In Bristol
Un suono grezzo, stordente, che affonda le radici nel (post)punk, appesantendolo attraverso le telluriche distorsioni del post-hardcore, devastando, squassando il terreno circostante. A dettare l’estetica sono i toni psicotici dei Pil, l’incessante latrato “against” di Mark E. Smith, le chitarre affilate dei Gang Of Four. Ma l'animo è gentile, e dietro la scorza da cattivi ragazzi emerge una raffinata formazione letteraria. Sotto i baffi spacconi, i vestiti sgargianti e i chilometri di tatuaggi di Joe Talbot (voce), Mark Bowen (chitarra), Adam Devonshire (basso), Jon Beavis (batteria) e Lee Kiernan (chitarra ritmica) si celano letture (e posizioni) “labour” e un background da scuola dell'arte, attraverso i quali elaborare nuovi slogan da dare in pasto al pubblico, alimentati dal disagio provocato dall’affare Brexit, e dai suoi inevitabili effetti collaterali, che nel Regno Unito ha catalizzato l’attenzione per tutta la seconda metà degli anni Dieci.
Gli Idles si sono conosciuti e aggregati in quel di Bristol, città multirazziale nota al mondo per tutt'altri suoni e ritmi. Joe Talbot nasce in realtà in Galles, a Newport per l’esattezza, e dopo aver trascorso l’infanzia nel Devon conosce il bassista Adam Devonshire in college, a Exeter. I due si iscrivono assieme alla West England University, per l’appunto a Bristol, e la prima iniziativa artistica che eseguono in coppia è aprire un locale, il Bat-Cave (dove i due si cimentano anche in seguitissimi dj-set), che presto diventerà uno degli snodi cruciali della scena musicale cittadina. Ma l’obiettivo reale è realizzare qualcosa di molto più importante di qualche serata indie molto frequentata. Dall’incontro con il chitarrista Mark Bowen, giunto anche lui a Bristol per studiare, nasce l’idea per lo step successivo, quello decisivo: formare una band.
Welcome, Meat, the first Eps
Nel 2012 Welcome è il titolo, eloquente e significativo, scelto per presentarsi al mondo: un Ep contenente le prime quattro tracce diffuse dalla band, dal punto di vista stilistico posizionate dalle parti di un post-punk molto più canonico rispetto a quello che verrà sviluppato in seguito, nelle quali risultano evidenti le loro principali influenze giovanili. “26/27” è un brano molto Interpol, l’incipit di “Meydei” richiama senza timori reverenziali i primissimi U2 di “I Will Follow”, “Germany” è new wave sin nel midollo, la conclusiva “Two Tone” un caotico rigurgito post-hardcore. Welcome, originariamente diffuso a dicembre del 2011 come demo a distribuzione carbonara, verrà successivamente pubblicato - nell’agosto del 2012 - dalla label Fear Of Fiction.
Resterà un’operazione isolata nella discografia del gruppo che, insoddisfatto del risultato, in più occasioni affermerà di averlo ripudiato, auto-accusandosi di non aver saputo conferire un’identità al proprio progetto attraverso quelle quattro canzoni. Welcome, Ep rinnegato in modo sin troppo severo, mostra in realtà buone canzoni eseguite da una formazione giovane, a tratti ancora ingenua. Prove tecniche di trasmissione, necessarie a testare la capacità di realizzare brani compiuti, poi ci sarà tempo e modo per tirare fuori la propria indiscutibile personalità.
Talbot non vuole suonare punk, post-punk o hardcore: assieme ai compagni di viaggio desiderava trovare una propria via, diversa da tutto il resto, per svincolarsi da qualsiasi paragone col passato e col presente, definire un sentiero in grado di distinguere la propria creatura in maniera chiara dall’offerta musicale sul mercato. Ma per definire un’inedita dimensione artistica serve tempo, ben tre anni, trascorsi a provare almeno tre volte a settimana, prima di poter giungere all’enorme passo avanti compiuto con Meat, il secondo Ep. Nel frattempo, la line-up si allarga a cinque elementi, grazie all’ingresso di Jon Beavis alla batteria e Lee Kiernan (in sostituzione definitiva del membro occasionale Andy Stewart) ad aumentare la potenza di fuoco delle chitarre.
Pubblicato il 30 ottobre del 2015 su etichetta Balley, Meat ha un suono che travasa nella scrittura del gruppo elementi di punk e di pub-rock, convincente premessa dei futuri Idles, delineandone la vera attitudine musicale, che arriva a inglobare segmenti di matrice tribale. Alcune tracce erano già state diffuse nei mesi precedenti: “The Idles Chant” girava già dal 2014, mentre “Queens” aveva anticipato l’uscita dell’Ep con tanto di videoclip a corredo. Ma terminato il tour della primavera del 2015, la band decide di reincidere tutto, aggiungendo i due inediti “Romantic Gestures” e “Nice Man”. Rispetto all’Ep precedente, l’approccio diviene più duro, le tracce sono più succinte, guadagnando in efficacia ed efferatezza.
I quattro brani verranno nei mesi successivi sottoposti a un processo di trasmutazione electro, remixati e ripubblicati nell’Ep Meta, mostrando per la prima volta l’imprevedibile interesse della band verso suoni di matrice elettronica.
Nel 2019 la Balley cercherà di monetizzare il successo degli Idles, riunendo in un’unica compilation i due Ep Meat e Meta.
The best way to scare a Tory
Ma tutto quanto fatto sino a quel momento, durante una lunga ed estenuante gavetta, non è nulla rispetto alla deflagrazione che arriverà di lì a poco. Gli Idles iniziano a costruirsi la fama di fenomenale live band, grazie a concerti selvaggi, feroci, ma al contempo divertenti. In quel periodo Talbot, che vive grazie al lavoro nei pub e alle serate trascorse dietro la console, assiste la mamma in ospedale. Sono mesi difficili, nei quali affonda nell’alcol, ricorrendo anche all’uso di droghe. E’ sempre più frustrato e arrabbiato con il mondo e riversa tutto il proprio dolore nella scrittura di nuove canzoni.
Quando la mamma muore, dopo una lunga malattia, per lui e per tutti gli Idles tale evento funge da slancio propulsivo per una nuova partenza, per tentare in tutti i modi di sdoganarsi dalle rispettive piatte esistenze, con tutta la forza e l’orgoglio possibili. E’ questo il percorso che condurrà a Brutalism, il primo album, pubblicato su Norman Records nel 2017. In copertina un’immagine della mamma di Talbot, proprio lei, sorta di involontaria musa ispiratrice, e una scultura realizzata anni prima dallo stesso Talbot assieme al padre. A suo modo un quadretto familiare, energicamente condiviso dagli altri quattro membri in line-up.
Brutalism è un lavoro forte, che intende scuotere dall'interno la Vecchia Inghilterra, un disco nel quale gli Idles descrivono tutto il disagio derivante dalla complicata congiuntura socio- politica britannica. Una chiamata alle armi anti-Brexit, ma non solo: le argomentazioni sono molteplici e giustificano il dissenso e l’indignazione contro il sistema, nonché la volontà di attaccare con grande determinazione tabù e convenzioni. Tonnellate di rabbia, sarcasmo e fuck si concretizzano con impeto furioso sin dall'iniziale "Heel Heal", sgorgando in maniera dirompente nella successiva "Well Done", un anthem che unisce lo spirito ribelle di Fall e Fugazi alle dissonanze noise dei Sonic Youth. Ma tutte le tredici tracce esprimono un’enorme onda d'urto costante e vengono suonate come se ognuna fosse l’ultima canzone della propria vita, pur non mancando i ritornelli potenti ma melodici, in grado di addolcire momentaneamente lo scenario, come nel caso di "Date Night", "Stendhal Syndrome" e "Benzocaine".
Movimenti wave si avvistano dalle parti della conclusiva "Slow Savage", unico momento di calma decadente, e fra le pieghe della musicalmente molto Interpol "1049 Gotho". L'ironia dei testi è tagliente, le tematiche di grandissima attualità, il risultato a dir poco esplosivo, con Talbot intento a gridare con indignazione nel microfono i propri slogan provocatori a difesa della working class, senza mai lasciar dubbio alcuno sull'interpretazione. I principali destinatari delle invettive sono i Tories - i seguaci del Conservative Party - e l'immobilismo della provincia inglese (nella punk-rock "Exeter" gridano con rassegnazione "Nothing Ever Happens"). Non il racconto di storie, ma brevi versi che sapranno infervorare le platee di tutta Europa. “I’m not going to write a story, I’m shit at stories!” affermerà Talbot in un’intervista rilasciata al magazine Clash nel 2017. Brutalism è un disco letale, che presenta con perfetto tempismo i nuovi antieroi della scena inglese, capaci di innescare la miccia per una nuova piccola rivoluzione. L’album finirà altissimo in molte chart di fine anno: per molti gli Idles saranno non soltanto la più grande sorpresa post-hardcore, ma addirittura la migliore nuova band del 2017. Un impatto che nessuno, loro per primi, si sarebbe mai aspettato.
Acts of resistance
La strada è delineata, la miccia è innescata, ed è sufficiente un solo anno per avere fra le mani il lavoro successivo, Joy As An Act Of Resistance, pubblicato questa volta dalla Partisan Records. Le chitarre rimangono nervose e affilate, pronte a sferrare nuovi fendenti velenosi (“Never Fight A Man With A Perm”, “Rottweiler”), l’approccio si conferma senza compromessi e il sound diviene ancor più crasso e corrosivo, ossuto e sbilenco. Lo spoken word borbottante e paranoico di Talbot – che a tratti ricorda i mugugni in tonalità basse di Joe Casey dei Protomartyr - si evolve spesso in ritornelli, mostrando anche un discreto piglio melodico. Ma la gioia continua ad abitare lontana da queste cantilene malate e sgraziate, filastrocche strillate rivolgendo un ghigno demoniaco verso la società (il formidabile cavallo di battaglia live “Danny Nedelko”, la divertentissima “Great”).
Anche in questo caso Talbot ha giornate strazianti da raccontare: “June”, adornata da un organetto luttuoso, è il saluto commovente alla sua bimba nata morta qualche mese prima, per la quale fa proprie le parole di Ernest Hemingway “Baby shoes for sale: never worn”, alle quali aggiunge le dolenti autografe: “A stillborn was still born/ I am a father”. Una canzone tanto potente da riuscire ad avvicinare l’ascoltatore a quel dolore. L'ennesima dimostrazione di quanto, tra i feedback che ronzano nelle orecchie, le staffilate violente verso la classe dirigente, i media e i politici, sia sempre ben visibile il cuore di questi cinque irreversibili punk, che fa capolino negli accecanti versi di amore, fratellanza e accoglienza disseminati nelle loro composizioni.
Joy As An Act Of Resistance è un lavoro di grande compattezza, che colpisce nel segno ciascuno dei suoi bersagli, anche se l’esordio resta superiore sia a livello di originalità della scrittura che di impatto complessivo. L’album debutta direttamente al quinto posto delle chart inglesi, battendo due record in Rough Trade: le vendite in pre order e quelle realizzate nella stressa giornata della pubblicazione. Arrivano anche le prestigiose nomination: Brit Awards e Mercury Prize. Il tour promozionale è quasi interamente sold-out, comprese le prestigiose aperture per Maccabees e Foo Fighters (alla O2 Arena!). I diecimila biglietti per il loro show presso l’Alexandra Palace di Londra vengono venduti in meno di 24 ore. Tutto il disagio declinato in parole e musica, nella dimensione live diviene ancor più selvaggio. Per fermare lo stream of consciousness emozionale di quelle serate, gli Idles decidono di registrare il loro primo disco dal vivo, dopo appena due album pubblicati. Scattano la nitida fotografia di un’Inghilterra alla deriva scegliendo un luogo - il Bataclan di Parigi - che ha acquisito significati particolari dopo l’attentato del novembre 2015, quando sul palco c’erano gli Eagles Of Death Metal.
Nel frattempo, sono addirittura aumentati i motivi per essere incazzati: le recenti General Election hanno visto stravincere i Tories, consegnando al Primo Ministro Boris Johnson un mandato rafforzato con su scritto che (una parte de) gli inglesi desiderano uscire quanto prima dall’Unione Europea. Ma come abbiamo già scritto, non c’è soltanto politica nelle canzoni egli Idles: vengono toccati anche temi sociali, immigrazione e femminismo, tutti presenti nel convulso A Beautiful Thing, live album nel quale viene riproposto quasi interamente Joy As An Act Of Resistance (resta esclusa soltanto la personale “June”); il resto del materiale è estratto dal fulminante Brutalism. Tutti i proclami sino allora diffusi, a partire da quelli contenuti in “Mother” e “Danny Nedelko”, acquisiscono ulteriore rabbia e potenza, a sancire il trionfo della moderna nevrosi declinata fra post-hardcore e post-punk. Alcune tracce vengono eseguite con un minutaggio incrementato, compresa la chiusura affidata a una versione tirata per oltre dieci minuti dell’inno antifascista “Rottweiler”.
Why don't you get a job?
Abbiamo già citato l’importanza dei testi nelle canzoni degli Idles. Ma non lasciatevi ingannare: anche se urlate a squarciagola, le liriche trattano non soltanto temi “against”, ma parlano anche di fratellanza, antirazzismo, difesa delle diversità, uguaglianza, unità. Sentimenti e concetti, ad esempio, sanciti in uno dei loro inni più contagiosi, “Danny Nedelko”, dedicato a un amico immigrato ucraino, a sua volta membro della band di Bristol Heavy Lungs. In questo ritratto caldo e accorato, Talbot urla: “He’s made of you, he’s made of me/ Unity!”. Io, tu, i migranti, ma anche i politici bugiardi, siamo tutti fatti della stessa materia.
A volte le invettive degli Idles sono lampanti e dirette, feroci e nude, in altri casi l'accusa va cercata scrutando con attenzione tra le venature ironiche dei versi o nelle allegorie sociali utilizzate. “Weel Done” recita “Why don’t you get a job?/ Even Tarquin’s got a job/ Mary Berry’s got a job/ So why don’t you get a job?”. Ad essere presa di mira è qui la tipica scusa utilizzata dalla classe politica inglese, secondo la quale chi è povero lo è perché non lavora, a causa della propria pigrizia. Dietro queste frasi fatte, gli Idles sbeffeggiano, sarcastici, le malefatte degli stessi politici, che hanno portato a un sistema sociale tutt'altro che egualitario, mai garantista.
La Brexit è l'immancabile bersaglio di “Great”, una traccia che attraverso una giungla di bassi mira a rappresentare la confusione del popolo inglese al momento della disgraziata decisione. Non la passa liscia ovviamente la stampa, specchio di una società marcia: in “Rottweiler” diventa il bersaglio del disgusto di Talbot, che si lava le mani dopo aver letto gli orribili tabloid e, indossati gli occhiali da lettura, preferisce rifugiarsi negli amati vecchi libri. Ad essere attaccata è spesso la società nella sua interezza, con grande spazio riservato a piaghe quali maschilismo e omofobia, spesso burlate e condannate dalla band. In “Mother”, ad esempio, viene messo in chiaro che la violenza sulle donne non si esaurisce nell'atto di uno stupro, di un pestaggio o di un femminicidio, ma ha radici ben più profonde: “Men are scared women will laugh in their face/ Whereas women are scared it’s their lives men will take”.
La band punta il dito contro una società fondata sul modello maschile dominante e condanna chi non vi aderisce. Venire irrisi dalle donne diventa causa di frustrazione e violenza: un cortocircuito letale e inestricabile, da rifiutare e combattere. Lo stesso maschilismo tossico ritorna tra i versi di “Samaritans”, dove Talbot ribalta gli stereotipi cui il genere maschile, sin in età adolescenziale, è messo a confronto: i veri uomini non piangono, non fare la femminuccia, i film romantici sono per la sorellina. A questi velenosi modelli Talbot risponde con limpidezza: “I’m a real boy, boy and I cry/ I love myself and I want to try”. L'omofobia viene invece messa nel mirino in “Colossus” con una metafora che farà divertire tutti i fan del wrestling: “I’m like Stone Cold Steve Austin/ I put homophobes in coffins”.
In “Model Village” è narrato un terribile villaggio-modello dove regnano omologazione, morte dell'individualismo, razzismo e odio. Tutto è perfetto, tutto è standardizzato: moglie modello, indice di criminalità basso modello, automobile modello, ma anche odio modello. In “War” è sufficiente la combinazione dei rantoli onomatopeici di Talbot con la stratificazione operate sulle chitarre per visualizzare le atrocità di qualsiasi conflitto armato. “Grounds” è la minacciosa richiesta ai potenti di dar conto dei morti in guerra, delle vittime di soprusi per i quali nessuno si è mai assunto la responsabilità (“not a single thing has ever ever been mended”), scandita attraverso le sei corde stridenti e sincopate, cadenzate da una cavalcata ritmica math-rock. Potenza e controllo canalizzate ordinatamente, fino all’apocalittico finale.
In “Mr. Motivator”, invece, i nostri architettano una divertente carrellata di personaggi estrapolati dalla cultura pop, da Frida Khalo a John Wayne, dai Fall al campione ucraino di pugilato Vasjl Lomachenko. Ma lo zenith viene raggiunto nello sconquasso fatale di “Reigns”: se fossimo discendenti di una casata nobiliare decaduta, di una famiglia privilegiata di politici, se venissimo da una storia di capitalismo spietato, di dinastie che hanno contribuito a creare guerre, discrepanze sociali e surriscaldamento globale, beh, ci tremerebbero le gambe ad ascoltare Talbot che domanda, urlando, come ci si sente ad avere nelle vene sangue blu e aver ridotto la classe operaia in polvere, ad aver vinto le guerre che nessuno, in realtà, vince per davvero.
Year 2020: How does it feel?
Gli Idles sono una band che piace, e molto, anche a tanti colleghi musicisti. Non è un caso che i Pearl Jam li abbiano scelti per aprire molte delle date che avrebbero dovuto tenere durante il tour europeo programmato per l’estate del 2020, poi rinviato all’anno successivo causa Covid-19. Il bassista dei Pearl Jam, Jeff Ament, postando pubblicamente i propri dischi preferiti del 2019, ha messo sul gradino più alto il live degli Idles, Non potrebbe esserci attività promozionale più efficace: piccole certificazioni di qualità che testimoniano quanto Talbot e soci stiano scardinando il sistema (memorabile l’esibizione ai Mercury Prize 2019, davanti alle super-trendy tavole imbandite con tanto di champagne a profusione) e siano anche per questo motivo apprezzati dai colleghi meno allineati.
Se plausi giungono dai mostri sacri del rock, ampissimi consensi vengono raccolti anche da formazioni loro coeve, o addirittura più giovani. Gli Idles si sono ritrovati loro malgrado a essere fra i portabandiera dell’ultimo revisionismo post-punk in ordine di tempo, quello sgorgato con forza nella parte finale degli anni Dieci, con protagonisti nomi quali Girl Band, Iceage, Protomartyr, Shame, Fontaines D.C. e Murder Capital. Proprio i Fontaines D.C. hanno più volte indicato gli Idles come uno dei loro gruppi preferiti. Anche i mass media li adorano: in questa band che attacca con vigore le convenzioni scorgono una gallina dalle uova d’oro, grazie a un’imprevedibilità in grado di generare visualizzazioni e like a tutto spiano. Contorsioni dei nostri tempi. Sperando che Talbot e soci riescano a evitare il naturale processo di normalizzazione, non lasciandosi imbrigliare da quel sistema che stanno cercando di combattere.
A marzo 2020 mezza Europa viene bloccata dal lockdown, ma gli Idles sono già pronti con un disco nuovo, e iniziano a centellinare le tracce in rete. L’ultimo weekend di agosto presentano da Londra tre set di un’ora cadauno in diretta web, durante i quali viene presentata una selezione di brani già noti assieme a cover riproposte in maniera personalissima e qualche traccia che farà parte di Ultra Mono, il terzo capitolo della band, programmato in uscita per il 25 settembre successivo. Sin dalla diretta streaming londinese risulta evidente il miracolo compiuto attraverso questo album: dare ordine al caos. Ultra Mono suona infatti più “organizzato” rispetto ai lavori precedenti, più “razionale”, meno caotico, pur senza rinunciare nemmeno a un grammo della propria, ormai proverbiale, ferocia. Non è tanto questione di imbrigliare il suono, che anzi fuoriesce da ogni interstizio ancor più potente, bensì di riuscire a gestirlo in maniera più efficace, senza disperderlo, senza sperperarlo. Questo è il principale obiettivo raggiunto, che trasforma in maniera definitiva un gruppo di (almeno all’apparenza) “disagiati” in un’entità artistica definita, consapevole della propria forza, sia balistica che letteraria.
Fino ad ora avevano provveduto a preparare il campo di battaglia, individuando i “nemici” da affrontare, i suoni più adatti a contrastarli e i messaggi migliori per riuscire a disarmarli, conquistando un consenso via via crescente. Ora i tempi sono maturi per scendere nelle piazze, trovandole colme di indignazione. Brexit, Trump, congiunture economiche sfavorevoli, disuguaglianze di genere, nazionalismi, neo-imperialismi, corruzione, ingiustizie assortite, governi incompetenti, bigottismo, promesse fatue. E’ il momento di alzare la voce, di fronteggiare l’avversario, di opporsi ai soprusi, di chiedere giustizia. Il call-to-arms degli Idles si apre con una canzone violentissima, intitolata “War”: traccia programmatica dalla quale non si può prescindere per raccontare il 2020 in musica. I suoni onomatopeici e le urla disperate emesse da Talbot, assieme alle chitarre dissonanti, taglienti, brutali, imitando lo spaventoso suono di una battaglia aerea, confezionano tre minuti di delirio, la realistica visualizzazione dell’orrore, come se ci trovassimo di fronte al drammatico cubismo di Guernica.
E Talbot non si fermerà certo qui: gettata via la museruola, continuerà ad abbaiare e sbraitare per l’intera durata del disco, inveendo come un hooligan contro tutti coloro che gli stanno sulle palle. Da Trump ai campioni della boxe, non guarda in faccia nessuno: invade ogni spazio disponibile con quella tecnica narrativa mutuata dalle consuetudini del free style dei rapper. E’ lui il grande protagonista, sorretto da due chitarre che conferiscono un taglio post-hardcore, perfette nel rincorrersi, coniugarsi, assecondarsi, e la sezione ritmica che non concede mai un solo istante di tregua. Un modo di porsi “against” che rappresenta il fil rouge in grado di congiungere l’esplosione punk al disagio messo in parole dagli Sleaford Mods, centrifugando tutto quello che si è succeduto fra i due fenomeni, ottenendo il risultato al quale Talbot ha sempre puntato: suonare come mai nessun altro prima.
Se le strofe di Ultra Mono sono potentissime, i ritornelli sembrano bombe nucleari pronte a far saltare in aria qualsiasi arena (“Model Village” è fra i più coinvolgenti, con tanto di videoclip firmato Michael Gondry), nuovi slogan da dare in pasto a un pubblico sempre più incredulo, al cospetto di una band che non sta implodendo in sé stessa (come più di qualcuno aveva frettolosamente pronosticato), bensì sta rendendo le proprie posizioni ideologiche e musicali sempre più nette, senza sussulto alcuno. La cosa migliore, secondo lo stesso Talbot, di essere stati ignorati per un decennio, è che tale situazione ha consentito ai membri della band di andare avanti senza che nessuno potesse dir loro cosa non fare. Tu chiamala se vuoi “massima indipendenza artistica”: un’anarchia che si è trasformata nel tempo nella furia selvaggia senza compromessi divenuta oggi un personale marchio di fabbrica. Ribelli che sfidano il “sistema” con un’urgenza a tratti isterica, mescolata al piglio ironico che smorza la tensione, rendendo lo scenario a tratti persino esilarante, divertente per quanto sa trasformarsi in esagerato, come frutto di un Quentin Tarantino declinato in musica. Il loro pubblico gode, e tutto sommato anche i mass media se li coccolano: vi scorgono il prototipo di alternative band perfetto da dare in pasto al circuito, per dimostrare che non tutto ciò che passa è stabilito a tavolino.
Poveri illusi: non saranno gli Idles a lasciarsi imbrigliare nel giochetto. Non certo esteticamente belli da vedere, strafottenti con la faccia impunita, i vestiti improbabili, i baffi spacconi molto anni 70, i chilometri di tatuaggi, continuano a dare più fastidio possibile, inviando giganteschi FUCK a destinatari tutt’altro che misteriosi, enemies non più celati dietro metafore, bensì nudi, puntati e infilzati da nugoli di frecce punk.
Il capitolo ospiti è inaspettatamente affollato: Jehnny Beth si cela dietro i francesismi della mazzata proto-punk dai tratti femministi “Ne touche pas moi”, Warren Ellis arricchisce il finale di “Grounds”, Jamie Cullum suona il piano nel preludio di “Kill Them With Kindness”, brano nobilitato anche dall’intervento di David Yow dei Jesus Lizard, il sassofono di Colin Webster puntella alcune tracce (“Reigns”, in particolare, dove sfida a duello il basso di Adam Devonshire) contribuendo a costruire un wall of sound ancor più prepotente che in passato. La medesima modalità (ma qui ancor più stridente) perseguita dai Protomartyr (band con la quale i nostri hanno non poche affinità) nel recente “Ultimate Success Today”. La produzione è stata nuovamente affidata a Nick Launay, coadiuvato da Adam “Atom” Greenspan, ma il lavoro svolto sui suoni da Kenny Beats, spesso a fianco di giganti dell’hip-hop, appare evidente, specie in “Grounds” o “Mr. Motivator”. Tracce sgolate, fracassone, istrioniche, teatrali, soverchianti, che travolgono con una slavina di elettricità, eppure a loro modo catchy, da cantare all’unisono nel fango, contagiose per come riescono, con tutto il carico di ironia e forza della messinscena, a trasformare rabbia e dissenso in carburante per una nuova necessaria spinta sociale collettiva.
La sintesi finale di un processo chimico, una catarsi che brucia la terra, lasciando nel fortino nemico soltanto polvere e macerie, per poi spargere i semi della ricrescita, del rinverdimento, di un nuovo inizio. Distruggere per poi ricostruire con le regole di una nuova etica. L’unica porzione di miele è somministrata sulle note della maestosa “A Hymn” il primo brano della loro discografia che potremmo provare vagamente ad etichettare come “ballad”, nonché uno dei pezzi migliori del disco, con dentro aromi di Pixies (sentite come viene declinata la parola “Down”), per certificare come gli Idles sappiano anche parlare al cuore, del bisogno di innamorarsi, di sentirsi amati e ricambiati. Una sorta di medicina assunta per l’estremo tentativo di curare la propria perenne inadeguatezza. Quando tutto sembra destinato a sfumare, arriva, quasi inattesa, “Danke”, con il suo drumming tribale e una frase mutuata dal repertorio di Daniel Johnston. Una doppietta conclusiva che rappresenta la parte “romantica” della loro scrittura, un capitolo a sé stante, in grado di conferire ulteriori punti a un lavoro privo di riempitivi.
Are you ready for the storm?
“Ultra Mono" risulta castrato dal protrarsi di un’emergenza sanitaria che ne ha resa discontinua la promozione. Il Covid-19 ha costretto per mesi tutti in casa, e gli Idles ne hanno approfittato per scrivere canzoni, con l’inatteso “lusso” di potersi concedere tutto il tempo necessario per elaborare soluzioni originali e in parte spiazzanti. in grado di far compiere loro significativi passi in avanti. Da questa ennesima serie di sedute psicanalitiche in musica ne sono usciti con Crawler, pubblicato a novembre 2021, un concept album dallo svolgimento paragonabile alla sceneggiatura di un film: il resoconto su come si possa tornare a vivere “felicemente” dopo essere passati attraverso esperienze traumatiche, quali un incidente stradale, una dipendenza, un amore andato a rotoli, la pandemia. Un lavoro che conferma l’intenzione di sganciarsi con gradualità dall’immaginario rigorosamente combat-post-punk-disagio-e-rabbia che si sono abilmente costruiti in questi anni. Il bouquet stilistico diviene quindi più vario, modellato con l’intento di alleggerire la tensione emotiva mano a mano che la narrazione si srotola.
Prima scena. Una strada inglese, è febbraio, probabilmente sta piovendo, Joe Talbot è alla guida della sua automobile quando gli sfreccia potente accanto una “MT 420 RR”, un modello di motorbike particolarmente costoso. Pochi istanti e lo schianto è violentissimo. La moto finisce a tutta velocità contro un’altra vettura, il conducente resta a terra privo di vita, nulla può fare il casco per evitare il peggio. Talbot resta a guardare, senza parole, mentre elabora un parallelo fra l’uscire indenne da un terribile incidente stradale e il riuscire a emergere dal tunnel delle proprie dipendenze, altrettanto letali. E’ lo spunto per la canzone che apre il disco, declamata con fare da crooner maledetto su un tappeto sonoro spoglio, nel quale la batteria si affaccia per pochi secondi soltanto nel finale, e il crescendo evoca il crash fatale sfruttando un vero e proprio movimento al rallentatore. Il tema dell’incidente stradale tornerà poi, con prepotenza, poco più avanti, in “Car Crash”, con sugli scudi una batteria ossessiva intenta a sottolineare vividi flash di testo declamati con metrica hip-hop.
Lo shock dell’incidente catapulta Talbot all’indietro nel tempo, agli anni dell’adolescenza, quando dovette sorbirsi inerme l’autodistruzione di una madre perennemente attaccata alla bottiglia. Una mamma che Joe ha già introdotto al mondo in “Brutalism”, e che ora torna a descrivere in “The Wheel”, dove l’incedere opprimente ricrea alla perfezione la pesante situazione familiare. Il momento plumbeo viene amplificato nella successiva “When The Lights Come”, danza notturna puntellata da un suono di diretta derivazione darkwave, cupo e sofferto, neanche troppo distante dai momenti meno asfissianti dei Joy Division. E’ la parte più drammatica e solenne del disco, che poi si stempererà seguendo un percorso di progressivo alleggerimento dei temi trattati, partendo da toni e situazioni dolenti per slanciarsi verso la gioia di una riacquisita libertà. Se Crawler è il progetto pensato per guidare la transizione, il punto nodale è che proprio quando gli Idles provano a fare qualcosa di diverso dal solito raggiungono i risultati migliori. Quando invece si pongono in scia col passato, adagiandosi sul proprio sound caratteristico (è il caso ad esempio di “Stockholm Syndrome”), la sensazione è quella di ascoltare proposte già sentite da loro, e migliori, in altri dischi. La principale di queste “novità stilistiche” è stata anticipata attraverso “The Beachland Ballroom”, il vero instant classic di questo album, che trova elemento distintivo in una linea vocale dalle impreviste inflessioni soul che le rende un unicum all’interno della discografia del gruppo.
Crawler è un disco fortemente autobiografico, introspettivo, nel quale Talbot non teme di palesare i propri traumi. In “The Wheel” sostiene che se hai un genitore con dei problemi di dipendenza, sarà difficile che anche tu non ne abbia in futuro. La droga prende il sopravvento, si prende tutto, e ti fa perdere tutto, parenti, amici, modificando le tue abitudini. Le dissonanti chitarre di “Meds”, all'ansiosa ricerca dei Sonic Youth, sottolineano alla perfezione questo ventaglio di sensazioni. Se “Ultra Mono” voleva dire la sua sui grandi temi di attualità, quali Trump e Brexit, anche Crawler butta un occhio al TG della sera. Diventa così impossibile evitare di sbeffeggiare quel bell’imbusto di Rishi Sunak, rampante Ministro delle Finanze inglese, il "Cancelliere della Scacchiere", nonché aspirante futuro premier. Sunak durante il lockdown rilasciò infelici dichiarazioni: invece di valutare sovvenzioni per un comparto brutalmente colpito dalla pandemia, esortava gli artisti e i lavoratori dello spettacolo a trovarsi un nuovo impiego. Eccola qui la “The New Sensation” inglese, irrisa attraverso un'ironica invettiva anti-governativa. Ma la vera risposta di Talbot è stata tenere duro: orgoglioso della propria professione, non vedeva l’ora che si concludesse l’oscuro periodo di restrizioni, per tornare a gridare da un palco tutto il proprio disagio.
Le dipendenze possono ridurti in briciole, condurti in una corsia d’ospedale, oppure in un centro di riabilitazione, dove ti ritrovi – non soltanto metaforicamente – prima in ginocchio, poi a strisciare per terra, accusando tutto il peso del mondo che spinge sulla tua schiena. Queste le sensazioni che segnano la vibrante e significativa “Crawl!”. A carponi sul tappeto, come in quel vecchio brano dei Genesis, ricordate?, e potrebbe non essere un caso il fatto che a un certo punto venga nominata la parola “The Lamb” forse una voluta citazione dal doppio capolavoro del 1974. Ci sono dei momenti nei quali sembra davvero finita, e l’unica intenzione è quella di ritornare a casa, volontà espressa nel mantra vagamente psichedelico di “Progress” (anticipato dalla breve intro strumentale “Kelechi”). E’ una delle tracce dallo svolgimento più interessante presenti in Crawler, uno dei frangenti di maggiore sperimentazione, con un testo basato sulla presa di coscienza della propria situazione auto distruttiva, e sul desiderio di tornare a vivere nei propri spazi.
Lo slancio tellurico di “Wizz”, una revolverata hardcore iper veloce che si consuma nello spazio di trenta secondi, congegnati con l’intenzione di ricreare la “botta” che sopraggiunge dopo una sniffata di cocaina, chiude il periodo di riabilitazione, con un testo slogan involontariamente regalato dallo spacciatore di Talbot, rintracciato dal cantante in un messaggio ricevuto dopo averlo rimosso dalla rubrica. L'ultima scena di Crawler si apre con “King Snake”, un inno alla normalità, l’auto-accettazione del proprio essere persona comune, sottolineata a un certo punto con il divetente utilizzo del sostantivo “Assistant” ripetuto con una rabbia oramai stemperata dalla raggiunta consapevolezza. “The End”, il brano conclusivo, rappresenta la fine della sofferenza, la gioia ritrovata, il ritorno alla purezza, l'apprezzamento della semplicità. “In spite of it all / Life is beautiful”: non ricordo una frase tanto positiva pronunciata dalla voce di Joe Talbot. L'eccitazione del tornare a casa e ritrovare ogni cosa al proprio posto, eliminando per semrpe tutto il disordine, fisico e mentale. Di nuovo sé stessi. Poi, alla fine della proiezione, saranno in molti a sostenere che gli Idles siano più fighi quando spingono di brutto, con la pompa al massimo e i led del mixer tutti sul rosso, ma il messaggio più eccitante chi ci arriva dall’ascolto di Crawler è che oggi da loro ci si può legittimamente aspettare - e ricevere - anche altro…
Per celebrare il quinto compleanno di Brutalism, a novembre del 2022 gli Idles pubblicano Five Years Of Brutalism, doppio vinile rosso (il rinnovato artwork è disegnato dal leader Joe Talbot) con la tracklist originale affiancata da un secondo supporto che documenta l’esibizione tenuta al Festival di Glastonbury nel giugno 2022, durante la quale la band inglese ha eseguito integralmente proprio Brutalism, con l’unica variante delle ultime due tracce proposte in ordine invertito.
Five Years Of Brutalism fornisce un motivo in più per riascoltare tredici canzoni tutte d’un fiato, nella duplice veste studio/live, facendoci rammentare i motivi per i quali iniziammo ad apprezzare sin dai primi passi questo gruppo di loser provocatoriamente folli.
Il disco più imprendibile e inqualificabile degli Idles però è il loro quinto: Tangk. Intitolato come il suono di una pennata sulla chitarra distorta, o quello di un cuore che batte. Due cose che quando si parla degli alfieri del nuovo post-punk coincidono spesso e volentieri.
Mai come questa volta, alla luce di una varietà di soluzioni che ha dello schizofrenico, la coerenza del disco non è da ricercarsi nello stile, quanto nel messaggio di cui si fa carico. Una novella intrisa di unità, comunione, socialismo verrebbe da dire, sudore, voglia di ballare e di urlare, la propria indignazione quando la propria felicità.
Anche la scelta dei produttori e degli ospiti utilizzati per la realizzazione di Tangk guarda, se non proprio alla sperimentazione, alla ricerca costante di nuove soluzioni espressive. La presenza di un pezzo da novanta come Nigel Godrich (Radiohead, Beck, etc etc) esalta i numerosi lenti ricolmi di preziose finiture e passaggi incantevoli (i pianoforti di cristallo di “Idea 01”, il grazioso intermezzo “A Gospel”, l’elettronica inquieta di “Grace”), mentre quella di un guru hip-hop come Kenny Beats (Denzel Curry, Vince Staples) fornisce nuove strategie agli assalti vocali di Talbot – su tutti una “Gift Horse” che live, nota la capacità da sobillatori di folle dei cinque, potrebbe rivelarsi addirittura pericolosa. Godrich e Beats sono stati affiancati alla produzione però dal chitarrista della band Mark Bowen, una scelta che dona fluidità e coesione alla scaletta.
Sorretto da una sezione ritmica sincopata e chitarre sfreccianti, “Dancer” sarà per i fan della band un vero e proprio nuovo inno. Fanno qui la comparsa i cori di James Murphy e Nancy Whang degli LCD Soundsystem, rendendo la canzone l’ulteriore dichiarazione di intenti di un album pensato per la catarsi e il divertimento sfrenato. Il brano più indecifrabile di tutti è però “Roy”, un tentativo di ballad ariosa e accorata a-là U2 con Talbot a sgolarsi come Bono ma coi polmoni di Shane MacGowan. Una roba tanto improbabile quanto irresistibile.
Prima della conclusione jazzata di “Monolith”, la quinta fatica degli Idles cala un tris di brani meno sbalestrati degli altri e più in linea con il passato, tutti comunque godibili e debitamente tonitruanti. “Hall & Oates” è un dance punk fulminante e conciso, “Jungle” racconta la necessità di salvarsi a vicenda e “Gratitude” scarica elettricità attraverso un lavoro di chitarre implacabile e un ennesimo ritornello da borbottare a memoria.
Così come (più o meno tutti) i lavori che lo precedono, “Tangk” è un’ottima collezione di canzoni di enorme immediatezza e sicuro coinvolgimento. Questa volta però, in quanto a creatività e invenzioni, gli Idles sono andati ancora oltre e a questo punto una cosa è chiara: il post-punk potrebbe passare di moda, loro difficilmente.
Nello spazio di appena quattro album, gli Idles hanno dato un’impronta determinante al passaggio storico che stiamo vivendo, caratterizzato da decine di band dall’approccio ultra-incazzato, brave nel saper attingere dal dissenso e dal malessere di una generazione per elaborare i manifesti musicali di un’epoca. Idles in Europa, Protomartyr dall’altro lato dell’Oceano, oltre a un intero movimento post-punk, sempre più corposo, che si sta imponendo negli ultimi anni, e ancor più negli ultimi mesi, come il migliore – e il più coeso - di sempre, fatta eccezione per i padri storici, quelli che stabilirono le coordinate del genere.
Gilla Band, Iceage, Fontaines D.C., Shame, Murder Capital, assieme ad altri venuti alla ribalta ancor più di recente, quali Do Nothing o The Cool Greenhouse. Tutto molto eccitante. Ma se c’è chi oggi, in questa importante nidiata, sa porsi in maniera laterale, riuscendo a non assomigliare a nient’altro, beh, questi sono senz’altro gli Idles. Consci, e tutt’altro che intimoriti, del ruolo guida che stanno involontariamente acquisendo.
Welcome (Ep,Fear Of Fiction, 2012) | 5,5 | |
Meat (Ep,Balley, 2015) | 6,5 | |
Meta(Ep, Balley, 2015) | 6 | |
Brutalism(Norman, 2017) | 7,5 | |
Joy As An Act Of Resistance (Partisan, 2018) | 7 | |
A Beautiful Thing (live,Partisan, 2019) | 7 | |
Mercedes Marxist / I Dream Guillotine (Ep, Partisan, 2019) | 6 | |
Ultra Mono(Partisan, 2020) | 8 | |
Crawler (Partisan, 2021) | 8 | |
Five Years Of Brutalism (Partisan, 2022) | 7,5 | |
Tangk (Partisa, 2024) | 8 |
26/27 | |
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Germany | |
Two Tone | |
Queens | |
The Idles Chant | |
Romantic Gestures | |
Mother | |
Well Done | |
Stendhal Syndrome | |
Divide & Conquer | |
Danny Nedelko | |
Samaritans | |
Great | |
Never Fight A Man With A Perm | |
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