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Paranoia dub

I PiL - la band nata dall'abbandono dei Sex Pistols da parte del cantante John Lydon - sono uno degli esperimenti più interessanti del dark-punk, in bilico tra tribalismo etnico, cerimoniali funebri e ambientazioni psichedeliche

di Claudio Fabretti, Mauro Roma

Abbandonati i Sex Pistols, Johnny "Rotten" Lydon fonda i Public Image Limited (PiL) con i quali dà vita a un progetto sperimentale dalle tinte oscure e dalle atmosfere claustrofobiche, vicino al dark-punk di Siouxsie and The Banshees e Joy Division. Ciò che nei Sex Pistols era rabbia selvaggia, nei PiL si tramuta in dramma psicologico: una rappresentazione sinistra e paranoica dell'angoscia esistenziale e del "mal di vivere". Nei PiL, l'ex re del punk ha la possibilità di poter dar libero sfogo alla sua creatività, situandosi nel solco di sperimentatori quali Wire, Gang Of Four, Fall e rifacendosi a una variegata gamma di suoni: dai Can a Captain Beefheart, dal reggae dub alla musica etnica, unita alla visceralità del post punk. Il risultato è una delle miscele sonore più intriganti della new wave britannica.
La prima formazione annovera il lugubre basso "dub" di Jah Wobble, la chitarra tagliente di Keith Levene (ex-Clash) e la batteria tribale Tim Walker. Su questa architettura sonora si spandono i vocalizzi da muezzin di Lydon, disperato profeta di un'apocalisse prossima ventura, le cui allucinanti trinodie rappresentano una nuova frontiera del canto nella musica rock.

Il primo album, First Issue (1978), è immerso in atmosfere desolate e alienanti, che spaziano dalla "danza macabra" di "Fodderstompf" all'hardcore tetro di "Theme" fino al robusto inno di "Public Image".

Ma è con il successivo, doppio album Second Edition (originariamente pubblicato come Metal Box, in una singolare confezione di metallo) che i PiL riescono a forgiare al meglio il loro sound, combinando tribalismi ritmici, propulsi dal basso lugubre di Wobble, con atmosfere stranianti e lisergiche.
Un calvario che comincia sin dall'apertura della porta di una stanza densa di fumo, da occludere la vista e costringere ad arrancare in un disordine pieno di spigolosi frammenti lasciati cadere dal basso in preda a un cupo, lancinante singhiozzo: "Albatross". Dieci stressanti minuti all'insegna della claustrofobia più allucinata.
Ma la volontà di potenza è tale da uscirne indenni, e indossare con mirabile schiettezza ogni singolo brandello, superstite di una guerra contro il proprio, urticato sistema nervoso, attraverso una danse macabre, convulsamente arabeggiante e come abbarbicata a un albero malato durante l'apocalisse ("Memories").
Subito dopo, in tre asfissianti movimenti di un Sé schiantatosi contro la sua stessa fobia, ci si lancia in un ammorbante precipizio dub di cui si preghi non esista un fondo ("Swan Lake", meravigliosa rielaborazione "acida" del "Lago dei cigni" di Tchajkovskij, con un Lydon lacerante al canto e la chitarra di Levene ad alternare ricami e sferragliate). "Pop Tones" è un appiccicoso collante di trame sonore vibranti un'angoscia che pare rispondere, a suo modo, agli episodi di più desolante sbriciolamento interiore di Ian Curtis ("Careering").
La seconda parte del disco prosegue con le ritmiche agghiacciate della strumentale "Graveyhard", con Jah Wobble che decide di titillare quanto di più lentamente sanguinolento possa venir fuori dal suo basso.
L'osservazione di un'umanità ridotta al mortificante schematismo scandito da un'inconsapevole obbedienza a bisogni primari e secondari diventa il tema centrale della monotonia annoiata in "Suit", per poi ridestarsi di adrenalina nell'atmosfera elettrizzata di "Socialist", psycho-dance pre-A Certain Ratio, con l'ultimo spezzone di questa inestricabile bobina sciolta in lacrime liberatorie, dopo la disperazione di una lunga crisi di nervi ("Radio 4").
Una crisi di nervi che, salvifica, trova la sua più dolorosa, ma risolutiva catarsi in una scatola di metallo, dove tutto è pietrificato ed elettrificato, ancora singhiozzante il più violento elettrochoc che la società, nemico uno della consapevolezza, potesse infliggere al fragile tessuto interiore proprio dell'uomo post-moderno.

Per Flowers Of Romance (dal nome della prima band di Sid Vicious), i PiL rinunciano al bassista Jah Wobble e ingaggiano il batterista Martin Atkins, aumentando la gamma degli strumenti con violino, batha, cornamuse, percussioni africane e di Bali. "Ma i suoni esotici non seguono uno scopo preciso - spiegava la band - Non amiamo un genere particolare di musica, al momento, ascoltiamo solo suite rinascimentali. E ci interessa solo sperimentare sulla musica elettronica, specie sull'ambient music".
I "fiori" dei PiL sono brani ossessivi, tesi, stranianti. I ritmi ossessivamente tribali scanditi da Atkins e i maniacali flussi di coscienza intonati da Lydon sono in pratica tutto ciò che compone la struttura dei brani. Qua e là compaiono timidi strati di elettronica e distorsioni di chitarra, il basso è un accessorio occasionale. Il risultato è un disco che col punk e col dark conserva soltanto una parentela superficiale, ma che punta verso la musica d'avanguardia.
"Four Enclosed Walls" apre l'album con Martin Atkins intento a tenere un ritmo regolare e preciso come un metronomo: ma il canto di Lydon se ne va invece da tutt'altra parte, avulso dall'ossatura del brano, simile più a un agonizzante muezzin mediorientale che agli sberleffi del vecchio Johnny Rotten. Ancor più complessa è "Track 8": stavolta il ritmo di Atkins diventa ansiogeno e oscuro come da manuale dark-punk ma ancora una volta nessuno degli altri musicisti sembra aver voglia di accodarvisi: Levene si lancia in un concerto per dissonanze chitarristiche, il basso si limita a borbottare svogliato e scostante, Lydon recita poche battute come in trance. "Phenagen" rompe così gli indugi e abbandona una volta per tutte qualsiasi somiglianza con la musica rock: stavolta è un piano scordato e stonato a dettare il tema, abbandonato dalla litania intonata da un Lydon ben oltre l'orlo della crisi di nervi e accompagnato da campane, deboli pulsazioni, stordenti distorsioni chitarristiche.
La title track complica l'arrangiamento introducendo violini e cori spettrali, insieme ad una lieve presenza dell'elettronica: ma a dominare la scena sono sempre le percussioni etniche di Atkins e il canto di Lydon, che aggiorna lo spleen dei poeti maledetti alla psiche deragliata della generazione punk.
Straordinario è il binomio formato da "Under The House" e "Hymie's Him", due assoli di un Atkins sempre più scatenato: la prima vede la voce e gli effetti relegati sullo sfondo rispetto allo show del batterista: la seconda è uno strumentale in cui al concerto per percussioni di volta in volta dissonanti, metalliche, cerimoniali e industriali, si affiancano droni di tastiere che conferiscono al pezzo una statura visionaria e misteriosa che recupera la vera essenza del "dark". "Banging The Door" è forse il pezzo più convenzionale, mentre "Go Back" tenta addirittura di recuperare le radici del "rock" con il riff iniziale di Levene: peccato che il canto robotico di Lydon e il contrappunto di poche, sparute note pianistiche facciano naufragare anche solo una parvenza di normalità in un caos demoniaco. E' il momento per la chiusura, affidata a "Francis Massacre", il pezzo più allucinato dell'opera: Atkins picchia come un dannato su qualunque cosa trovi a portata di mano, Lydon urla come uno psicopatico, in sottofondo si avvertono ronzii elettronici e fugaci interventi pianistici.
Nulla avviene a caso nel disco, tutto è calibrato con cura certosina per ottenere un effetto di totale disgregazione dei suoni, delle parole, persino delle immagini che riesce ad evocare in ogni istante questo unico, monolitico, delirante e terrorizzante kammerspiel che è Flowers Of Romance. Come per "Ju-Ju" di Siouxsie and The Banshees, l'uso della musica etnica, combinato con l'elettronica, converge in una sorta di trance allucinata, in un rituale esoterico dai risvolti macabri.

Nei lavori successivi, si attenua la vena sperimentale, ma la qualità della scrittura e delle intuizioni resta ancora alta, almeno negli episodi di punta. Come ad esempio il singolo "This Is Not A Love Song" (1983), che riesce a coniugare l'atmosfera claustrofobica degli esordi con un ritmo irresistibile da discoteca, diventando una delle loro massime hit. Sarà anche il brano-rompighiaccio del successivo album This Is What You Want (1984), assieme alla strepitosa "The Order Of Death", costruita anch'essa sulla ripetizione ossessiva della stessa frase ("This is what you want/ This is what you get") scandita da beat martellanti e da splendide frasi di tastiere, che fendono il buio come lame.
Queste e altre intuizioni riescono in parte a far dimenticare l'assenza di un cardine del gruppo come Levene.

Nel 1985 Lydon collabora con Africa Bambaataa per un Ep e di lì a poco realizza Album (1986), con una straordinaria formazione composta da Steve Vai alla chitarra, Ginger Baker alla batteria, Bill Laswell al basso, Ryuichi Sakamoto alle tastiere e Ravi Shankar al violino. Ma nonostante alcuni brani suggestivi (su tutti "Rise"), Lydon sembra aver perso lo smalto dei tempi migliori.

Happy (1987), con John McGeoch (Magazine, Siouxsie and The Banshees) alla chitarra e Bruce Smith dei Rip Rig & Panic alla batteria, accentua le sonorità funky e disco, centrando un buon hit ("Seattle"), ma aggiungendo poco al loro repertorio.

Il successivo 9 (1989) è ancora più banale, e riserva solo la chiassosa esuberanza del singolo "Happy". Il successo di un altro singolo, "Don't Ask Me", fa da preludio a quel That What Is Not (1991) che segna il mesto canto del cigno di una band ormai priva di idee. Dopo aver più volte accusato l'industria discografica di "pretendere solo stupidi brani di boogie", Lydon sembra aver ormai abiurato ogni intento sperimentale.
E il suo album solista Psycho's Path (1997) è solo la revisione in chiave techno-pop del furore punk dei Sex Pistols e del cerimoniale funereo dei PiL. Una strada che però abbandonerà presto, con l’idea di riformare i PIL. A questo scopo, per raccogliere fondi, partecipa anche a un controverso spot pubblicitario del burro della "Country Life". Ma non è l’unica stravaganza di Lydon, infatti 2 anni prima aveva partecipato al reality show "I'm a Celebrity... Get Me Out of Here!" trasmesso dalla rete ITV, sorta di versione inglese del format "L'isola dei famosi", la cui edizione si svolgeva in Australia. Poi presenterà anche un documentario sugli insetti e i ragni intitolato "John Lydon's Megabugs" ("Gli insetti di John Lydon") trasmesso da Discovery Channel.

Ma la agognata reunion dei Public Image Ltd. avviene davvero.
This Is P.I.L.: più che un titolo un proclama segna il ritorno della storica sigla di Lydon nel 2012. Ma ciò che balza subito all'orecchio è un suono davvero tanto debole a fronte di un Lydon, aggressivo e a suo modo credibile come sempre, a cui si aggiungono gli slanci lirici da lui maturati negli ultimi anni. Nessuna batteria dal suono industriale o chitarre a fendere l'aria con sciabolate, contro le reiterate urla "we cannot change us" di "One Drop" dove il canto sposa cadenze reggae a declamazioni punk (di post-punk, qui neanche l'ombra). Va appena un po' meglio con "Deeper Water", dove la melodia è piacevole, per quanto ripetitiva (non avevamo certo paura di dimenticare il bridge anche se questo fosse stato cantato una decina di volte in meno) e l'arrangiamento con qualche guizzo, anche di suono. "Terra-Gate" è invece un episodio davvero convincente e ispirato. La fredda e passionale aria da Sturm und Drang torna a spirare e forte, tra grandi riverberi, suoni diretti e lancinanti, un'interpretazione vocale superlativa.
Il tentativo di svecchiamento di cliché passati in "Human", pur con il classico impegno socio-politico del testo, mai più indicato in questo buio maggio, non funziona del tutto. Rimane il "solo" di chitarra di Lu Edmonds al minuto 2'32 a riaccendere gli animi. "I Must Be Dreaming" punta a un rock radiofonico ben sostenuto dal basso trattato di Scott Firth, ma nulla di che, anche qui con dovizia di coretti ad annacquare un brano di per sé null'affatto memorabile. "It Said That" è, invece, un episodio di ottimo livello, capace di aprirsi a melodie arabeggianti su ritmiche e cantato post-punk. Questo appare sì come un possibile e interessante nuovo volto nella storia di questa band. "The Room I Am In" è altrettanto interessante, con la sardonica declamazione del testo in forma recitata, associata all'ipnosi lisergica dell'impianto strumentale. "Lollipop Opera" gioca con il punk, l'elettronica, l'hip-pop, in maniera curiosa ma tale da risultare un po' cartonata in studio, sarei curioso di ascoltare il brano dal vivo. Una sorpresa, comunque. Non male "Fool" e "Reggie Song", insopportabile "Out Of The Woods", alleggerita appena da un banjo nella sezione centrale che allenta l'eccesso radiofonico del brano, esasperato per giunta dai suoni elettronici (fuori luogo) di Firth alle tastiere.
Un ritorno che non esalta né delude, meglio di quanto fatto dai Bauhaus con "Go Away White". Saranno anche i PiL, ma il furore sonico degli esordi è un ricordo lontano.

Tre anni dopo arriva il seguito, What The World Needs Now... (2015). Undici brani che non aggiungono granché al repertorio attuale dei Public Image Ltd.
Lydon si cita addosso, con un certo mestiere e un'indubbia autoironia, dal punk straniante di "Double Trouble" allo pseudo-reggae di "The One", dal pop acido di "Spice Of Choice" e "The One" al funk di "Whole Life Time". A puntellare le sue sempre ficcanti performance vocali, il consueto basso cupo e una chitarra che sa essere dissonante ma anche leggera. Il risultato, però, è solo un'onesta rivisitazione di un sound che ha già dato da tempo il meglio di sé.

End Of World (2023) segna il ritorno dei Pil dopo otto anni e conferma una band che ripete tipici stilemi post-punk senza cercare particolari svolte, giungendo in fin dei conto a produrre una serie di brani che sarebbero stati scarti dei loro lavori più celebrati.
E’ davvero difficile immaginare che qualcosa di questo album possa entrare anche solo come bonus track negli Lp classici del gruppo inglese. Dando per assodato questo postulato, non si può negare che “Penge” sia un buon brano post-punk, come anche la title track abbia una base di chitarra solida e la voce di Lydon non sia cambiata più di tanto rispetto a quella della giovinezza. Tra autocitazioni (il basso di “LCFC”, il canto istrionico di “The Do That”), sinceri cenni autobiografici (la pioggia che cade sul clown triste di “Down On The Clown"), la new wave di “Car Chase”, non è facile però trovare momenti davvero esaltanti.
Sorprendono (in negativo) alcuni testi particolarmente conservatori, scritti proprio da chi nella sua giovinezza ha fatto della trasgressione e del superamento dei vecchi idoli del rock la sua carriera. Ad esempio, quelli di “Being Stupid Again” (forse il brano più originale) dove Lydon prende in giro le nuove generazioni accusate di stupidità per protestare per motivi che gli appaiono stupidi (dall'ambiente alla difesa delle balene alla contrarietà alla guerra), accusati di essere solo hippie che si sentono Marx o Lenin.
Il giovane ribelle Lydon “Rotten” oggi è diventato come un padre un po' bacchettone che fa le prediche ai figli, e questo è di certo il suo peccato più grave.

Contributi di Mimma Schirosi ("Metal Box"), Claudio Milano ("This Is P.I.L."), Valerio D'Onofrio ("End Of World")

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Discografia

Public Image/First Issue (Warner, 1978)

7

Metal Box/ Second Edition (Virgin, 1979)

9

Paris Au Printemps (live, Virgin, 1980)

Flowers of Romance (Warner, 1981)

9

Live in Tokyo (Virgin, 1983)

This Is What You Want (Virgin, 1984)

7

Album (Elektra, 1986)

6

Happy? (Virgin, 1987)

5

9 (Virgin, 1989)

5

The Greatest Hits, So Far. (Virgin, 1990)

That What Is Not (Virgin, 1992)

5

John Lydon: Psycho's Path (Virgin, 1997)

5,5

This Is P.I.L. (Pil Official, 2012)

5

What The World Needs Now... (Pil Official, 2015)

5,5

End Of World (Pil Official, 2023)

5

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