugini, recuperando le nobili radici sixties del pop d'oltremanica (Who, Kinks, Beatles). Pochi gruppi di quella stagione possono ancora vantare in Gran Bretagna (e non solo) un seguito di pubblico così fedele e appassionato.

Style Council: soul-pop al Café Bleu

A soli tre mesi dallo scioglimento dei Jam, Paul Weller decide di fondare una nuova band, insieme all'amico Mick Talbot (Londra, 1/9/1958), già al suo fianco dai tempi di Setting Sons ed ex tastierista dei Dexys Midnight Runners, un altro gruppo punk-folk d'oltremanica (ricordate "Come On Eileen"?). A completare gli Style Council, il giovanissimo batterista Steve White, che sarà ribattezzato con lo stravagante appellativo de "il guerriero della batteria di diciotto primavere".
In Inghilterra è l'epoca del conservatorismo di Margaret Thatcher e dell'attuazione della sua politica di ristrutturazione economica. Nei suoi testi, Weller si erge a portavoce della protesta di un'intera generazione contro il governo di Londra, denunciando i principali mali della Gran Bretagna degli anni Ottanta, dal razzismo alla disoccupazione. Gli Style Council, comunque, rappresentano per Weller una vera e propria rivoluzione rispetto alla sua precedente esperienza. La nuova band, infatti, si discosta notevolmente dal sound dei Jam, per approdare a uno stile peculiare: una sorta di soul-jazz dal sapore antico e dal piglio romantico e fatalista

Nel 1983, al Liverpool Empire, si tiene il primo "Council Meeting", affollato da un pubblico che si aspetta un seguito degli Jam e una nuova ondata di "inni" mod. Weller li spiazza, presentandosi nei panni di un nuovo soul-man bianco, immerso in un clima da cabaret parigino.
Il 1983 è anche l'anno del primo album degli Style Council, Introducing The Style Council, che funge da "prefazione" alla carriera della band. Il primo singolo "Speak Like A Child" mostra ancora qualche legame con l'esperienza dei Jam, ma si avvicina sensibilmente a sonorità di stampo Motown. L'altro singolo estratto, "Long Hot Summer", è un brano dance, inframezzato da diversi spunti soul-jazz. Tuttavia, più che un'opera prima, Introducing The Style Council rappresenta una semplice introduzione (e il titolo ne è la conferma) al successivo Café Bleu, il capolavoro della band.

Prodotto nel marzo del 1984 dalla Polydor, Café Bleu sembra quasi riflettere in musica il carattere mutevole e irrequieto di Paul Weller: spazia dal pop raffinato di "You're The Best Thing" (grande hit dell'anno) e "Headstart For Happiness" al "British jazz" di "Dropping Bombs On The Whitehouse", dal soul-folk di "Here's One That Got Away" al rap di "A Gospel". Atmosfere raffinate da night-club francese pervadono l'incantevole "Paris Match" (interpretata da Tracey Thorn degli Everything But The Girl), ma il brano più rappresentativo della raccolta è probabilmente "My Ever Changing Moods", ballata per voce e pianoforte che vuole testimoniare il temperamento umorale di Weller (nonché titolo dell'album nella versione americana). Nell'edizione in compact disc è presente anche "The Whole Point Of No Return", brano dai contorni vagamente bossanova, che venne registrato, solamente con voce e chitarra, quando l'album era stato già stampato.
Con Café Bleu gli Style Council si guadagnano buoni riscontri di critica e (soprattutto) un buon successo di pubblico, che si concretizza con il quinto posto raggiunto nella classifica inglese. Per loro e altri artisti con la stessa attitudine soul-pop-jazz (Matt Bianco, Sade, Everything But The Girl, Working Week) viene anche coniata l'etichetta di "cool inglese". Nel frattempo, Paul Weller intensifica il suo impegno in ambito sociale e politico. Partecipa infatti alla registrazione del brano "Do They Know It's Christmas" con la Band Aid di Midge Ure e Bob Geldof, e successivamente, insieme a Mick Talbot, aderisce a un'associazione per la diffusione dell'ideologia del Labour Party, il "Red Wedge", insieme a Billy Bragg e ai Communards di Jimmy Sommerville. Per Weller è un'altra metamorfosi, visto che, durante la militanza nei Jam, aveva affermato di essere filoconservatore.

Il successo di Café Bleu viene bissato un anno dopo con Our Favorite Shop, in cui spicca la presenza di Dee C. Lee, affascinante corista di colore che Weller sposerà nel 1986. Un'accoppiata di singoli trascinanti - il R&B di "Walls Come Tumbling Down" e il soul-funk di "Shout To The Top" - garantisce il sicuro impatto sul pubblico. Ma l'album vive anche e soprattutto di ballate intense e raffinate, come "Boy Who Cried Wolf" (forse il capolavoro della raccolta, con i ricami delle tastiere di Talbot in bella evidenza), "The Lodgers", "A Stones Throw Away" e "Homebreakers". "Come To Milton Keynes" è invece un'amara e pungente riflessione sul disagio delle periferie urbane. Un disco molto ben confezionato, insomma, cui forse nuoce solo un eccesso di "levigatezza".
Con Our Favorite Shop gli Style Council perfezionano la formula di Café Bleu, aggiungendo - se possibile - un tocco di raffinatezza in più. L'album esce negli Stati Uniti con il titolo di Internationalists, dal nome di uno dei suoi brani più "politici". Il duo Weller-Talbot cavalca subito il successo pubblicando Home And Abroad: Live!, album dal vivo, che raggiunge l'ottavo posto della classifica inglese. Sempre nel 1986 viene registrato il singolo "Have You Ever Had It Blue" (rifacimento di "With Everything To Lose"), che sarà poi incluso nella colonna sonora di "Absolute Beginners", film-musical di Julien Temple.

Il 1987 è l'anno di The Cost Of Loving, disco mediocre che, seppur massacrato dalla critica, riesce comunque ad arrivare alla seconda posizione nella Top Ten inglese. Il brano trainante è "It Didn't Matter". Il singolo "Waiting", invece, riesce a malapena a toccare il quarantesimo posto. E' l'inizio di una crisi che lascia presagire lo scioglimento della band.
Quando sembrano avviati a una rapida fine, nel giugno del 1988, gli Style Council sorprendono tutti, realizzando l'album forse più ambizioso della loro carriera: Confessions Of A Pop Group. E' un disco autobiografico, costituito da due parti: la prima è una suite di brani jazz, nei quali Talbot ostenta egregiamente le sue grandi doti di pianista; tra essi, spicca un lungo medley composto da tre sezioni, "The Gardener Of Eden", arricchito da brillanti arrangiamenti orchestrali. La seconda parte, invece, è caratterizzata da un pop raffinato e maggiormente evoluto rispetto al passato, a cominciare dal singolo "Life At A Top People Health Farm", con venature soul-reggae. Confessions Of A Pop Group mostra un Weller più sicuro e intraprendente, giunto al culmine della sua maturazione artistica. Eppure, l'album viene giudicato negativamente dalla critica. Anche dal punto di vista commerciale, rispetto ai precedenti risultati, Confessions Of A Pop Group si rivela un insuccesso, pur raggiungendo la quindicesima posizione delle chart. La fine della corsa avviene l'anno seguente, quando la Polydor respinge la pubblicazione di "Modernism - A New Decade", il nuovo lavoro della band, all'insegna stavolta di suoni house e club music. Lo scioglimento degli Style Council è inevitabile. L'ultimo atto è The Singular Adventures Of The Style Council, raccolta di singoli, comprendente anche l'inedito "Promised Land". Terminata l'esperienza con gli Style Council, Paul Weller dà inizio, nel 1992, alla sua carriera solista, pubblicando diversi album dai riflessi beat, attraverso i quali diviene uno dei principali precursori del successivo britpop, dominato da Oasis, Blur e compagnia.

Nella breve ma significativa avventura con gli Style Council, Paul Weller si è rivelato abile nella sperimentazione di nuove soluzioni musicali, vicine a certo successivo acid-jazz, e nella rielaborazione di quel soul-pop erede della grande tradizione di Marvin Gaye e Curtis Mayfield. I suoi testi, invece, lo hanno consacrato poeta-dandy, capace di interpretare le ansie e le frustrazioni della propria generazione.
Negli anni successivi, box set e antologie renderanno omaggio al percorso degli Style Council, ultima delle quali Long Hot Summers, ampia retrospettiva pubblicata verso il finire del 2020 e curata anche dallo stesso Weller. In scaletta non soltanto tutte le hit del gruppo ma anche diversi brani meno popolari e un paio di inediti: il demo di “My Ever Changing Moods” e una extended version di “Dropping Bombs On The Whitehouse”. A completamento del progetto Long Hot Summers” è previsto un documentario trasmesso durante il 2021 sul circuito televisivo Sky Arte. 

Il ritorno del Cappuccino Kid

Dopo i pruriti adolescenziali sfogati con i Jam e le chiccherie cool-new-jazz degli Style Council, Paul Weller si ritrova agli albori degli anni 90 con un mare di idee e la voglia di ripartire da zero, dopo che la Polydor ha rifiutato la pubblicazione di New Decade Of Modernism, album che avrebbe segnato la definitiva svolta verso sonorità più dance, svolta realizzata solo parzialmente dall'ultimo singolo degli Style Council, "Promised Land".
Weller scioglie la band che lo aveva imposto all'attenzione internazionale nel corso degli anni 80 e mette in pista il Paul Weller Movement con una line-up costituita da amici vecchi e nuovi e soprattutto da una bella sezione fiati, che conferma il nostro come uno dei padri dell'allora significativo movimento acid-jazz.
La sua carriera solista rinnova il connubio di rock bianco e sonorità nere, attenuando invece le prese di posizione politiche anti-thatcheriane e laburiste, culminate nelle invettive di Our Favourite Shop degli Style Council.

Il passaggio alla Go!Disc produce nel 1992 il suo omonimo esordio solista Paul Weller (contenente "Uh Huh Oh Yeah" e "Into Tomorrow", i primi singoli), poco a fuoco e ancora legato a certi suoni di marca Style Council, sebbene in grado di dimostrare l'attenzione di Weller per costruzioni catchy ben realizzate.
Questo primo lavoro si realizza senza gran parte del Movement (comunque qui arricchito da una sezione di cori femminile), così il disco esce semplicemente a nome Paul Weller. Il suo principale problema in questa fase è riuscire a focalizzarsi come solista nell'immaginario collettivo, cosa che avverrà in maniera compiuta con le produzioni seguenti.

Il picco creativo dell'ex-Cappuccino Kid, infatti, viene raggiunto coi due album successivi, Wild Wood del 1994 e il fortunatissimo Stanley Road (dal nome della via dove era cresciuto) del 1995, che rimarrà nella top ten inglese per circa un anno, sfornando una lunga serie di singoli godibilissimi.
In entrambi i casi Weller riesce a combinare sapientemente superbe ballate ("Wild Wood", "Porcelain Gods", "Broken Stones" e "You Do Something To Me", su tutte), strepitose canzoni tiratissime con appropriati inserti di fiati e mood funky ("Has My Fire Really Gone Out", "Shadow Of The Sun", "5th Season", la cover di "I Walk On Glinded Splinters") e momenti di straordinaria eleganza ("All The Pictures On The Wall", "Foot Of the Mountain"), servendo le portate migliori del proprio estro compositivo in due dischi praticamente perfetti.

Fra i due classici, viene dato alle stampe nel 1994 il buon Live Wood, energetico disco dal vivo che ben conserva lo spirito della band on stage.

Nei successivi dieci anni, pur realizzando sempre lavori più che dignitosi, Paul Weller non riesce più a raggiungere i vertici dei suoi due capolavori.
Già nel 1997 Heavy Soul si mostra un gradino più in basso, nonostante la presenza di ospiti illustri quali gli Ocean Color Scene, Steve Cradock e Damon Minchella, che cercano di portare nuova linfa.
Heavy Soul si presenta sporco e decisamente guitar oriented, con grande uso di feedback e distorsioni; svettano il blues irruento di "Peacock Suit", l'epicità di "Brushed" e i momenti più soft di "Friday Street" e "Up In Suze's Room".

Il britpop, intanto, è diventato un fenomeno di massa: Blur, Oasis, Suede, Pulp e una miriade di gruppi minori stanno invadendo le classifiche di mezza Europa. Molti di loro conservano il poster di Weller attaccato in cameretta in una delle sue molteplici reincarnazioni, eppure per l'ex leader di jam e Style Council sembra non esservi più molto spazio mediatico, anche perché egli stesso non si dimostra interessato a far parte dell'allegra banda in heavy rotation su Mtv.
L'eterno ragazzo del Surrey ha bisogno di riordinare le idee, e nel 1998, per fare il punto della situazione, pubblica Modern Classics, greatest hits dei primi sei anni di carriera solista.

La pausa, però, si rivela infruttuosa e nel 2002 Weller scende ancora un gradino più in basso con Heliocentric, una delle sue opere meno incisive, nonostante la presenza di qualche brano degno di nota come le raffinate "Frightened" e "Loveless".
Rispetto a Heavy Soul, il suono diviene meno crudo e riguadagnano spazio gli arrangiamenti orchestrali; la vena creativa inizia però seriamente a inaridirsi e il nostro raschia un po' il fondo del barile.

A questo punto Weller si imbarca in un'emozionante tournée teatrale acustica che affronta in piena solitudine, entrando come mai prima a diretto contatto con i suoi fan e scoprendo di averne anche di molto giovani. Il repertorio proposto spazia a 360 gradi su tutta la sua discografia, andando a ripescare successi recenti, hit del passato, Jam compresi, e qualche outtake rimasto ingiustamente nell'ombra.
L'atmosfera è solo parzialmente catturata dal live acustico Days Of Speed, il quale risulta essere un prezioso documento, anche se un po' monocorde.

Dopo il bagno di folla, Weller è pronto per rientrare in studio di registrazione e incidere Illumination (2003), un'illuminazione sin dall'iniziale "Going Places", che sprizza energia da tutti i pori. Paul dimostra di sapersi ancora arrabbiare ("A Bullet For Everyone"), di riuscire ancora a scrivere rispettabilissime ballate soul ("Who Brings Joy", "All Good Books") e di tornare a sorprendere aprendosi imprevedibilmente a inediti slanci etnici ("Spring At Last").
E in "Call Me N° 5" dimostra di essere in grado di ben dialogare coi propri "figli", ospitando in un riuscitissimo duetto Kelly Jones, il cantante degli Stereophonics.
Illumination raccoglie critiche non eccelse, ma si impone al pubblico come disco gradevole, intelligente e ben confezionato.

Nel 2004 è la volta di un nuovo cambio di etichetta (V2) e di Studio 150, raccolta di cover fra le quali spicca la deliziosa "Wishing On A Star".

Da più parti si parla di un Weller al capolinea e ormai privo di ispirazione, ma il nostro smentisce tutti pubblicando dopo un solo anno (ottobre 2005) As Is Now, nuovo lavoro frizzante e moderno che precede un nuovo acclamato giro di concerti. Il cantautore inglese torna a proporre il consolidato mix tra rock bianco e venature nere, ormai divenuto suo marchio di fabbrica. Il disco si apre con l'uno-due mozzafiato di "Blink And You'll Miss It" e "Paper Smile", lucide, dirette e tirate. A seguire, l'irresistibile "Come On-/Let's Go" e il divertissement di "Here's The Good News", con l'ottimo lavoro di Weller al piano e i fiati a fare da gustoso contrappunto. "Pan" è un'elegia per piano, archi, coro e flauto, "All On A Misty Morning" è un trionfo unplugged, "I Wanna Make It Alright" e "Roll Along Summer" sono due up-tempo jazzati di grande eleganza, "Savages" potrebbe essere il sogno nel cassetto dei fratelli Gallagher.
E se il convinto rock 'n' roll di "From The Floor Boards Up" mette in fila tutte le pseudo baby-rock band col "the" nel nome, gli oltre sette minuti di "Bring Back The Funk" sembrano quasi voler ricordare dove ebbe inizio il fenomeno acid-jazz. Nonostante qualche momento di stanca ("Fly Little Bird", "The Peeble And The Boy"), il disco conferma la ritrovata vena di un Weller che sa graffiare e ammaliare, con accanto il fedelissimo Steve White alla batteria (con lui dalla line-up degli Style Council), Steve Cradock alla chitarra solista, Damon Minchella al basso e uno stuolo di archi e fiati, fra i quali si nota l'altro fedelissimo Jacko Peake al sax.

Dal fortunato tour di As Is Now, scaturisce il doppio live Catch - Flame!, che ben fotografa lo stato di salute della band, anche se qualitativamente si pone un gradino più in basso rispetto a Live Wood.

A fine 2006 viene pubblicato a sorpresa un singolo con due inediti: "Wild Blue Younder" e "Small Personal Fortune".
Nello stesso periodo viene immessa sul mercato una special edition di Wild Wood (quella di Stanley Road risale al decennale del disco) contenente 15 demo inediti, tre registrazioni eseguite per la Bbc e un libretto di 32 pagine.

Il 2007 vede Weller impegnato in una serie di importanti collaborazioni, fra le quali spiccano un Ep con Graham Coxon e Zak Starkey intitolato This Old Town, una comparsata in "Comicopera" di Robert Wyatt e la trascinante "Are You Trying To Be Lonely" che trova posto nel secondo album di Andy Lewis.
Il 2008 si apre con il Modfather intento a progettare il nuovo disco, mentre si parla sempre più insistentemente anche di una possibile reunion dei Jam (disco + tour), ma è già stato annunciato che Weller non ha intenzione di partecipare all'evento.

Per festeggiare il cinquantesimo compleanno, Weller pubblica l'undicesimo disco da solista, 22 Dreams (2008), un album della durata di un vecchio doppio in vinile nel quale si diverte a esporre una varietà di generi. Oltre ai soliti pezzi mod-style (la title track), britpop ("Sea Spray"), e all'immancabile mistura di rock e soul funky (le morbidezze di "Empty Ring" e "Cold Moments”), infatti, Weller riserva non poche sorprese. Ad aprire e chiudere il disco, per esempio, sono due atmosfere indiane ("Light Nights" e "Night Lights"), e se la prima si mantiene nella forma-canzone più ordinaria, la seconda si presenta come un'estasi da spazio cosmico, fino a chiudersi con un roboare di tuoni da temporale estivo. Ma nei ventidue sogni c'è ancora di che spiazzarsi; una splendida orchestrazione pop bacharachiana ("Black River"), una specie di Springsteen-boogie ("Push It Along"), malinconico romanticismo da tango strascicato ("One Bright Star"), piano e archi in amorevoli incontri ("Lullaby Fur Kinder", "Where'er Ye Go") e universi kraut("111").

Immancabili gli ospiti: Noel Gallagher e Gem Archer degli Oasis collaborano al rock psichedelico di "Echoes Round The Sun", Aziz Ibrahim (Stone Roses) è la voce recitante nella mistica preghiera di "God", mentre il grande Robert Wyatt distende la sua tromba nel patchwork jazz di "Song For Alice", omaggio alla defunta Signora Coltrane. A dispetto di tutte le sue diversità, 22 Dreams è un disco scorrevole, che si ascolta con estremo piacere; il talento compositivo di Mr. Weller calibra ogni episodio (tranne forse qualche pezzo della prima parte) con incredibile classe e crea anche pezzi eccezionali, vedi la ballad per piano e voce "Invisible", meravigliosa e toccante con la sua venatura soul.

Nel 2010, Wake Up The Nation introduce il Modfather nel nuovo decennio e lo fa con un suono impetuoso, identificabile come il più genuino e appassionato rock'n'roll dei nostri tempi. Fin dall'attacco pianistico della muscolosa "Moonshine", è evidente l'intenzione di voler premere sull'acceleratore. Classicismo e modernità si sposano alla perfezione nella successiva title track, quasi una riedizione di "Let's Stick Together", per non parlare della seguente "No Tears To Cry", ripiena di ascendenze soul. L'intero album è un condensato di stili in grado di spaziare dall'omaggio blaxploitation di "Aim High" agli svolazzamenti pianistici di "Pieces Of A Dream", dalla psichedelia strumentale postmoderna di "Whatever Next" al piglio da rocker consumato di "Up The Dosage", tutto adeguatamente condito da una montagna di effetti elettrici ed elettronici. Quando poi il lettore raggiunge "Andromeda", scatta la standing ovation.
Fra i numerosi ospiti accreditati, l'ex-My Bloody Valentine Kevin Shields e il leggendario batterista dei Tornados Clem Cattini. Desta interesse ritrovare nell'energetica "Fast Car, Slow Traffic" il bassista dei Jam, Bruce Foxton, e visto che di tanto in tanto si torna a parlare di una reunion, la cosa non può che lasciar ben sperare. Fa capolino addirittura la figlia del titolare in "Find The Torch, Burn The Plans", un insolito hit da stadio. Delude, invece, la strombazzata "Trees" (dedicata al padre recentemente scomparso): un guazzabuglio poco riuscito di stili e influenze. In ogni caso Wake Up The Nation rappresenta il manifesto dei nostri giorni di un artista vivo e vegeto. Anche se qualche ruga segna ormai il suo viso, l'immortale Cappuccino Kid è ancora in grado di lanciare richiami di risveglio all'intera nazione britannica.

Che il buon vecchio modfather abbia sempre sentito il bisogno di dare sfogo agli ever changing moods è cosa nota. Ciò che invece anche il più fantasioso degli ascoltatori poteva fare a meno di prevedere era un Weller desideroso di mettersi nuovamente in gioco, contaminando quel britpop di cui è ancora oggi tra più illustri sacerdoti con una sbronza mistica per la kosmische musik tedesca che negli anni Settanta aveva rivoluzionato il mondo del rock, come accade in Sonik Kicks 2012). Se da un lato il minuzioso lavoro di produzione rende l'album un piacere estetico nel suo calibrato affastellarsi di elementi conservatori e futuristi, dall'altro la composizione non sempre riesce a  creare l'equilibrio necessario per evitare il rischio d'irriverenza. Difficile, dunque, andare oltre il piacere dello stupore quando il motorik beat di "Green" apre le danze, evocando il fantasma dei Neu! tra effetti speciali fantascientifici che sanno tanto di chirurgia plastica. Il tentativo di attraversare Stanley Road a bordo di un panzer si ripete in una "Dragonfly" (con ospite Graham Coxon alle tastiere) in cui si balla l'Hallo Gallo sventolando la Union Jack, ma risulta difficile comprendere a quale scopo.
Fortunatamente, quando la scrittura di Weller si sposta sui lidi più pop che l'hanno resa grande ci si consola con una "Paperchase" che sa di Magical Mystery Tour e, soprattutto, con il contagioso anthem di "Garden's Overgrown" che si fa strada tra raggi laser e diavolerie barrettiane senza mai perdere la bussola. Sembra poi costruirsi da sé la ballata per acustica e archi "By The Waters", fatta sì di tanto mestiere, ma anche di una classe cristallina; la stessa che permette a un singolo come "Dangerous Age" di scorrere leggero nel suo temerario ridisegnare la Swingin' London in salsa hi-tech. Si può però fare poco per mascherare inquietanti cadute di stile come gli inspiegabili singulti dal retrogusto balcanico su cui si muove a stento "Kling I Klang" o il tentativo di defibrillare un'anima da Cappuccino Kid che sembra fin troppo appassita in "Study In Blue" (in cui compare la voce della nuova moglie di Paul, Hannah Andrews). Per quanto nobile risulti dunque il tentativo di Weller di reinventare il proprio suono, l'album fotografa una fase di transizione in cui la qualità delle canzoni spesso non è tale da dare sufficiente credibilità alla svolta. Emblematica, in questo senso, la conclusiva "Be Happy Children", Motown soul infestato da droni le cui splendide intuizioni melodiche alla fine non riescono a concretizzarsi, portando così il brano a stazionare in un limbo.

Per Saturns Pattern, il lavoro targato 2015, Weller mette sul tavolo un crogiolo di influenze, quasi volesse omaggiare i tanti stili che lo hanno formato, spaziando dal rock al soul, architettando numerose trovate, ma dando la sensazione di essere privo di una direzione precisa. E sì che i giochi erano iniziati neanche male, con l’assalto iper effettato (forse sin troppo) di “White Sky” (che trova più avanti la sorellina meno riuscita in “Phoenix”), poi un pochino ci si perde fra tutto ciò che Weller avrebbe voluto e ciò che realmente è riuscito a realizzare. Prendete “Long Time”: le intenzioni son quelle di dar vita ad un pezzo dal tiro supersonico, ed invece finisce per risultare una canzonetta banalotta.
Poi ci son alcuni episodi ben fatti, ad esempio quando Weller ricama eleganti mid tempo, specialità nella quale sovente eccelle, e partorisce tracce quali “Going My Way” o “These City Streets”, non certo pezzoni da greatest hits, ma gradevoli quanto basta. La title track non lascia il segno, e non va molto meglio con “Pick It Up”, “I’m Where I Should Be” o la più psichedelica “In The Car…”, troppo convenzionali e spente per poter seriamente sbalordire. Saturns Pattern sarà probabilmente ricordato come un album deboluccio, che ha il merito di preservare l’entusiasmo dell’autore ma che rischia di ridurne l’interesse da parte dei fan.

Due anni, e arriva un nuovo album, intitolato A Kind Revolution (2017). Un deciso cambio di rotta, una sorta di big bang dal quale ripartire, in occasione del quarantennale di In The City, il primo disco reralizzato dai Jam. Weller festeggia l'anniversario come solo i fuoriclasse sanno fare: A Kind Revolution contiene splendide canzoni, dove scrittura e mash-up di rock, jazz, soul e funk (da sempre suoi marchi di fabbrica) tornano ad essere quelli dei giorni migliori. Al netto del titolo, i tempi eroici del Red Wedge sono ormai un ricordo lontano, nonostante l'attualità della Brexit, con cloni thatcheriani che avanzano minacciosi, vorrebbe Paul nuovamente sulle barricate. Piuttosto, tra candeline pronte per i 60 che si stagliano all'orizzonte e una tribù di compagne, ex-mogli e figli a cui badare, l’attuale Weller-pensiero è meno incline alla ribellione ed è più un invito ad agire indirizzatro alla società nel suo complesso, stante la mancanza di politici in grado di affrontare i grandi temi sociali. In questi termini, quindi, va inquadrata la rivoluzione molto gentile e poco copernicana che dà il nome all’album.
Si aprono le danze con deciso piglio chitarristico condito di r&b e riff in puro rock'n'roll style di “Woo Se Mama”, anche se poi nelle successive tracce prevale l'anima soul, con groove e ritmi che avevano fatto la fortuna di “Wild Wood”. A metà disco, già quanto ascoltato ne giustifica con sommo gaudio l’acquisto e il voto distinto. C’è ancora spazio per “Satellite Kid”, una sorta di jam-session con le chitarre nuovamente in evidenza, e soprattutto “One Tear”, disco-funk rallentato in duetto con Boy George. Nessuna sorpresa per la collaborazione, il Modfather apprezza la voce calda e sensuale del Boy da tempi non sospetti e non ha mai mancato di tesserne pubblicamente le lodi (a suo dire, una delle poche voci che si salvavano nel panorama musicale reietto dei primi anni 80).
Di certo, il doppio uppercut consecutivo “Wild Wood/Stanley Road” rimane inavvicinabile e per certi versi non più ripetibile, ma questa “rivoluzione gentile” ha tutte le carte in regola per giocarsi il terzo gradino del podio, in una ipotetica competizione discografica, con As Is Now del 2005. Weller è come quel ciclista consapevole che, non potendo più contare sull’esplosività dei giorni migliori, gioca d’astuzia affinando ulteriormente classe ed eleganza. Si torna così a guidare il plotone, dopo aver preso fiato, per la gioia dei sudditi della Regina. E non solo.

Giunto al traguardo dei sessant'anni, il Modfather si toglie lo sfizio di scrivere un lavoro di puro cantautorato, con il piglio da crooner, impreziosito da elementi orchestrali in grado di far librare la propria voce. Per True Meanings Paul Weller apre le porte dei Black Barn Studios ad amici di diverse epoche ed estrazioni, come Rod Argent degli Zombies, Martin Carthy, Lucy RoseDanny Thompson dei Pentagle e persino Noel Gallagher (il cui contributo, nei fatti, consiste soltanto in due brevi cameo). Il risultato è un disco che attinge all'immaginario di cantautori folk-rock quali Nick Drake e Neil Young, portando però in dote l'eleganza di Weller e un songwriting decisamente rilassato e positivo, merito anche della componente orchestrale capace di far emergere quella che è la vera protagonista. A dichiarare gli intenti provvede il funk-jazz di "The Soul Searchers", le cui parole sono state scritte da Conor O'Brien dei Villagers. Chitarre acustiche, archi drammatici, persino il suono nefasto dell'organo Hammond suonato da Rod Argent: viene servita così la colonna sonora perfetta per tutti gli esami di coscienza che si fanno al chiarore della luna. Weller scandisce delicatamente ogni sillaba, come fosse parte di una narrazione o di qualche rito propiziatorio: che siano le immagine pastorali di "Glide", decantate a tono basso appena sopra le chitarre acustiche, l'intro glam-rock di "Mayfly" o le ricche orchestrazioni di "Gravity", poco importa. Un filo rosso c'è, spesso sospeso sui contrasti propri dell'animo umano, come è il caso di "Wishing Well" in cui tanto forte è il richiamo verso il Neil Young acustico nelle strofe, quanto la voce di Weller si fa inaspettamamente risoluta sul ritornello, fomentata dalla presenza del vibrafono nel mezzo del brano.
Per il suo quattordicesimo album solista, Weller ci mette tutto se stesso, contraddizioni incluse: dalla poesia erotica di "Come Along" al misticismo harrisoniano di "Books" (con tanto di sitar di Sheema Mukherjee e la breve apparizione dell'harmonium di Noel Gallagher), fino a quello che è l'opus magnum del disco, l'ambiziosa e drammatica "May Love Travel With You", in cui domina l'elemento classico e orchestrale. Sebbene Weller abbia scritto personalmente la maggior parte del repertorio, i numerosi musicisti ospiti lasciano più di uno zampino evidente, che siano i valzer maliziosi di "Old Castles", le disperate cantilene pop soul di "What Would He Say" e "Movin' On" o il cantautorato puramente british di "Aspects", non a caso scelto come singolo di lancio. Il fantasma più inaspettato è però quello dell'ex-nemico David Bowie, in un brano riflessivo sulla morte e la vita; un pezzo che sembra provenire da tempi e luoghi remoti, e risulta davvero difficile trattenere le lacrime quanto Weller canta: "Do you know there's no journey?/ We're arriving and departing all the time/ You were just mortal like me". Archi e chitarra acustica segnano quella che, di fatto, è la discesa tra i mortali del compianto Major Tom che, alla fine di una lunga faida durata fino agli anni Zero, per sancire la pace chiese scherzosamente a Weller di dargli indietro il suo taglio di capelli. L'album si chiude con il coinvolgimento di Erland Cooper per il testo di "White Horses", che mostra ancora una volta la volontà di Paul Weller di voler ridefinire se stesso attraverso altri punti di vista lontani dalla sua generazione, senza mai tuttavia abbandonare quel linguaggio provocatorio che lo ha sempre contraddistinto. Si tratta di una conclusione perfetta, merito soprattutto del mellotron di Rod Argent capace di inserirsi con gentilezza tra gli archi, gli arpeggi della chitarra e i rintocchi del glockenspiel.
Non sarà l'album più rappresentativo della sua carriera, ma di certo risulta il più intimo e personale, perfetto negli arrangiamenti e nelle scelte di produzione.

Rimandato un paio di volte durante la fase di emergenza da Covid-19, e di conseguenza spostato di una anno il tour promozionale previsto a supporto (con date previste anche lungo la nostra penisola), la prima settimana di luglio 2020 si è concretizzato On Sunset. Un disco dalle molteplici influenze, un caleidoscopio stilistico per alcuni tratti avvicinabile a “22 Dreams”. On Sunset si apre fra le infinite rifrazioni di “Mirror Ball”, bano architettato con diverse sezioni che si intersecano di continuo, come fossero tre o quattro canzoni sintetizzate in una soltanto, e si chiude con Weller che azzecca l’ennesima ballad densa di enfasi, “Rockets”, che rinnova la tradizione di evergreen quali “Wild Wood” e “You Do Something To Me”, arricchita nel finale dai preziosi movimenti dell’orchestra. Orchestrazioni che ritornano non di rado nel corso del disco, probabili influenze del lavoro svolto per il precedente “True Meanings”.
Nel mezzo, siamo onesti, non tutto si posiziona all’altezza del monumentale passato del musicista inglese. Ma, nonostante un paio di riempitivi verso il finale, l’approccio quasi vaudeville buttato un pochino lì di “Equanimity” (con il violino di Jim Lea degli Slade) e il comunque piacevole soulful déjà -vu di “Baptiste”, è parecchio il materiale che qualifica On Sunset come album di pregevole fattura. Svetta in particolare il sublime “pop” della sequenza “Old Father Tyme” - “Village” – “More”, quest’ultima un lounge- jazz-rock impreziosita da francesismi che ci riportano all’epoca d’oro dei primi Style Council, grazie al contributo vocale di Julie Gros (Le Superhomard). Fra i credits dell'album si scorge anche il nome di Mick Talbot all’organo Hammond. Nella versione deluxe sono incluse lo strumentale psych-funk “4th Dimension”, le trascurabili “Ploughman” e “I’ll Think Of Something”, un mix orchestrale di “On Sunset” e la versione senza parti vocali di “Baptiste”. Mischiando vecchio e nuovo, soul e art-pop, tramonti e chitarre, psichedelia e archi, Weller ci consegna così un’altra prova che immortala un talento immutato: quindici album e 62 anni “suonati” (e portati) sempre con inalterata eleganza.

Passano appena dieci mesi, e a maggio del 2021 Weller pubblica un nuovo disco di pop colorato e multiforme. Concepito durante la complicata fase di lockdown, occupando il tempo rimasto libero a causa dello spostamento delle date del tour europeo, Fat Pop è stato prima abbozzato a distanza dai musicisti coinvolti, poi completato negli studi di proprietà, nel Surrey, non appena le condizioni hanno reso possibile ritrovarsi di nuovo tutti assieme. Come a voler esorcizzare la drammaticità del momento, Weller questa volta si concentra su canzoni accessibili e immediate, con un approccio quasi “punk” alla materia pop, visto il minutaggio contenuto delle singole tracce. L’iniziale “Cosmic Fringes” sembra persino interrotta anzitempo per lasciar spazio alla successiva “True”, a dimostrazione della volontà di mostrare una rinnovata energia, contrassegnata dall’immutabile eleganza.
Le tracce più movimentate aggiungono comunque poco alla sua vastissima e prestigiosa discografia; sono in particolare i momenti più delicati a mostrare la classe sopraffina dell’autore: “Glad Times” e “In Better Times” si pongono in continuità con il raffinato songwriting definito dalle immortali "Wild Wood” e “You Do Something To Me”. La conclusiva “Still Glides The Stream” richiama invece la grandeur già ben sperimentata tre anni prima in “True Meanings”, costruita grazie all’inclusione degli archi nell’arrangiamento. L’indicazione della dicitura “Volume 1” lascia presagire l’arrivo di ulteriore nuovo materiale.

Nel 2021 viene pubblicato anche il disco dal vivo An Orchestrated Songbook, il resoconto di un live celebrativo tenuto il 15 maggio del 2021 nel teatro londinese Barbican Centre. Ad accompagnare la voce di Weller c’è la BBC Symphony Orchestra diretta da Jules Buckley. Lasciati per una volta da parte i brani più energetici, la leggenda di Woking tira a lucido alcuni dei momenti più introspettivi della sua multiforme discografia. L’orizzonte temporale prescelto è il più ampio possibile: da “English Rose” e “Carnation”, recuperate dal repertorio dei Jam, fino a “Glad Times” e “Still Glides The Stream”, contenute nel lavoro targato 2021, “Fat Pop”.
Tanti gli immancabili evergreen, ma Weller si dimostra orgoglioso anche delle sue produzioni più recenti, “On Sunset” (ottimo il recupero di “Rockets”, bello il sassofono notturno nella title track) e “True Meanings”, che ben si presta, visto che era stato realizzato con decisi interventi orchestrali. Non mancano appassionati ricordi epoca Style Council (“My Ever Changing Moods”, l’inattesa “It’s A Very Deep Sea”), e l’inevitabile sguardo alle eccellenze del primo periodo solista (“You Do Something To Me”). Tre gli ospiti, che poco aggiungono alla straordinarietà di canzoni che anche senza particolari maquillage continuano a splendere di luminosa bellezza: Boy George in “You’re The Best Thing”, James Morrison in “Broken Stones” e Celeste – suo il contributo più interessante - in “Wild Wood”.

Verso le fine del 2022 Weller confeziona Will Of The People, raccolta di b-side, singoli estemporanei ed alternative take che setaccia il periodo 2002-2021. Nel box set, composto da tre dischi per complessive 31 tracce, spiccano l’energia di “Big Brass Buttons”, “Alone” e “Rip The Pages Up”, l’afrobeat supportato dai fiati di “Mother Ethiopia” (incisa insieme agli Stone Foundation), lo slancio jazzy di “Golden Leaves”, le ambiziose orchestrazioni di “Serafina”, le sane schitarrate elettriche di “Portal To The Past".
C’è spazio anche per il demo di “Let Me In”, canzone poi incisa dal giovane cantautore britannico Olly Murs, e per le cover di “Birthday”, l’evergreen dei Beatles, e “How Sweet It Is”, superclassico soul portato al successo da Marvin Gaye nel 1964 e già riproposto da James Taylor nel 1975. Incluse alcune versioni remix, fra le quali meritano segnalazione le derive noise-psych che emergono dal lavoro eseguito da Richard Fearless in “Super Lekker Stone”, e l’intervento dei Pet Shop Boys, perfetti nel confezionare il lungo eighties trip di “Cosmic Fringes”.

A quasi mezzo secolo dalla nascita dei Jam, Weller può vantare un percorso artistico qualitativamente importante, oltre che prolifico, e rivendicare una sorta di "autorità morale" su interi stuoli di popstar del nuovo millennio. Pur non privo di incertezze e di fasi fuori fuoco, il suo songwriting ibrido ha costituito uno dei traguardi della musica pop britannica degli ultimi cinque decenni. Uno degli artisti che meglio riesce oggi a rappresentare un certo modello di inglesitudine sempre più in via di estinzione.


Contributi di Gianni Candellari ("22 Dreams"), Andrea D'Addato ("Sonik Kicks"), Mauro Caproni ("A Kind Revolution"), Valeria Ferro ("True Meanings")

Paul Weller - Jam - Style Council

Discografia

THE JAM

In The City (Polydor, 1977)

This Is Modern World (Polydor, 1977)

All Mod Cons (Polydor, 1978)

Setting Sons (Polydor, 1979)

Sound Affects (Polydor, 1980)

Beat Surrender (Ep, Polydor, 1981)

The Gift (Polydor, 1981)

Dig The New Breed (live, Polydor, 1982)

Snap!/Compact Snap! (antologia, Polydor, 1983)

Extras (antologia, Polydor, 1992)

Direction, Reaction, Creation (cofanetto, Polydor, 1997)


THE STYLE COUNCIL

Introducing The Style Council (Ep, Polydor, 1983)

Café Bleu (Polydor, 1984)

Our Favourite Shop (Polydor, 1985)

Home And Abroad (live, Polydor, 1986)

The Cost Of Loving (Polydor, 1987)

Confessions Of A Pop Group (Polydor, 1988)

The Singular Adventures Of The Style Council (antologia, Polydor, 1989)

Here's Some That Got Away (b-sides, Polydor, 1993)

In Concert (live, Polydor, 1998)

The Complete Adventures Of The Style Council (cofanetto, Polydor, 1998)

Long Hot Summers: The Story Of The Style Council(antologia, Polydor, 2020)

PAUL WELLER

Paul Weller (Go Discs/London, 1992)

Wild Wood (Go Discs/London, 1994)

Live Wood (live, Go Discs/London, 1994)

Stanley Road (Go Discs/London, 1995)

Heavy Soul (Go Discs/London, 1997)

Modern Classics: The Greatest Hits (antologia, Universal, 1998)

Heliocentric (Island, 2000)

Days Of Speed (Independiente, 2001)

Illumination (Independiente, 2003)

Studio 150 (V2, 2004)

As Is Now (Yep Roc, 2005)

Catch - Flame! (live, V2, 2006)
Hit Parade (antologia/box set, Universal, 2006)
22 Dreams (Universal, 2008)
Wake Up The Nation (Island, 2010)
Sonik Kicks (Island, 2012)
Saturns Pattern (Parlophone, 2015)
A Kind Revolution(Parlophone, 2017)
True Meanings(Parlophone, 2018)
Other Aspects (live at the Royal Festival Hall, 2019)
On Sunset (Polydor, 2020)
Fat Pop (Polydor, 2021)
An Orchestrated Songbook (live, Polydor, 2021)
Will Of The People (outtakes & rarities, Universal, 2022)
Pietra miliare
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