L'era del britpop è stata una fase di fermento mediatico quasi quanto musicale, con l'Inghilterra di nuovo protagonista di un'invasione di band più o meno accostabili musicalmente, destinate a spopolare, scalare le classifiche e scambiarsi battute e offese che rimbalzavano da un tabloid all'altro. Tra tutto ciò, purtroppo ci si dimentica spesso della musica e della quantità di band rilevanti (e spesso relegate all'underground o dimenticate alla svelta) associate al movimento britpop; gruppi che oltre a qualche faccia da copertina e qualche sparata ad effetto, spesso offrivano grandi canzoni e dischi.
L'esempio più eclatante? I Blur, ovvero la band più camaleontica della scena. In anticipo sul genere quando ancora non esisteva, furono tra i primi a portarlo alla ribalta con un suono che incrociava il post-punk dei Fall con la freschezza pop dei Kinks e con il punk dei Clash, concedendosi saltuarie escursioni negli anni Sessanta più barocchi e nei Settanta più glam (con buona pace di chi li vede ancora come i fratellini litigiosi degli Oasis, band con cui non hanno quasi nulla in comune dal punto di vista musicale). Cosa non da poco, furono i primi ad abbandonare i suoni del britpop al momento del suo apice, riuscendo a bilanciare un enorme successo con una qualità musicale quasi sempre elevata. Per capire da dove sbucavano questi quattro ragazzi occorre però fare un passo indietro e tornare nella Manchester di fine 80, quando il cosiddetto madchester sound è nato ed è dilagato.
L'avvento degli Stone Roses segnò un nuovo corso per la musica inglese e l'aftershock dei singoli "Sally Cinnamon" e "Fools Gold" e dell'album omonimo fu così intenso da indurre una rivoluzione irreversibile: il ritmo ballabile era diventato parte integrante del pop chitarristico, l'energia della loro musica dai colori sgargianti aveva ravvivato il grigio metropolitano del post-punk, mentre la chitarra elettrica tornava a essere lo strumento principe tra le nuove leve. Questo grazie al carisma del cantante Ian Brown e del guitar hero John Squire, importanti quanto la musica da loro registrata, che di fatto fornì un prototipo su cui innumerevoli band svilupparono un'infinità di variazioni. Una rivoluzione che si diffuse (e poi si spense, lasciando però segni indelebili) in un baleno, al punto che già nel 1988 cominciavano a nascere in tutta l'Inghilterra - non solo a Manchester - gruppi che portavano avanti il discorso degli Stone Roses.
Negli ultimi giorni di quell'anno quattro studenti universitari poco più che ventenni (Damon Albarn alla voce, Graham Coxon alla chitarra, Dave Rowentree alla batteria e Alex James al basso) formarono a Londra i Seymour, che in breve ottennero un contratto con la Food Records, che li spinse a cambiare nome in Blur. Un breve tour con i Cramps e il rilascio di due singoli conferirono al gruppo una discreta fama underground.
È quasi impossibile riconoscere i quattro nelle foto e nei videoclip dell'epoca, in cui sfoggiavano tagli a caschetto alla Inspiral Carpets, e abiti oversize perfettamente allineati alla moda baggy; del resto imitare movenze e pettinature di Ian Brown e soci era la norma, in quel contesto.
Solo nel 1991 esce Leisure, un album acerbo ma che sfoggia uno dei suoni più particolari della scena baggy, suonando come il canto del cigno di quella stagione musicale ormai in fin di vita. I Blur facevano parte della seconda ondata del madchester sound, quella di band come Flowered Up, Airhead e Real People, che ne acquisirono il suono pur essendo distanti da Manchester e proprio per questo ne diedero una lettura personale; i loro pezzi ad oggi suonano proto-britpop in tutto e per tutto.
Le colonne portanti del disco sono la sinuosa sezione ritmica, il cantato narcotizzato di Albarn e la distorsione roboante di Coxon, che incendiava i legni della sua Les Paul (solo poi imbraccerà la Fender Telecaster che renderà caratteristico e peculiare il suo sound). Un riff sghembo e traballante sorregge "She's So High", almeno fino al ritornello ripetuto a oltranza da un Albarn più inebetito che mai; "Bang" suona come gli Stone Roses sotto steroidi, mentre la violentissima "Slow Down" è un elettro-shock chitarristico.
Le idee più geniali arrivano dalle canzoni più coraggiose, come la litania drogata "Sing" (non a caso scelta per la colonna sonora del film "Trainspotting"), o "Repetition", che come da titolo reitera un riff che sembra incepparsi e ripartire da capo, il tutto su una base ritmica dub. Il capolavoro però è "There's No Other Way", un ponte ideale tra i ritmi del dance-rock e l'hard-rock.
Se il disco comprendesse solo questi pezzi sarebbe un classico, una pietra miliare al crocevia tra madchester, pop e shoegaze; così com'è suona compatto ma alquanto ripetitivo e monocorde. Nello stesso anno la band di Sheffield The Dylans suonerà una miscela simile di generi, ma con una freschezza melodica più marcata, nel loro sottovalutato debutto omonimo.
Vista l'accoglienza tiepida ricevuta dall'esordio, i Blur decidono di rifarsi il trucco col singolo "Popscene", rilasciato prima di un lungo tour americano.
Raddoppia la velocità, triplicano i volumi e si fanno sempre più sentire i richiami al passato remoto (e non solo prossimo) del pop britannico, accompagnati dalla giusta quantità di pause repentine e di sfuriate di chitarra. Dal tour che ne seguirà, la band si riprenderà con immensa fatica e già da questo momento cominceranno a nascere i primi attriti tra i quattro componenti.
Al ritorno da quel tour, la band vive una situazione in fermento: l'Inghilterra sta subendo l'impatto della rivoluzione del nascente britpop, fomentato dallo strabiliante debutto degli Suede e da singoli seminali come "Drowners" e "Animal Nitrate", che avevano fatto terra bruciata dell'ormai stantio scenario dance-rock.
Con Anderson e soci da un lato e il grunge dei Nirvana dall'altro non restava per i Blur che progredire sulla via di "Popscene", dire addio ai suoni narcotizzanti, tagliarsi il caschetto e riscoprire la propria englishness. I Blur come li conosciamo tutti iniziano qui: un cantante belloccio, un chitarrista timido e alquanto intellettualoide (un po' Woody Allen e un po' Elvis Costello), un bassista con un ciuffo inverosimile e un batterista coi capelli rossi: abbastanza ordinari da sembrare ragazzi come tanti, ma con un appeal e una personalità sufficienti a farne una band carismatica. La strada del nuovo corso è dura, viene addirittura scomodato Andy Partridge per produrre il nuovo album, ma ne risulta un buco nell'acqua, finché i lavori non riprendonoo e grazie al singolo "For Tomorrow" la fatica dei quattro riesce a strappare un discreto successo commerciale.
Modern Life Is Rubbish è il primo album britpop dei Blur (e uno dei primissimi del genere), un album di guitar pop aggressivo, scoppiettante e cangiante, alimentato da una sensibilità melodica e psichedelica che sfocia in una manciata di pezzi da annoverare tra i migliori del loro canzoniere. Gli archi che schizzano in tutte le direzioni in "For Tomorrow", l'irruenza elettrica di "Advert" (sembrano dei Buzzcocks più concitati), il ritornello a scoppio di "Colin Zeal" che sembra venire dallo spazio, passando per il power-pop agrodolce di "Star Shaped"; una sequenza perfetta di canzoni melodiche e pungenti.
Lievemente sottotono la seconda facciata, bagnata di psichedelia (il folk lisergico di "Miss America", lo shoegaze di "Oily Water") e risollevata da quella manciata di ottimi ritornelli che i Blur hanno sempre saputo scrivere. Un album non perfetto, quindi, ma una gran dimostrazione di eclettismo e classe, che pianta i semi da cui germoglieranno i capolavori futuri. Con un po' di fantasia si può affermare se gli Xtc di "Black Sea", se fossero stati una band degli anni Novanta, avrebbero scritto qualcosa di simile a quest'album. Anche la risposta del pubblico si fa sentire, i Blur stanno preparando il terreno per il botto del successivo disco, che li avrebbe resi una delle pop-band più famose del decennio.
Ma chi si sarebbe aspettato un salto di qualità così grande con il successivo Parklife? I Blur raggiungono una maturità compositiva invidiabile, arricchendo la formula del precedente album con una miniera di nuovi arrangiamenti e trovate geniali, spiazzanti e ironiche. Ormai idolatrati da pubblico e critica, i quattro si scavano un posto come acuti osservatori della realtà sociale britannica di metà anni Novanta: se gli Oasis erano i paladini della working class del nord, Albarn si presentava come un critico di vizi e stili di vita della borghesia, colto sì, ma popular quanto basta per non suonare fastidioso. Sempre distaccato e cinico, preferisce parlare per bocca delle sue maschere (il turista sessuale, l'adolescente sfigato e brufoloso, il borghese che impazzisce per la monotonia che il suo tenore di vita comporta...), dando un ritratto caricaturale - ma mai negativo e sprezzante - di ciò che gli sta intorno.
Parlando di musica, questa vena ironica si tramuta in una raffica di canzoni imperdibili. "Girls & Boys", singolo di lancio sulla scia degli Human League più ballabili, è uno di quei pezzi che da soli basterebbero a rendere grande una band da scantinato. Apparentemente semplice, poggia in realtà su una costruzione geniale: la chitarra, seguendo la linea melodica di un synth giocattoloso dal suono Eighties, suona un riff ripetitivo che arrivato a metà si riavvolge, come risucchiato da un gorgo di flanger, per poi chiudere il giro di accordi. Non da meno il basso gommosissimo in odore di disco-music, che rimbalza tra i versi della filastrocca di Albarn. E dopo la prima hit viene una sequenza strabiliante di classici, prima tra tutte "Tracy Jacks", che tra controcanti e siparietti con archi e marcette, riscrive la storia del pop inglese partendo da Beatles e Kinks, senza dimenticare di essere nel bel mezzo degli anni Novanta. È proprio qui che entra in gioco Coxon, che porta alla maturazione il suo suono fatto di cascate di note gonfiate di overdrive che rimpinguano gli accordi, creando così l'impalcatura delle canzoni; trent'anni di musica rock (dal power-pop alla new wave, dallo shoegaze al punk) rimasticati e risputati per creare uno dei trademark più riconoscibili dei 90. Ai suoi minuziosi fraseggi di chitarra si aggiungono i suoi arrangiamenti di fiati, che colorano le melodie tutt'altro che scontate di Albarn (che a sua volta suona una moltitudine di strumenti a tastiera).
Si parlava di Kinks: la title track li prende e li rivolta come un calzino, accompagnando un divertente recitato in un fortissimo accento cockney (da parte dell'attore Phil Daniels) con un riff killer che si ripete all'infinito, fino al ritornello in cui i coretti e la chitarra solista rimandano nuovamente alla band di Ray Davies; il risultato è una specie di The Fall in salsa pop anni 60. "End Of A Century" è uno dei massimi manifesti di quel mood annoiato dei primi anni Novanta, una ballata elettro-acustica con una melodia strappacuore ma coraggiosa nella scelta di accordi e arrangiamenti, come il solo di tromba che la conclude. Splendide le rivisitazioni degli anni Sessanta, con "To The End" che pennella un lounge pop di classe e l'intermezzo "Far Out", una filastrocca psichedelica sulle stelle cantata da Alex James, noto fanatico dei viaggi spaziali, al punto che finanziò il progetto della sonda inglese Beagle 2!
Sembra quasi che i Blur si fossero imposti lo scopo di rendere ogni canzone diversa dalla precedente, abbiamo quindi la fanfara dello strumentale "The Debt Collector", l'ironica "London Loves", con riff sincopato, coretti dementi e giro di basso sintetizzato, il glam fracassone alla Slade e T Rex di "Jubilee" e il rock robotico di "Trouble at the Message Center", con voce androide e muri di chitarre in un crescendo micidiale. Tutto così perfetto, efficace e ironico; solo la ballata "This Is a Low" si prende un po' sul serio, ma ha dalla sua un bellissimo arrangiamento per chitarra acustica. Il capolavoro per chi scrive è la ballata bucolica "Clover Over Dover", forse il pezzo meno appariscente, ma come non sciogliersi davanti a quel clavicembalo così delicato e quel ritornello dolcissimo?
Parklife è un disco senza tempo ma che sembra cogliere perfettamente l'essenza di certi anni Novanta e a lanciare i Blur definitivamente nello stardom musicale. Coxon comincia a essere incensato per le sue doti di chitarrista, Albarn si impone come genio ribelle del pop e sex-symbol (parla chiaro il video di "Boys And Girls"), Alex James finisce invece risucchiato in uno stile di vita fatto di eccessi. Delle icone anni Novanta quindi, che in men che non si dica si ritrovarono in giro per i palchi di tutto il mondo, con l'effetto principale di diventare veri oggetti di culto del rock britannico, e quello collaterale di diventare materia prima per le solite battaglie tra band architettate dai tabloid inglesi. I rivali di turno non sono più gli Suede (con loro la rivalità era effettiva invece, anche a causa di questioni sentimentali), ma gli Oasis, con cui si arrivò a livelli di isteria collettiva, oltrepassando spesso il limite del buon gusto (la battle of britpop e la scalata alle classifiche, i Blur ubriachi che provocano gli Oasis dal palco degli Nme Awards, Noel Gallagher che augura l'Aids ad Albarn salvo poi scusarsi pubblicamente...).
The Great Escape esce l'anno dopo, in piena corsa alla corona del britpop (vinta dal punto di vista commerciale dai rivali Oasis, il cui "What's The Story Morning Glory" venderà 10 milioni di copie contro i 2 del disco dei Blur), ma non graffia quanto il precedente lavoro, verso cui palesa un forte complesso di inferiorità. La musica è per lo più la stessa, un robusto pop chitarristico farcito di arrangiamenti molto vari e ariosi, questa volta ancora più pieni ed eterogenei, al punto da esagerare in più di un'occasione con abuso di cori, strumenti orchestrali e varietà di generi (si passa dalla psichedelia allo ska). Il disco è infatti frutto quasi solo della mente di Albarn, con un Coxon assolutamente secondario, che si limita a suonare le canzoni concepite dal gregario, con tutti i pregi e i difetti del caso.
L'eclettismo straripante del leader fa infatti la parte del leone, visto che i pezzi - meno brillanti rispetto a quelli di Parklife - giocano più sulle variazioni di suono e arrangiamenti, soddisfacendo solo nel caso dei singoli e offrendo fin troppo mestiere altrove. Di fronte ai singoli, tuttavia, c'è solo da inchinarsi: "Charmless Man" è da manuale del pop, una canzone melodica ma energica, contornata di minuziose piroette di chitarra, piano vivace, falsetti e di quella pungente satira sociale all'inglese: pura materia Blur portata ai massimi livelli. "Stereotypes" è un susseguirsi di sciabolate elettriche, cori aggressivi e colate di Hammond, un capolavoro degno dei primi Xtc. "Country House", cambia registro, sguinzagliando un folk elettro-acustico ravvivato da una fanfara (curiosità: il singolo fu rilasciato lo stesso giorno di "Roll With It" degli Oasis e ne superò le vendite di poche migliaia). Il vero capolavoro tuttavia è "The Universal", un brano orchestrale dalle tinte sixties diviso tra una strofa saltellante e un wall of sound di archi nel ritornello. L'atmosfera sembra ondeggiare tra una malinconia paradisiaca e uno straniamento surreale, entrambi dati dall'alternarsi di impennate epiche e tonalità minori nel refrain e da quello zampettare di violini e tromba nella strofa, sfondo non banale per un testo distopico e ingannevolmente ottimista.
Il resto viaggia su livelli accettabili, ma era lecito aspettarsi di più, poiché a fronte di arrangiamenti smodatamente fantasiosi, ci sono ben poche melodie memorabili. Abbiamo il pop strampalato di "Dan Abnormal" (il titolo è "Damon Albarn" anagrammato: che l'anormale del testo sia proprio il cantante?), il punk sparato a mille di "Globe Away", l'indefinibile demenzialità di "Fade Away" e la ballata lisergica "He Thought Of Cars", ma di un riff assassino quanto quello di "Parklife" manco l'ombra.
The Great Escape riceve un'accoglienza per nulla entusiastica (lo stesso Albarn lo rinnegherà), e così gli Oasis sostituiscono i Blur nel ruolo di beniamini della stampa inglese, a causa del successo enorme ottenuto dal loro "What's The Story? Morning Glory", mentre l'immagine dei Blur viene sempre più associata alla pomposità, alla finzione e a un certo intellettualismo borghese, in buona parte anche per i loro testi cinici e disillusi, concentrati su storie di vite problematiche.
Non che il gruppo se la passasse bene, con Coxon isolato e precipitato nella spirale dell'alcolismo, Rowentree cocainomane e James allo sbando tra festini, donne e droghe; le voci su un possibile scioglimento sembrano più che mai fondate. Si prospetta un tramonto come nel caso degli Stone Roses, che dopo aver fatto i soldi si sono praticamente suicidati, tra stroncature della stampa e liti interne. Invece no: è il 1996, il britpop sta per partorire il suo secondo apice commerciale ("Urban Hymns" dei Verve, secondo in quanto a vendite solo a "Morning Glory") ma i Blur optano per una scelta coraggiosa: cambiare genere.
L'immagine british e cool che si era creata e che non riusciva più a scrollarsi ha lentamente eroso la spinta creativa della band, che decide così di isolarsi dalla scena britpop e avvicinarsi a certe sonorità underground sia inglesi che americane (il lo-fi rock, passione di Coxon, e la ripresa di certi stilemi kraut, parallela all'operazione del post-rock britannico). Il cambiamento porta nuova linfa nella musica del gruppo, che di fatto porta a compimento una vera e propria metamorfosi.
Il successivo Blur è una sorpresa per tutti, una vera ventata di novità che trascina il rock alternativo del tempo nella classifica inglese (il disco è numero 1 in classifica per una settimana, lo scalzerà il concept-album sci-fi dei Mansun, "Attack Of The Grey Lantern").
Arido, cattivo e sporchissimo, fangoso a tratti, il sound del disco aveva poco a che spartire con le sonorità scintillanti del britpop e molto in comune con l'indie-rock americano (anche i britannicissimi Auteurs in quel periodo si avvicinavano all'America, facendosi produrre da Steve Albini), a partire dall'uso del basso distorto e di una chitarra mai così ruvida. Il vero prodigio del disco, tuttavia, non sta solo nella produzione, ma soprattutto nella varietà incredibile di soluzioni implementate: Blur è troppo violento per essere pop, troppo pop per essere post-rock, troppo curato per essere lo-fi in senso stretto, troppo ruffiano per essere noise; eppure riesce a essere tutte queste cose assieme, magari all'interno del medesimo pezzo.
I primi a sottolineare la loro svolta sono i Blur stessi, che scelgono come singolo di lancio il pop sbilenco alla Pavement di "Beetlebum", una ballata sulla droga; anche il video cambia del tutto registro rispetto ai precedenti, flirtando con un look più casual e meno appariscente. La successiva "Song 2" era destinata a diventare uno dei loro classici, e difatti è ancora oggi ricordata come una delle massime hit del college-rock anni Novanta. Difficile non muoversi a tempo di quel ritmo pesantissimo di batteria e del riff di chitarra agile e appiccicosissimo, per non parlare dell'esplosione del ritornello, col basso che detona carico di overdrive e Albarn che sottolinea i versi con un ormai leggendario "whoo-hoo!". "On Your Own" è la terza hit, un folk sconquassato da gettate di distorsioni pesantissime, un ritmo quasi hip-hop e sprazzi di elettronica, ma tutto architettato in modo da sottolineare e non sovrastare un ritornello catchy che implora di essere cantato a squarciagola.
Il resto dell'album si muove lungo direzioni meno commerciali e più sperimentali, evidenziando anche il cambio di equilibri all'interno del gruppo: i pezzi sono infatti firmati da tutti e quattro i membri e la presenza di Albarn in fase di scrittura viene attenuata dagli altri tre membri. Ne risentono capolavori di creatività come "Theme For Retro", jam per lo più strumentale con voci deformate che echeggiano, campionamenti, lunghi feedback di chitarra e un flusso di radiazioni di organo che rende la traccia ancora più straniante e psichedelica. La stessa materia viene ingabbiata in una canzone eccelsa in "Death Of A Party", in cui la stratificazione abnorme di suoni saturi concorre con la linea vocale e con un riff circolare a ricostruire perfettamente quella sensazione frustrante di abbandono e solitudine.
Altri colpi di genio: "I'm Just A Killer For Your Love", con quintali di suoni stridenti e distorsioni, ma alla fine quello che resta è un folk un po' sballato e un po' rilassante, dalle parti delle prime cose della Beta Band. "Look Inside America", ballata acustica decorata con archi ariosi; assolutamente spiazzanti il ritornello elettrico e le giravolte di arpa nel bridge. "Movin' On", il risultato definitivo nella ricerca dei Blur di scrivere una canzone punk, tanto aggressiva (feedback, voce filtrata, un assolo lancinante di Moog) quando melodica (i backing vocals, finalmente leggeri e mai invasivi quanto nell'album precedente). "M.O.R." è l'ennesimo singolo-spettacolo: accelera il Bowie berlinese fino a velocità supersoniche, scardinandolo con continue scosse sismiche tra ogni ritornello e la strofa successiva.
Un album maturo che sebbene sia coloratissimo ed eterogeneo al punto da riuscire a saltare continuamente di palo in frasca in ogni pezzo, lascia il segno soprattutto per i pezzi più cupi e grigi, come la ballata lo-fi "You're So Great", cantata dalla voce fragile di Coxon (che da solista costruirà un'intera carriera su pezzi come questo), dando un'interpretazione vocale timida e adeguata a una canzone d'amore uggiosa e autunnale. Non bastasse quella, in chiusura c'è "Essex Dogs", ovvero il post-rock secondo i Blur. Il brano si sviluppa come un enorme monstrum che mescola ripetitività kraut, improvvisazioni al basso, chitarra solista iper-distorta e ritmica sinistra, con tanto di sottofondo a base di synth vintage che emettono fischi che sembrano uscire da vecchi film sugli Ufo, giusto per rendere il clima ancora più surreale e inspiegabile. Il testo recitato fornisce immagini di un paesaggio urbano degradato e malato, ma tutto è visto attraverso la lente distorta di un uomo in preda alle allucinazioni, chissà cosa è vero e cosa è frutto della fantasia. Rimane immortalata la noia della metropoli, la ripetitività della vita di tutti i giorni e la fuga dalla realtà: i Fall più monocordi superati a destra e portati alle estreme conseguenze. Saranno i Radiohead a passare alla storia come il gruppo che ha reso il britpop un genere sperimentale e importando influenze kraut, ma questo brano coraggiosissimo non è forse di tre anni prima del loro "KidA"?
Ai tempi di The Great Escape si disse che i Blur avevano vinto la battaglia contro gli Oasis ma perso la guerra (poiché il singolo vendette bene, l'album no); questo disco è la prova del contrario: sul momento la stampa britannica è dalla parte degli Oasis, ma è proprio grazie alla svolta sperimentale che i Blur godono tuttora della dovuta riverenza, attirando i riflettori anche dagli Stati Uniti e le simpatie di molti che fino al 1997 non li avevano considerati, mentre oggi i Gallagher sono ricordati un po' da tutti come dei rocker che di maturare non ne vogliono sapere.
Cosa aspettarsi come seguito? Logico, un album ancora più spiazzante, destrutturato e rumoroso. 13 esce nel 1999, presentandosi sin dalla copertina come un lavoro più ruvido e grezzo (un dipinto di Coxon raffigurante un uomo seminudo sostituisce le copertine patinate a cui ci avevano abituati) che continua il discorso dei brani più cacofonici e psichedelici dell'album omonimo. Stavolta, però, le cose vanno male e tutto suona fastidiosamente forzato, fuori fuoco e gratuito, come se il quartetto volesse ribadire e sbandierare la propria anticommercialità e il proprio anticonformismo rispetto alle altre band britpop di successo.
È una miniera di aria fritta invece, pretenziosa sin dai primi istanti, con il folk di "Tender" (fuori luogo i cori gospel nel refrain) che insiste con la nuova tendenza del gruppo ad allungare e destrutturare i brani, anziché comporli a dovere. Il resto è un pasticcio di kraut, lo-fi e psichedelia: "Swamp Song" è un blues sfigurato e cantato malissimo, "B.L.U.R.E.M.I." un pastrocchio di chitarre roboanti, vocine demenziali ed effetti buffi e indigesti. "Battle" unisce dub e noise-rock, come una sorta di trip-hop in versione rock, ma a parte alcune oasi melodiche e malinconiche, finisce per stancare (come altri pezzi del disco, la sua durata supera i sette minuti).
Del nuovo corso si salva solamente "Bugman", che sotto la cortina di cacofonia offre un riff azzeccato e un beat epidermico, mentre l'unico richiamo al passato - e unico capolavoro del disco - è il singolo "Coffee & Tv", ballata pop firmata da Coxon. Il clima è sempre nostalgico e malinconico, ma ciò che la rende diversa dalla solita ballata sono il favoloso giro di basso e le tessiture di organo; meraviglioso e malinconico anche il videoclip, ormai leggendario, del cartone del latte che si avventura in città alla ricerca di Coxon scomparso.
Dopo un disco simile, i Blur rimangono in standby per quattro anni, allontanandosi tra loro (complici i problemi con l'alcol di Coxon, culminati con la sua uscita dal gruppo nel 2002, dovuta anche a divergenze artistiche) e dedicandosi nel frattempo alle proprie carriere soliste.
Nel 2000 The Best Of Blur raccoglie i singoli del periodo Coxon, aggiungendo una sorprendente "Music Is My Radar", pezzo estremamente sperimentale che frulla Can, electro-pop e scale giapponesi.
Think Tank, del 2003, si allontana ulteriormente dallo "stile Blur", anche a causa dell'abbandono del chitarrista. Il colpo di grazia lo danno le comparsate in cabina di regia di Norman Cook aka Fatboy Slim e William Orbit, che si alternano al produttore Ben Hiller nell'assecondare il talento anarchico della band, o più che altro del suo leader.
Si tratta di un album volontariamente altalenante, se non per qualità almeno come gamma stilistica. Appropriatosi del timone, Albarn trascina produttori e compagni rimasti in un tour senza meta precisa attraverso le sue ultime fissazioni, musicali e non. Il Sahel africano, il punk riottoso dei Clash, il gospel, il dub, l'estetica collagistica e dimessa della street art.
Il singolo di lancio è "Out Of Time", sospeso tra musica subsahariana e disillusione placida à-la Radiohead. "Ambulance", finto gospel soffocato dai poliritmi elettronici, col suo incedere scorato pare una lettura 100% London del Bowie berlinese. Altri brani rievocano il gusto sperimentale del Duca Bianco, se non a livello vocale, nella costruzione e nel trattamento del suono. "Brothers And Sisters" di nuovo incorpora elementi gospel (e blues) per inscenare una filastrocca malmostosa che passa in rassegna ogni tipo di droga e suo uso sociale. Come la quasi totalità dei pezzi, però, svetta anche per l'equalizzazione sbilenca: basso in primo piano, vigoroso e circolare, e sintetizzatori sfacciatamente kitsch a sovrastare le tessiture ritmico/vocali.
Orfani del chitarrista, i tre Blur superstiti fanno di necessità virtù e affinano la conoscenza delle tecniche di studio e di sampling. La simil-ballata "Caravan" riscopre la passione per gracchiamenti lo-fi. Ma al suo loop di chitarra acustica mal registrata si aggiunge, uno strumento alla volta, un'orchestrinad'altri tempi. Ne risulta un acquerello mogio, slavato, ma comunque risollevato da un po' di luce tiepida, nel ritornello.
"We've Got A File On You" condensa in un minuto la diaspora stilistica dei Blur: sorta di oi! punk turcheggiante, con un golpe al mixer vira in territori tumultuosi, per poi sfociare in un impensabile latrato da muezzin in whistle register. La deriva elettronica è definitiva con la hidden track "Me, White Noise". Su un crescendo di beat grezzi e rumoracci effettati, Albarn sfodera il suo cockney più indisponente e dà forma a una cavalcata discotecara che è nel tono e nelle declamazioni il manifesto della youth culture metropolitana. Being English isn't about hate - it's about disgust.
La copertina di Banksy, guru della street art, è in perfetta sintonia col carattere metropolitano del disco - proprio la metafora della città ne rende al meglio lo spirito. Il pop visto da Think Tank è una galassia di sottoculture priva di centro. Indipendenti ma interconnesse, "minori" in quanto incapaci e non intenzionate a prendere il sopravvento. Slegate da ogni logica geografica o temporale, sono comunque pervase da uno spirito comune, un misto di torpore e dinamismo, cosmopolitismo e englishness. Un ossimoro fatto di assenza di limiti e senso di impotenza, cresciuto a club culture e vinili del papà, cristallizzato in un malumore dal volto, più che depresso o sconsolato, pigramente nostalgico.
Nei sei anni successivi all'uscita di questo album controverso i Blur non si fanno più sentire come band, essendo ciascuno dei quattro membri impegnato con i propri progetti artistici o impegni lavorativi. James, ormai ripulito, vive in campagna con moglie e figli e gestisce un caseificio; Rowentree divide il suo tempo tra studi di giurisprudenza, passione per l'informatica (si occupa di computer grafica, software open source ed è attivista pro-file sharing) e impegno politico con il partito laburista.
Nella primavera 2009 trapela la notizia di una reunion. Una bufala? Affatto, la ricostituzione dei Blur è realtà e lo dimostrano i concerti in Gran Bretagna, salutati dalla stampa come un grande ritorno. Al momento non sono previsti altri show né nuovi dischi (eccetto un'antologia, Midlife: A Begginer's Guide To Blur), ma anche se la parabola Blur si chiudesse per sempre, restano due dischi di altissima qualità e una serie di grandi canzoni a testimoniare il valore di una delle band più grandi degli anni Novanta, capace di destreggiarsi con una versatilità incredibile tra classifica e underground, melodia pop e sperimentazione.
Il 19 febbraio 2015, attraverso un'intervista in diretta su Facebook, i Blur annunciano l'uscita di un nuovo album di inediti. Si intitola The Magic Whip e contiene dodici canzoni registrate durante delle sessioni in studio che la band ha tenuto nel corso di un tour in Oriente.
È Coxon la mente dietro l’operazione, stavolta. Sua l’idea di mettere mano a quei demo registrati durante una pausa di quattro giorni a Hong Kong nel mezzo del tour della reunion del 2013; sua l’idea di lavorare su quel materiale con Stephen Street, produttore storico della band durante gli anni d’oro del britpop. Una svolta, un passaggio di testimone, quasi un cambio al vertice, complice l’impegno di Albarn con il suo “Everyday Robot” e il suo quasi disinteresse a finire la lavorazione.
Ed è proprio Street a definire, per l’ennesima volta, il sound della band. Nell’anno del ventennale di “The Great Escape”, lontano più dalle chitarre ruvide di Coxon che dalla lenta malinconia albarniana, The Magic Whip traccia una linea di continuità con le sonorità che hanno contraddistinto i fasti di metà anni Novanta, da “Lonesome Street”, che riporta addirittura ai tempi di “For Tomorrow”, a “Go Out” che ricorda “Entertain Me”.
Se “Ong Ong” è il pezzo più coxoniano, con un occhio strizzato ai Beatles, “New World Towers”, “Though I Was a Spacemen” e “My Terracotta Heart” riportano dritte alle atmosfere cupe e solitarie di “Everyday Robots”. D'altro canto, le metriche reggae di “Ghost Ship” rimandano sì ancora ad Albarn, ma a quello con addosso la maschera dei Gorillaz.
Reggae che torna a fare capolino, attorcigliato a sonorità soul, in "Ice Cream Man". Il garage soffuso di "I Broadcast" e il crescendo marziale (ed emozionale) di "There Are Too Many Of Us" sono tra i capitoli di un'opera necessariamente frammentata nei contenuti e nella resa complessiva, una sorta di compendio dell'ultimo decennio rimescolato con le scorribande giovanili. Chiudono l'album i distesi riff di "Mirrorball".
"Dan Abnormal, not normal at all..." - Una panoramica sui progetti musicali di Damon Albarn
Personalità strana, quella di Albarn. Agiato, bellissimo, colto (ha studiato musica e recitazione), cosmopolita quanto basta per flirtare con la musica di ogni luogo e popolo, è uno dei pochi (assieme a Thom Yorke e soci) della scena britpop a essere sopravvissuto agli anni Novanta dal punto di vista commerciale. Eclettico ed estroverso proprio come lui (demenziale, a tratti), segue un tragitto accidentato lungo traiettorie che solo la fantasia di una mente come la sua può comprendere. Un genio? Sì, ma fin troppo sregolato, poiché la parte finale della sua carriera non è che il rovescio della medaglia della stessa vis creativa che aveva reso i Blur una band grandiosa. Tante idee, troppe, e pochissimi risultati di qualità; nella sua agenda la ricerca di nuove soluzioni viene sempre prima del perfezionamento delle stesse, così quello che ci resta sono tanti dischi - alcuni davvero orribili, tra i peggiori mai registrati - pochi pezzi decenti, un solo capolavoro: "Dare" dei Gorillaz.
I Gorillaz furono la prima valvola di sfogo dell'ego musicale esondante di Albarn, ma anche uno dei primi segnali della sua decadenza artistica. Nel 1998, mentre i Blur erano reduci dell'omonimo capolavoro, l'eclettico cantante pensò di sfruttare le potenzialità di Mtv e della rete per creare un progetto pop basato su una band virtuale. Concepiti assieme al suo coinquilino fumettista Jamie Hewlett, i Gorillaz altro non sono che una band a cartoni animati (2D, Murdoc Niccals, Noodle e Russel Hobbs i nomi dei personaggi) dietro la quale si nasconde il solo Albarn, accompagnato di volta in volta da collaboratori diversi.
Musicalmente siamo davanti al frutto di un decennio di postmodernismo musicale, una creatura che fa proprie le armi dell'hip-hop, del dub, del trip-hop e del collagismo alla Dj Shadow, rinfrescandole con una vena pop erede della stagione d'oro dei Blur. Tutto questo suona bene, ma solo sulla carta. I Gorillaz, infatti, sono il prototipo di tutti i futuri progetti di Albarn: ambiziosi e geniali in quanto a idee e intenti, ma confusi e inconcludenti nella pratica, o perché raffazzonati o perché troppo ambiziosi al punto da perdere un qualsiasi contatto con ciò che conta: la musica.
Nello specifico abbiamo gran bei suoni, tanto eclettismo, ma un canzoniere che tra album e raccolte b-side conta al più cinque pezzi degni di nota (quasi tutti singoli).
Missione compiuta sul versante commerciale, invece: l'idea della band fittizia ha successo - nulla da dire infatti sul lato dell'immaginario della band, che ha regalato alcuni videoclip magnifici - al punto da superare ampiamente le vendite dei Blur (si parlò addirittura di una possibile fine della band originaria...), che non erano mai riusciti a impadronirsi del mercato americano, se non in piccola parte con l'album omonimo. Tutto questo fino al 2010, quando Albarn realizzò finalmente un album di qualità con questo progetto.
Gorillaz del 2001 è una raccolta di blande canzoni che si aggrappano alla forma del collage per giustificare la loro esistenza. Monocromatico, svogliato e dannatamente noioso, l'album fa rimpiangere anche i Blur minori. L'eccezione alla regola è il singolo "Clint Eastwood", magnifico esperimento di pop bastardo: un'insalata di piano, rap sguaiato e un ritornello melodico cantato da Albarn.
Space Monkeyz vs. Gorillaz: Laika Come Home è invece un esperimento di remix dub molto noioso e fuori fuoco.
Decisamente meglio Demon Days (Virgin, 2005), che quantomeno vanta un suono più lussuoso e variegato, incorporando meglio l'elemento hip-hop con quello pop e ampliando l'armamentario di trovate e soluzioni (dalle ballate acustiche agli spoken word); se le canzoni scarseggiano, almeno Albarn fa di tutto per sorprendere con gli arrangiamenti e la produzione, affidata a Danger Mouse.
Buone la sinuosa "Feel Good Inc.", forte di un giro di basso killer e il pop retrò e sofisticato di "Don't Get Lost in Heaven, con una spruzzata di gospel. Il capolavoro è il synth-pop danzereccio alla Human League del singolo "Dare" (la seconda voce è di Shaun Ryder degli Happy Mondays), una canzone semplicemente perfetta, urbana e cattiva, ma altrettanto sinuosa e catchy; azzeccatissimo l'arrangiamento essenziale e schietto.
Tra una puntata e l'altra della sua nuova band a cartoni animati (annunciato un nuovo album nel 2010, a proposito), Albarn si dedica ad alcuni episodi solisti, alcuni passati in sordina, altri oggetto di un hype spropositato.
Tra i primi annoveriamo Mali Music del 2002, raccolta di registrazioni avvenute in Africa, uscita a nome Afel Bocoum, Damon Albarn, Toumani Diabaté & Friends. È un album che incrocia world music e minimalismo e vede Alban collaborare con alcuni musicisti locali durante un viaggio in Africa; apprezzabile l'intento ma è alquanto scialbo.
Agli albori del nuovo decennio la band a cartoni animati più famosa del pianeta aggiorna il suo suono all'epoca dei ripescaggi dance anni Ottanta e si circonda di un cast di leggende della musica rock, soul e hip-hop per realizzare Plastic Beach, terzo album dei Gorillaz. L'hip-hop rimane la componente basilare della formula dei Gorillaz, ma bisogna dimenticare che "Plastic Beach" è prima di tutto un album pop nel senso più genuino del termine, ossia una commistione di suoni, colori e immagini che svuota ogni genere musicale del suo contenuto e lo riversa in un frullato altamente digeribile per tutte le stagioni. Sentire il rap dei De La Soul sulla colazione in "Superfast Jellyfish" per credere, mentre Gruff Rhys dei Super Furry Animals sbuca fuori intonando il ritornello più caramelloso della raccolta, come fosse un jingle pubblicitario. Un profetico Mark E. Smith è ospite in "Glitter Freeze" dove bofonchia una manciata di versi e per il resto si limita a schivare i raggi laser di un synth analogico; ben più determinanti sono Lou Reed in "Some Kind of Nature" e Yukimi Nagano (dei Little Dragon) in "To Bing", entrambi protagonisti di esaltanti duetti con Albarn.
La versatilità è la chiave di volta del disco, che spazia dall'hip-hop all'italo-disco anche all'interno dello stesso pezzo, come dimostra "Stylo", scintillante singolo trascinato da un basso testardo e accompagnato da un videoclip molto cinematografico; peccato solo per un'interpretazione un po' fuori luogo di Bobby Womack. Sulla scia del singolo, "Empire Ants" parte ballata tenue e lievemente psichedelica ma poi evapora e lascia il posto a una coda dance memore dei Washed Out; il nuovo suono retrò ed eighties funziona anche nei pezzi più melodici, come nella ninnananna chillout di "On Melancholy Hill", che trova l'equilibrio perfetto tra zucchero e malinconia, o nell'indecifrabile miscuglio di surf e hip-hop della title track.
Plastic Beach è un ottimo album di canzoni e come tale va approcciato, assaporando la varietà e la fattura delle singole tracce e mettendo in secondo piano la continuità dell'opera. A livello sonoro c'è un evidente filo conduttore (i synth vintage, le chitarre sixties...) ma la scelta di affidare quasi tutti i pezzi a cantanti diversi (con esiti quasi sempre ottimi, salvo un paio di rap orripilanti in "Sweepstakes" e "White Flag") va letta attraverso l'intenzione di creare una successione di piccoli gioielli pop, piuttosto che un album compatto. In questo Albarn ha fatto un pieno centro, un disco godibile, estivo e lievemente malinconico con una gran quantità di pezzi azzeccati e poche cadute di stile.
Democrazy (2003) è il primo album completamente solista e consiste in un'ammucchiata di bozzetti acustici lo-fi o di elettronica giocattolosa. Sono canzoni da finire, da rivedere, da rifare; così com'è non ce n'è una che valga la pena di essere ascoltata. Con questo disco (doppio e disponibile in pochissime copie) sembra che Albarn voglia imitare le gesta di un'altra mente portante del pop inglese: Lawrence Hayward dei Felt, che dopo l'esperienza col suo gruppo si è dedicato al lo-fi più casereccio coi i suoi progetti Denim e Go-Kart Mozart. Ma a differenza del leader dei Felt, che nonostante i mezzi spartani ha continuato a realizzare canzoni discrete, Albarn sembra voler impiegare la bassa fedeltà solo per sbandierare il suo eclettismo e la sua voglia di sfidare il music business, facendo di essa il fine e non il mezzo della sua musica.
The Good, The Bad And The Queen è l'album che l'omonimo supergruppo capeggiato da Damon pubblicherà nel 2007. Gli altri componenti dell'impresa sono l'ex-Clash Paul Simonon al basso, l'ex-chitarrista dei Verve Simon Tong e il batterista Tony Allen, già con Fela Kuti. Lo scopo? Rivedere il pop inglese attraverso una lente offuscata e lugubre, adornandolo di un clima di insicurezza, quando non tragedia e disillusione. La produzione, affidata all'ormai consolidato Danger Mouse, riesce in questo senso a scolpire un suono fumoso e perfetto per il contesto, ma è il gruppo a mostrarsi inferiore alla somma delle parti. Le canzoni suonano fin troppo fiacche, fallendo sia nel rimanere impresse nella memoria che nel suonare originali (c'è qualche rimando ai Kinks di troppo), mentre dei quattro talenti solo Simonon è all'altezza della sua fama.
L'ultima produzione della coppia Albarn e Hewlett è l'impresentabile A Journey To The West, sorta di meltin' pot di elettronica, opera lirica cinese e musica etnica che fa da colonna sonora a una rappresentazione teatrale in chiave moderna dell'omonimo classico della letteratura cinese. Il lavoro si presenta come ventidue micro-brani rumorosi e caotici, pieni di suoni sintetici vintage altamente fastidiosi, interventi orchestrali e voci sintetizzate che scimmiottano l'opera cinese: siamo di fronte a uno degli album più brutti di tutti i tempi, un disastro.
Albarn, però, non ripone le sue ambizioni e nel 2012 dà vita a un nuovo stravagante progetto: Dr. Dee, un concept-album con cadenze della pop-opera, ispirato ispirata alla vita di John Dee (1527-1608), matematico, filosofo e consigliere di Elisabetta I d'Inghilterra.
Un disco che ha il pregio di affrontare il verbo post-moderno in chiave personale e assolutamente contemporanea. Interessante in tal senso, la percezione che si ha spesso di registrazione effettuata in tempo reale con poche sovraincisioni. Un lavoro certo bizzarro e "inedito" nella forma ma non nei contenuti, che si riallacciano all'idea antica di "musica totale", esperita negli anni 70 e 80 in modo ben più convincente. Non fosse altro per il fatto che dall'inizio alla fine, eccezion fatta che per alcuni episodi come "Apple Carts", "Cathedrals" (tra i picchi assoluti della produzione di Damon) e in parte "Coronation" e "A Prayer", il disco sembra solo una collezione di temi non sviluppati, assai incompiuti, usciti da un frullatore radiofonico impazzito.
Nel 2014 Everyday Robots sembra segnare una nuova tappa all'interno della frastagliata discografia Albarn-iana. Il frontman dei redivivi Blur questa volta ricava uno spazio tutto per sé, buttando giù un repertorio di brani tanto intimi quanto intensi, sorretti da un senso di alienazione verso la "modern life" che già un tempo veniva indicata come "rubbish" ("Everyday Robots") o nei confronti di una solitudine che stride con l'epoca iper-connessa nella quale viviamo ("Lonely Press Play"). Una storia personale e autobiografica, quella di “Everyday Robots”, fatta letteralmente ripercorrendo i luoghi della propria formazione, da Leytonstone, Londra, a Colchester, Essex, raccontando i posti e le persone, ma, soprattutto, raccontando se stesso.
Un racconto di vita che non pretende di insegnare, in cui lo scrittore non si pone sul piedistallo dell’esperienza ma, al contrario, abbassa la testa davanti ai suoi ascoltatori, proprio come nella foto scelta per la copertina. Si mette a nudo, Albarn, parlando apertamente nei testi delle sue abitudini con le droghe, come in “You and Me”, della “storia del suo cuore infedele”, dell’incomunicabilità in “Hostiles” e “The Selfish Giant” che ribalta completamente l’omonima favola wildiana.
Una prova di maturità e coerenza in tutti i sensi: per lo stile, le splendide e malinconiche ballad in cui si mixano la tradizione pop inglese, il gospel, la musica africana, i campionamenti e i beat elettronici in un perfetto compendio di tutte le esperienze musicali del compositore, riuscendo a diventare sinonimo di un vero e proprio Albarn touch; per la scelta dei collaboratori: il coro gospel della chiesa pentecostale di Leytonstone che il musicista sentiva cantare dall’esterno da bambino, la produzione affidata a Richard Russell – già al suo fianco in altri progetti – e Brian Eno, conosciuto in palestra e coinvolto nella conclusiva “Heavy Seas Of Love”, la chiusura positiva dell’album.
A fine 2018 viene scongelato a oltre 11 anni di distanza dal primo lavoro il progetto The Good, The Bad & The Queen. Il contesto è fornito dalla Brexit. Più che entrare a gamba tesa nell'argomento portante, Albarn e soci preferiscono camminare a passo lento, come semplici spettatori, nelle macerie di una realtà che credevano forse acquisita prima di sbriciolarsi sotto i loro occhi. È evidente come il sentimento generale dell'opera risieda in un inestricabile miscuglio di velata malinconia e ingiustificata spensieratezza, peraltro ben riverberata a livello di immagini dai videoclip delle canzoni in cui Albarn si muove come un burattino privo di un proprio senno. Guidato per mano in studio di registrazione da Tony Visconti, il quartetto inscena un teatrino nel quale ogni elemento è ridotto all'essenziale, per restare ancora più vivido. La melanconia a passo spezzato di “Merrie Land” cede il passo al reggae picaresco di “Gun to the Head”, mai così vicina alla lezione dei Gorillaz.
Le accorate “Nineteen Seventeen” e “The Great Fire, sibilline e a loro modo solenni, rappresentano il cuore pulsante del disco, quello nel quale il passato e il presente vanno a sovrapporsi in visioni di vita e di morte. Il sentimento gospel di “Drifters & Trawlers” scalda il cuore, ma è negli arpeggi di “Ribbons” che si ritrova tutta la maestria melodica di un Albarn sempre più a suo agio nei panni di menestrello di una generazione “di mezzo” ormai priva di punti di riferimento. Potrebbe essere un estratto di “Everyday Robots”, e in un certo senso lo è: fa parte di un dialogo aperto che il “Dan Abnormal” ormai cinquantenne continua a coltivare con il mondo. Per dirla con parole sue, “I'll be the last man to leave: And now I've gone away, what will you do?”.
Nell'autunno del 2021 i tempi sono maturi per il secondo album solista. The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows prende il titolo da un verso del poeta John Clare e si ispira ai panorami dell'Islanda, dove Albarn ha anche costruito casa. Al frastuono della contemporaneità, Damon adesso preferisce il silenzio arcaico della natura. Il suo scorrere lento e immutabile, l'energia salvifica che ne scaturisce. Il desiderio di meravigliarsi, una volta per tutte, di qualcosa di “positivo”, disintossicandosi delle tossine lasciate a sedimentare da un'attualità che ha preso una piega alquanto diversa dalla “Parklife” che ancora si poteva vagheggiare negli anni Novanta.
L'Islanda, dunque. Ma non solo. C'è un elemento fondamentale e ricorrente nel secondo album solista di Albarn, ed è l'acqua. All'interno delle undici canzoni, e anche nelle fessure tra l'una e l'altra, tutto è liquido, tutto scorre più o meno velocemente, come del resto lascia intendere il titolo dell'opera. C'è l'acqua dolce, rappresentata simbolicamente dalla fontana da cui scorre la corrente. Ma c'è anche l'acqua salata del Mare del Nord che, come nel passaggio tra la title track e “The Cormorant”, si infrange contro invisibili scogli.
È in questo flusso, soprattutto di ispirazione, che il compositore inglese perde e ritrova i capisaldi della propria arte. Forse a un ascolto poco approfondito questa scaletta può dare l'idea di un catalogo sommesso nei toni e forse anche nei contenuti, ma l'illusione svanisce ben presto con la perseveranza: non solo c'è tanta sostanza, ma forse ce n'è ancora più che in passato.
Se infatti il sentimento è affine a quello di “Everyday Robots” - fragilità, perdita, emergenza e rinascita sono i temi presi in esame, per ammissione dell'artista -, il paragone con quel repertorio appare sensato fino a un certo punto. Certo, abbiamo imparato che l'Albarn “solista” è quello più riflessivo, introverso, contemplativo. Tuttavia, in “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” gli elementi di novità non mancano. In primis, la scelta di partire sempre dal pianoforte per costruirvi attorno sottili orchestrazioni non di rado inclinate verso sonorità jazzy. Inoltre, non va sottovalutata la capacità di questo repertorio di scavare dei canyon all'interno dell'ascoltatore, anziché scegliere la strada di una più rapida presa. In altre parole, questi undici brani sembrano progettati per schiudersi man mano, con lentezza e giudizio, fino a rivelare la loro vera essenza. Perdendo in immediatezza, sembrano guadagnarci in purezza.
L'eleganza irreale di un pezzo come “The Tower Of Montevideo”, che sintetizza palpiti sudamericani e un sax sempre sul punto di partire in un assolo, si risolve in una catarsi ambientale di rara bellezza (“I can hear music/ I can hear footsteps/ Ghost of an empty room/ Montevideo”), dimenticandosi per qualche istante di sottostare alla forma-canzone. L'adozione di un uptempo sufficientemente spensierato che in certi casi - “Royal Morning Blue” - evoca i Blur più recenti, porta in generale una ventata di spensieratezza al repertorio. È il caso di “Polaris”, altro gioiellino tipicamente albarniano che, sotto il velo di atmosfere agrodolci, riflette su tematiche universali quali la distanza e il riavvicinamento.
La preghiera pagana che dà il titolo all'opera, e che si assume l'onere di aprirla, è tanto accorata quanto rarefatta; i rintocchi di pianoforte che cadono come gocce andranno a formare lo stagno salmastro di “The Cormorant”, un girotondo introspettivo e sostanzialmente irrisolto. Il climax emotivo arriva più avanti, nel binomio tra pianoforte e sintetizzatori di “Daft Wader”, ed è ancora l'acqua – questa volta sotto forma di pioggia – a fare da ponte con una “Darkness To Light” che assume le sembianze di filastrocca post-moderna, o forse di una canzone d'amore senza averne l'aria. Un escamotage che il buon Damon utilizza anche in “Combustion”, un brano che dal rumorismo passa attraverso bizzarre partiture orchestrali e si scioglie infine, programmaticamente, in una cascata di note che scaturiscono dai tasti del piano.
Un tocco di sperimentazione non se lo negano neppure i due pezzi strumentali in scaletta, ovvero “Esja”, anch'essa destinata a infrangersi contro le onde del mare, e “Giraffe Trumpet Sea”, un altro tentativo di mettere d'accordo più mondi in uno sketch di meno di due minuti. Se nel disco precedente si avvertiva un battito, una pulsazione, qui Damon Albarn mette in primo piano il sentimento, l'atmosfera, la sensazione: il lato più etereo della sua arte. Non solo un titolo, “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” è un verso che ritorna continuamente nelle canzoni, compresa la conclusiva “Particles”. La fonte, Damon Albarn, non l'ha mai persa di vista. Senza dubbio, però, l'Islanda ci ha messo del suo per rendere il tutto ancora più affascinante.
Nel frattempo, l'avventura Gorillaz non accenna a rallentare, assumendo sempre più le sembianze di un progetto che appare tutt'altro che un mero side project.
Tra il 2017 e il 2020 sono ben tre gli album che Albarn sforna con il marchio della virtual band più famosa del Pianeta: Humanz (2017), The Now Now (2018) e Song Machine, Season One: Strange Timez (2020) hanno anticipato l'uscita di Cracker Island (2023), ottavo disco del sodalizio che lo unisce al fumettista Jamie Hewlett.
Il lavoro è stato realizzato nel corso del 2021, per poi giungere a completamento nel maggio del 2022, grazie al contributo in produzione del pluridecorato Greg Kurstin e da Remi Kabaka Jr., membro ormai acquisito definitivamente in squadra.
Questa volta la storia che coinvolge l’eccentrico quartetto di scimmie manga capitanato da Stuart “2-D” - l’alter-ego di Albarn - il bassista Murdoc, il batterista Russel e il chitarrista Noodle, narra dell’abbandono della natia Londra in direzione California, con l’obiettivo di istruire tutti i discepoli del gruppo a seguire un percorso che si potrebbe definire quasi religioso, di culto.
Il parterre dei featuring è come al solito di grande livello. Il bassista Thundercat (due Grammy per lui) impreziosisce il grintoso cyberfunk della title track, impeto che resta intatto anche nella seguente “Oil”, che seppur scevra dello stampo melodico dell’opener, è ricchissima di immagini ispirate, avvalorate dalla storica voce di Stevie Nicks dei Fleetwood Mac che fa trasparire una finta indulgenza.
Spuntano echi anni ’80 nell’elogio alla vita hipster “The Tired Influencer”, brano che possiede una curva armonica non distante da “Under The Westway”, uno degli ultimi singoli pubblicati dai Blur.
I luminosi sintetizzatori che accerchiano l’eccellente “Silent Running” (con il sentito contributo vocale di Adeleye Omotayo, già vocalist di Amy Winehouse) e il ritmo dancefloor di “New Gold”, impreziosita dai feedback di Tame Impala e Bootie Brown, sono forti segnali di come “Cracker Island” possa diventare un disco tipicamente estivo, fluttuando attraverso questi due episodi, tra i migliori dell’intera track list.
"So we can start all over again..." - Guida alla carriera solista di Graham Coxon
Se Damon Albarn era il lato istrionico e divistico dei Blur, Graham Coxon si è cucito addosso per bene il ruolo di controparte riservata e intellettuale, con una punta di maledettismo etilico sufficiente a non farne il solito musicista geek anonimo. Pittore, oltre che chitarrista (è autore anche delle copertine dei suoi album), Coxon porta avanti il lato più trasandato e intimista dei Blur, quello trasudato da canzoni come "You're So Great" e "Coffee And Tv", reinterpretandolo di volta in volta nell'ottica di un genere diverso. La sua carriera, infatti, si suddivide in tre filoni: il primo, all'insegna di un lo-fi rock radicale, un secondo periodo acustico dominato da melodie country e una fase pop in cui cercherà di ridare fasto alla vena melodica dei Blur, unendola però a un dozzinale rock chitarristico. La prima delle tre risente dei tardi Blur (i dischi sono stati registrati prima dell'abbandono del gruppo): canzoni lasciate a metà, rumore, svogliatezza e un susseguirsi di brani ruvidi e sgangherati.
The Sky Is Too High (1998) suona come la versione estrema di pezzi come "Theme For Retro" e "You're So Great": c'è ancora la canzone, ma è una canzone deturpata e sfregiata da distorsioni titaniche, oppure un abbozzo di canzone, strimpellata di malavoglia e cantata con un fare annoiato, il tutto a bassissima fedeltà. Graham, più malinconico e sfigato che mai, canta timidamente su giri di accordi acustici sommersi da torrenti di rumore ("That's All I Wanna Do"), si riscopre cantautore in "Where'd You Go?" e "In A Salty Sea", riesuma i Blur in "I Wish" e ritrova una vena punk mai morta in "Who The Fuck?". Tutte canzoni trascurabili, specie se paragonate a quanto fatto l'anno precedente col gruppo, ma che in un certo senso racchiudono un certo rock alternativo e un certo mood tipici degli anni Novanta.
The Golden D del 2000 è il degno seguito dell'esordio e ne estremizza i tratti distintivi. Parte con una mitragliata garage-punk ("Jamie Thomas") e prosegue con una sequela di brani in cui la melodia viene messa sempre più da parte, in favore di sperimentazioni coi nastri ("The Fear", il patchwork jazzato di "Oochy Woochy") e brani ripetitivi e rumorosi. Anche nei momenti più rock abbiamo al massimo brani post-punk freddi e atonali ("Fame And Fortune"), quando non vicini alla no-wave (i sette minuti di "Lake" potrebbero essere dei Sonic Youth). La voce nasale e fragile di Coxon, però, sposa alla perfezione questi brani, creando il clima perfetto per l'ascolto. Per il resto, ci troviamo di fronte a una mattanza di violenza garage-punk un po' gratuita (ad altri volumi, "Leave Me Alone" sarebbe thrash-metal); non un gran disco quindi, ma senz'altro il più coraggioso del suo percorso solista e migliore dell'esordio.
Crow Sit On Blood Tree del 2001 è l'album di transizione dalla fase lo-fi a quella pop. Ballate acustiche si alternano a pezzi ruvidi, ma con più di uno spiraglio di melodia; pur trattandosi del suo primo disco di canzoni compiute, però, il lato melodico lascia parecchio a desiderare. Il fatto è che Coxon è sempre stato un bravo arrangiatore ma non un grande compositore quanto Albarn, e questo album palesa tutti i suoi difetti di cantautore. "I'm Going Away" è un blues acustico fiacchissimo, "All Has Gone" una modesta prova di fingerpicking, "Too Uptight" la sua conversione al folk più delicato e intimista. Decisamente peggiori i brani elettrici, che sembrano adagiarsi sullo standard chitarra distorta veloce + voce filtrata, con una resa sonora pessima e quasi fastidiosa. Un disco che suona molto americano, ma scritto e suonato da un musicista che non ha la capacità di fagocitare influenze così diverse (il punk, il pop, il folk) e incanalarle in buone canzoni; quello che resta è una manciata di accordi smorti ("Hurt Prone").
Kiss Of Morning (2002) è la versione 2.0 del precedente lavoro, ma a differenza dell'album dell'anno prima riesce a regalare un paio di belle canzoni. Con tutti i limiti dovuti a una voce stridula e inadatta al ruolo, Coxon riesce a dare infatti qualche buona prova, come "Escape Song" che piazza una melodia efficace e "I Ain't No Lie", che fa il verso a Beck.
Sfortunatamente gli sforzi creativi si fermano qui, perché Graham sembra indirizzare tutti i suoi sprazzi di fantasia verso brani sperimentali che non vanno da nessuna parte, come "Locked Doors", trascurando gli altri pezzi, che in generale si attestano sui livelli di Crow Sit On Blood Tree, con le sue ballate country senza mordente e i suoi mediocri brani rock.
Con Happiness In Magazines (2004) il chitarrista dà alle stampe il suo primo album con un certo potenziale commerciale. Le canzoni spaziano dalla ballata psichedelica ("All Over Me") al power-pop alla Costello ("Right To Pop!") al glam più turbolento ("Spectacular"), fino al punk-pop adolescenziale di "Freakin' Out" e ai soliti lentoni acustici a cui ci ha abituato. Anche la produzione migliora - è il suo primo disco registrato decentemente - concedendosi una pulizia comparabile a quella di uscite mainstream. La maggior varietà, vivacità e il songwriting più accurato, però, non coincidono con la fantasia melodica, e infatti il disco una volta sparate le cartucce migliori si trova con le spalle al muro a sfornare riempitivi come "My Hopeless Friend" quando non canzoni proprio brutte (il rock'n'roll di "People Of The Earth", il blues sballato di "Girl Done Gone").
Orecchiabile e migliore dei precedenti ma insignificante di fronte a qualsiasi lavoro dei Blur.
In Love Travels At Illegal Speed (2006), Coxon ripete con tendenza peggiorativa le formule del precedente album. Rispetto al 2004, Coxon sembra essersi convertito a quella classicissima e abusata forma-canzone propria dei singoloni punk-rock ultima maniera (Green Day, Offspring ed emuli vari), alternando questi anthem da high school con tiepide ballate acustiche, per un risultato di singolini pop-rock amplificati da un po' di punkeggiamenti assai edulcorati. Nemmeno nelle ballate Coxon riesce qui a essere ai livelli dei suoi lavori precedenti. Se "Just A State Of Mind" mantiene una certa delicatezza sia nella composizione che negli arrangiamenti di archi e fiati, "Don't Believe Anything I Say" è solo un pugno di accordi lasciato a se stesso (e Graham non è un cantautore sufficientemente valido per permetterselo), e in "Flights To The Sea" prova ad aggiungere un flauto alla Jethro Tull senza che il risultato cambi molto.
Ecco che invece, nel 2009, Coxon va a vivere in campagna e vira prepotentemente verso tutt'altra direzione: The Spinning Top è un album sorprendente. E' un concept (la storia di un uomo dalla nascita alla morte), è suonato principalmente con l'acustica, è lungo, è pop-folk, è americaneggiante, è anni 60. "In The Morning", il primo singolo, è l'inno di questo cambiamento: una ballata dolce e raffinata dove Coxon si accompagna con il fingerpicking in un crescendo bucolico fatto di percussioni etniche e sonaglini, senza mai perdere di vista una melodia che tiene la canzone stretta con i piedi per terra, lontana da derive psichedeliche e vicina all'orecchio dell'ascoltatore.
Certo, la collaborazione di Robyn Hitchcock si sente molto, vedasi lavori come "Home" o "Perfect Love", due pezzi di assoluto livello; mentre la chitarra elettrica si riaffaccia, sebbene con moderazione, in "Humble" e soprattutto nella notevolissima "Dead Bees". Impressionante la somiglianza con Simon & Garfunkel in "Sorrow's Army", anche come tematiche: un brano che parla di guerra con liriche asciutte e ritmiche incalzanti, quasi fosse una canzone di protesta contro la guerra del Vietnam tirata fuori da qualche archivio.
Certo, qualche sbavatura c'è, e se i limiti vocali glieli dobbiamo perdonare perché la natura è spietata, le dissonanze ripetitive di "Caspian Sea" sono ampiamente gratuite. Coxon è sempre stato, purtroppo, un autore piuttosto pesante, pur facendo, alla fin fine, musica pop. E anche stavolta l'ascolto per l'intero è un processo piuttosto stancante, come se, nonostante le eccellenti doti tecniche (sembra quasi un John Martyn con influenze folk invece di blues), non riesca a raggiungere l'intensità di Nick Drake o Gary Higgins, dai quali è palesemente ispirato.
Tirando le somme, tra tanti passi falsi Albarn ha azzeccato un paio di pezzi eccellenti, Coxon invece ha perseguito un approccio alquanto anonimo, epurando via via ogni caratteristica che rendeva distinguibile il suo stile.
Se The Spinning Top apre uno spiraglio di speranza, allontanandosi sia dal pressapochismo degli esordi che dalla ruffianaggine delle precedenti due prove, funziona anche il successivo A+E, pubblicato dalla Parlophone nel 2012. Il suo nuovo giocattolo è venuto su bene, compatto ma sfaccettato, divertente, danzante, leggero, impegnativo solo in apparenza.
Dieci brani, chitarre sottobraccio, una pedaliera lunga un chilometro, andamento lo-fi, suoni pasticciati ad arte, ma soprattutto una bella ispirazione in chiave armonico-melodica che così bene non gli si udiva dai tempi in cui con gli altri tre faceva "13". Niente di nuovo sotto il sole, solo un aggiornamento, un perfezionamento dei propri schemi compositivi, dove tutto funziona sempre bene e, anzi, a tratti appare francamente irresistibile.
Il 2018 segna il ritorno del chitarrista dei Blur in veste solista, ma questa volta in una veste tutta nuova: quella di autore di soundtrack. L'occasione gli viene offerta dalla serie tv di Netflix e Channel 4 The End Of the F***ing World, per la quale Coxon si cimenta in un doppio Lp nel quale confluiscono le più svariate inflessioni della sua lunga carriera: il folk e il rock, il garage, il blues di "The Snare" e "Lucifers Behind Me" e passaggi che riportano alla via maestra dei Blur ("Angry Me"). Ne esce un'opera sfaccettata e multiforme, un'impressione che viene amplificata dal basso minutaggio dei pezzi. "Walking All Day" e "In My Room" mostrano anzi un Coxon del tutto a suo agio nei panni di moderno folksinger, a testimonianza di una duttilità stilistica a dir poco invidiabile.
Un anno e mezzo dopo, nell'autunno del 2019, arriva il seguito: The End of the F***Ing World 2. Un seguito non solo a livello concettuale, ma anche di sound. Una parte consistente del repertorio continua a ruotare attorno al folk-rock, talvolta con risultati piuttosto balzani (la cantilena acustica “Mash Potato” potrebbe uscire da qualche fattoria americana), ma è tra i solchi di questi venti brani, taluni semplici sketch, che Graham Coxon dà sfoggio del suo stile libero.
L'antica fascinazione per il garage-rock riemerge in “Madder Than Me” e nel superbo strumentale “Layby Eyes”. Si solletica l'immaginario western nell'eco morriconiana di “Dining Room Stand-Off” e nella fuga in spazi aperti di “Threw It Away”. C'è posto per la ballata in punta di piedi “She Knows”, per un esercizio à la Bob Dylan come “Why Are You Crying?” e per un brano da crooner d'antan quale “Meaner Than Me”.
Ci sono persino la marcetta più picaresca che nuziale “Wedding March” e il breve omaggio alla musica francese in “Bonjour, Monsieur”, forse – chissà – liberamente ispirato alla “Tous les garçons et les filles” della divina Francoise Hardy. L'andamento ciondolante di “Bonnie The Kid” e quello più sostenuto di “Beautiful Bad” rappresentano a loro modo i capitoli più arditi, in qualche modo sperimentali di questa colonna sonora, il musicista inglese alle prese con un particolare miscuglio di suoni di chitarra e interventi elettronici.
Per capire al meglio chi è Graham Coxon, però, possono forse bastare i pochi arpeggi di “Hat”, un brano folk spoglio e al tempo stesso intenso, o il sottile crescendo pop-rock di “I'll race You Home”, che ha il solo torto di durare appena un minuto e mezzo. Si può ben dire che di questi venti brani non ce ne sia davvero uno che suona come l'altro, eppure l'effetto è quello di un lavoro coeso e mai portato all'eccesso.
Perché sì, bastano davvero pochi elementi, una manciata di idee e ovviamente quel tanto di stoffa ben al di sopra della media per confezionare, ancora una volta, delle grandi canzoni.
Otto anni dopo The Magic Whip, e con in mezzo la solita orda sparigliata di progetti duraturi o estemporanei - ultimi in ordine di tempo: The Waeve e l’album solista di Dave Rowntree -, un nuovo album dei Blur era qualcosa in cui avevamo smesso di sperare. O forse no, memori del fatto che i Nostri sono tipi imprevedibili, capaci di starsene zitti per anni e poi di uscirsene un bel giorno con l’annuncio a sorpresa di un album fatto e finito.
All’epoca, era stato l’Estremo Oriente a riaccendere la miccia e a ispirare alla band inglese un lavoro che se non era un concept-album a tutti gli effetti, rappresentava quantomeno un accorato omaggio a quel mondo e alla sua sfaccettata cultura. Per The Ballad Of Darren (2023), invece, il fil rouge appare più sottile, e rimanda a un murales raffigurante Leonard Cohen che Damon Albarn poteva osservare dal suo hotel di Montreal, in Canada, nel corso di un viaggio avvenuto qualche tempo fa. Lo spirito del grande cantautore scomparso nel 2016 sembra in effetti condurre per mano i Blur in questo repertorio che, insolitamente, è composto in buona parte da quelle ballate annunciate già nel titolo stesso dell’opera.
Annunciato come un “aftershock record”, è inaspettatamente un breakup album quello che Albarn ha scritto per la sua band, ventiquattro anni dopo il primo capolavoro dell’amore finito che era stato 13 nel 1999. E l’urgenza emotiva è proprio quello che fa di questo nuovo lavoro del gruppo di Colchester un disco potente e presente, che non scimmiotta i Blur di trent’anni fa, ma che racconta la grande crescita umana e personale dei suoi componenti, riusciti a rimanere credibili nella contemporaneità per tutta la loro carriera.
“È stato come un cataclisma che si è abbattuto su di me. Spero di non doverlo vivere anche una terza volta” è l’unico commento che il cantautore e autore del gruppo ha affidato a un’intervista riguardo alla rottura sentimentale che alimenta la forza dei dieci brani, e “Barbaric” è l’aggettivo che usa per definirlo e che dà il titolo al terzo brano dell’album, quello in cui avviene lo svelamento. Un disco confessionale, più vicino all’esperienza solista di Albarn che alla produzione con i Blur, ma che conferma la grande capacità del musicista inglese di mettersi a nudo senza risultare patetico, esuberante o sopra le righe. Uno stato d’animo che, forse, è implicitamente racchiuso anche nella copertina: uno scatto del fotografo Martin Parr che ritrae un uomo solo, nel bel mezzo di una piscina, sotto un cielo plumbeo.
Burt Bacharach è, dopo Cohen, il secondo nume tutelare del disco. Le sue linee melodiche, gli arrangiamenti dei fiati, la dolcezza dei suoi versi richeggiano più volte nei trentasei minuti dell’album – 36 minuti che spazzano via l’ascoltatore, lo coinvolgono in un turbine emozionale tra attimi di introspezione affidati a ballad magistrali e momenti di rabbia che fanno tornare alla luce i Blur più sporchi, quelli in cui il noise amato da Coxon prende il sopravvento e fa esplodere la testa. E' così soprattutto in “St. Charles Square”, che in scaletta succede all’incipit fascinoso e patinato di “The Ballad”: uno spaccato di quel garage-rock di cui il chitarrista ha saputo ricavare il meglio sporadicamente con i Blur, quasi sistematicamente in tanti anni di carriera solista; e nella coda di “The Heights”, che congeda l’ascoltatore con una deflagrazione.
Tra i marosi elettrici e i momenti quasi-cantautorali che fungono da estremi di questa nuova poetica che non di rado si lascia andare a derive da Albarn in solitaria (“The Everglades (For Leonard)” sembra uscire dalle stesse sessioni di “The Nearer The Fountain…”), emergono midtempo ammantati di rarefatta bellezza - su tutti, una grandiosa “Goodbye Albert” e la introspettiva “Far Away Island”. Senza dubbio la fanbase troverà più consoni capitoli quali “The Narcissist” e “Barbaric”, un emblema, quest’ultima, di come si possa fare art-pop senza scadere nel banale o nello standardizzato. E del resto, il compito di The Ballad Of Darren sembra piuttosto di spiazzare, di fornire nuove chiavi di lettura rispetto a una materia musicale che pensavamo di conoscere, che credevamo di maneggiare. Il sound dell’album è invece arricchito da tutte le esperienze parallele che i membri hanno portato avanti nel corso degli anni, diverse per gusti e intenzioni, ma nate dalla stessa cellula madre.
E se le felpe Fila, gli spessi occhiali dalla montatura nera e il ciuffo agitato a ogni tocco sul basso rimangono gli stessi del 1991, la maturità artistica dei Blur è innegabile e li incorona come uno dei pochi gruppi tornati sulle scene dopo lunghe pause di anni senza sembrare la caricatura di sé stessi, senza la necessità di rimettere in scena i propri vent’anni con risultati discutibili, ma con ancora molto da dire e da donare alla scena musicale odierna.
Contributi di Marco Sgrignoli ("Think Tank"), Veronica Rosi ("Love Travels At Illegal Speed" e "The Spinning Top"), Davide Sechi ("A+E"), Fabio Guastalla ("The Magic Whip", "The End of the F***ing World", "The End of the F***ing World 2", "Merrie Land", "The Ballad Of Darren") e Guia Cortassa ("The Magic Whip", "The Ballad Of Darren")
BLUR | ||
Leisure (Food/EMI, 1991) | 6,5 | |
Modern Life Is Rubbish (Food/EMI, 1993) | 6,5 | |
Parklife (Food/EMI, 1994) | 8,5 | |
The Great Escape (Food/EMI, 1995) | 7 | |
Live At Budokan (live, Food/EMI, 1996) | ||
Blur (Food/EMI, 1997) | 8,5 | |
13 (Food/EMI, 1999) | 5 | |
The Best Of Blur (antologia, Food/EMI, 2000) | ||
Think Tank (Food/EMI, 2003) | 7 | |
Midlife: A Beginner's Guide to Blur (doppio cd, antologia, EMI, 2009) | ||
The Magic Whip (Sony, 2015) | 7 | |
The Ballad Of Darren (Norman, 2023) | 8 | |
GORILLAZ | ||
Gorillaz (Virgin, 2001) | 5 | |
Space Monkeyz vs. Gorillaz: Laika Come Home (Virgin, 2002) | 4 | |
Demon Days (Virgin, 2005) | 6 | |
Plastic Beach (Parlophone, 2010) | 7,5 | |
Humanz (Parlophone, 2017) | 7 | |
The Now Now (Parlophone, 2018) | 6,5 | |
Song Machine, Season One: Strange Timez (Parlophone, 2020) | 7 | |
Cracker Island(Parlophone, 2023) | 7 | |
DAMON ALBARN | ||
Mali Music (Honest Jon's, 2002) | 5 | |
Democrazy (Honest Jon's, 2003) | 3 | |
Journey To The West (XL, 2009) | 2 | |
Dr. Dee (Virgin, 2012) | 6 | |
Everyday Robots (Parlophone, 2014) | 7,5 | |
The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows (Transgressive, 2021) | 7,5 | |
THE GOOD, THE BAD & THE QUEEN | ||
The Good, The Bad & The Queen (Parlophone/Honest Jon's, 2007) | ||
Merrie Land (Studio 13, 2018) | ||
GRAHAM COXON | ||
The Sky Is Too High (Transcopic, 1998) | 6 | |
The Golden D (EMI, 2000) | 6,5 | |
Crow Sit On Blood Tree (Transcopic, 2001) | 5 | |
The Kiss of Morning (Transcopic, 2002) | 5 | |
Happiness In Magazines (Transcopic, 2004) | 5,5 | |
Love Travels At Illegal Speeds (Parlophone, 2006) | 4,5 | |
The Spinning Top (Transgressive, 2009) | 7 | |
A+E (Parlophone, 2012) | 7 | |
The End of the F***ing World Ost(Graham Coxon, 2018) | 7 | |
The End of the F***ingw World 2 Ost (Graham Coxon, 2019) | 7 |
Sito ufficiale | |
Myspace | |
Testi | |
VIDEO | |
Girls & Boys(da Parklife, 1994) | |
Parklife(da Parklife, 1994) | |
Country House(da The Great Escape, 1995) | |
The Universal (da The Great Escape, 1995) | |
Song 2(da Blur, 1997) | |
M.O.R.(da Blur, 1997) | |
You're So Great (Graham Coxon)(live, da Blur, 1997) | |
Coffee And Tv(da 13, 1999) | |
Clint Eastwood (Gorillaz ft. Shaun Ryder)(da Gorillaz, 2001) | |
Dare (Gorillaz ft. Shaun Ryder)(da Demon Days, 2005) |